Regolarità del “commercio” di farmaci emoderivati

La pronuncia in commento affronta la spinosa questione del commercio di emoderivati
Il Consiglio di Stato pone l’attenzione sulla necessità di garantire la concorrenza anche in questo settore “merceologico”, il cui fulcro poggia sulla gratuità del sangue umano. Detto principio è sancito nella l. n. 219 del 2005, il cui articolo 4 esplicita come il sangue umano non sia oggetto di profitto. Tale norma è l’ossequiosa longa manus della disciplina comunitaria nella materia di cui si tratta, cioè la Direttiva europea n. 2002/98/Ce.
La vicenda portata alla cognizione del Supremo Collegio della Giustizia amministrativa ha ad oggetto la lista, vergata dal Ministero della Salute, delle imprese autorizzate a produrre emoderivati, la quale deve essere redata per come imposto dalla legge n. 219 del 2005.
Uno dei requisiti che la normativa da ultimo menzionata impone, tra gli altri, è che il processo di frazionamento del plasma venga effettuato presso stabilimenti ubicati in Paesi dell’Unione Europea, in cui il plasma raccolto non sia oggetto di cessione a fini di lucro e venga lavorato in regime di libero mercato, compatibile con l’ordinamento comunitario.
In tale ottica, la necessaria gratuità delle donazioni di sangue deve essere interpretata con un ragionamento ex adverso: se si prevedesse un compenso, si implementerebbe il fenomeno delle donazioni occasionali, così ingenerando il rischio di una carenza della qualità del “prodotto” e possibili ricadute negative sulla salute pubblica, prescindendo anche dall’eventuale serietà dei controlli esperibili.
La doglianza proposta dalla società ricorrente per Cassazione mirava all’esclusione di due imprese concorrenti dall’elenco di quelle abilitate alla lavorazione del plasma tenuto dal Ministero della Salute, in quanto le stesse avevano stabilimenti rispettivamente in Svizzera e Svezia, in cui il sangue può essere venduto a scopro di lucro.
L’impianto motivazionale dei supremi Giudici amministrativi si incentra su due aspetti
il primo è legato all’accordo internazionale stipulato tra Svizzera e l’allora Comunità Europea il 21 lipanj 1999, sul reciproco riconoscimento della conformità e validità dei marchi e delle autorizzazioni rilasciate. Tale stipulazione consente di ritenere che gli stabilimenti situati in Svizzera siano autorizzati ad operare il frazionamento del plasma.
Il secondo e più significativo aspetto dell’iter motivazionale dei Supremi magistrati amministrativi è quello che si fonda sul ribadire il divieto di lucro nella raccolta di sangue umano. Come sommariamente esteso, detto veto è posto a fondamento del rischio di contaminazione delle partite di sangue oggetto di cessione remunerata. Nondimeno, detto rischio viene meno se, in linea generale, in un determinato Paese la raccolta di sangue umano si fonda su donazioni non remunerate e, solo in via residuale, vi sono eventuali cessioni di sangue a titolo oneroso. doista, una minima percentuale di “vendita” non mette a repentaglio l’apparato protettivo che la normativa italiana ha inteso creare.
Ammettere un veto di tal fatta, lo stesso sarebbe del tutto irragionevole e sproporzionato, dunque in contrasto con il principio di libera concorrenza.
Da ciò deriva, Ali, un’evidente disparità di trattamento tra le imprese italiane ed estere. Queste ultime, se stabilite in uno Stato membro dell’Unione Europea, possono commercializzare a fini di lucro il sangue nel loro Paese. Viceversa, le prime no, poiché verrebbero escluse dall’elenco tenuto presso il Ministero della Salute.
Nel nostro ordinamento, infatti, il commercio di sangue non può mai costituire fonte di profitto, neanche quando il prodotto sia frutto di una raccolta fatta esclusivamente a titolo gratuito.
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