Cosa occorre ai fini dell’integrazione dell’ipotesi di cui all’art. 326, comma terzo, cod. pen.
(Ricorso dichiarato inammissibile)
(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 326, c. 3)
Il fatto
Il Tribunale del riesame di Catanzaro, adito ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen., annullava la misura cautelare degli arresti domiciliari applicata nei confronti di un indagato in ordine al reato di cui agli artt. 61 n. 2, 110 e 326, comma terzo, cod. pen. allo stesso ascritto per aver concorso, quale istigatore/determinatore, nella rivelazione di notizie di ufficio, che dovevano rimanere segrete.
La rivelazione concerneva notizie riguardanti un procedimento amministrativo relativo ad una “interdittiva antimafia” mentre la decisione di annullamento si fonda sul rilievo di come dagli atti di indagine non emergesse alcun contributo partecipativo ascrivibile a questo indagato.
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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso questo provvedimento proponeva ricorso per Cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro adducendo un unico motivo avente ad oggetto la violazione di legge e il vizio di motivazione.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso proposto veniva dichiarato inammissibile facendosi in particolare presente che la fattispecie oggetto di addebito riposa non tanto sulla rivelazione, bensì sulla condotta, non necessariamente destinata a tradursi in un’esternazione, tenuta dal soggetto qualificato, che si avvale illegittimamente di notizie di ufficio che devono restare segrete, e ciò fa per procurare un ingiusto profitto patrimoniale o, nella ipotesi minore, per procurare un danno ingiusto o un profitto non patrimoniale (Sez. 6, n. 737 del 14/10/2009) rilevandosi al contempo che, ai fini dell’integrazione dell’ipotesi di cui all’art. 326, comma terzo, cod. pen., occorre che «il pubblico ufficiale sfrutti, a scopo di profitto patrimoniale o non patrimoniale, lo specifico contenuto economico e morale, in sé considerato, delle informazioni destinate a rimanere segrete e non il valore economico eventualmente derivante dalla loro rivelazione» (Sez. 6, n. 4512 del 21/11/2019; Sez. 6, n. 9409 del 9/12/2015, dep. 2016).
Orbene, declinando tali criteri ermeneutici rispetto al caso di specie, ad avviso degli Ermellini, nel caso di specie, né l’ordinanza genetica (annullata dal Tribunale), né il ricorso del Pubblico ministero, pur descrivendo condotte di rivelazione di notizie, contenevano un riferimento specifico allo sfruttamento di esse in relazione al contenuto economico e morale delle stesse.
Conclusioni
La decisione in questione è assai interessante nella parte in cui si chiarisce la portata applicativa dell’art. 326, c. 3, c.p.p. che, come è noto, prevede quanto segue: “Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, per procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale, si avvale illegittimamente di notizie d’ufficio, le quali debbano rimanere segrete, è punito con la reclusione da due a cinque anni. Se il fatto è commesso al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale o di cagionare ad altri un danno ingiusto, si applica la pena della reclusione fino a due anni”.
Difatti, in tale pronuncia, citandosi precedenti conformi, viene postulato che, ai fini dell’integrazione dell’ipotesi di cui all’art. 326, comma terzo, cod. pen., occorre che il pubblico ufficiale sfrutti, a scopo di profitto patrimoniale o non patrimoniale, lo specifico contenuto economico e morale, in sé considerato, delle informazioni destinate a rimanere segrete e non il valore economico eventualmente derivante dalla loro rivelazione.
Tale provvedimento, dunque, può essere preso nella dovuta considerazione al fine di verificare la sussistenza di questa ipotesi delittuosa.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in cotale sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su siffatta tematica giuridica, di conseguenza, non può che essere positivo.
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