Lo scandalo della Banca Romana e il problema dei rapporti tra poteri istituzionali
Nello scandalo della Banca Romana che venne a travolgere ai primi degli anni ’90 dell’Ottocento il governo Crispi, di riflettono molte delle problematiche emerse successivamente nel corso del ‘900 e dei primi decenni del nuovo Millennio, da qui una breve riflessione sull’agire della classe politica e della difficoltà dei rapporti tra istituzioni.
Già nel corso degli anni ’80 si era manifestata una crisi economica di cui la caduta dei prezzi agricoli ne era un indicatore, la situazione venne aggravata dallo sgonfiarsi della bolla edilizia che ebbe ad investire tutti gli istituti italiani di credito, in particolare l’area di Roma la quale con il trasferimento della capitale da Firenze aveva raddoppiato in venti anni la popolazione, passando da 200.000 abitanti a 400.000 residenti.
Correntemente si ipotecavano via via i piani già costruiti, finanziando in tal modo i successivi piani in costruzione, nell’intento di ampliare il credito le banche emettevano carte di credito oltre i limiti consentiti dalla legge, quelle definite come “sofferenze” durante lo scandalo.
A peggiorare la situazione vi era una guerra in atto tra i sei istituti di emissione, in cui le banche più forti rastrellavano quanti più titoli potevano delle banche rivali e ne chiedevano il pagamento, cercando in tal modo di mettere in difficoltà le banche rivali, ma creando al contempo una crescente massa di liquidità irregolare, un sistema che aveva già rovinato la Banca Tiberina, salvata nel 1889 dal governo Crispi.
Il pericolo si ripresentava più grave per la Banca Romana, situazione che richiedeva una energica ed ampia ristrutturazione di un sistema bancario fuori controllo, era naturale affidare a Giolitti la soluzione del problema quale persona riconosciuta universalmente esperta dell’apparato burocratico e dei suoi rapporti con il sistema bancario.
L’intervento di Giolitti rivelò la gravità dei fatti che finirono per travolgerlo con l’accusa di connivenza, senza riuscire a salvare la Banca Romana, lo scandalo travolse il credito finanziario italiano con l’impennata dell’oro. La trascuratezza nella regolamentazione e la consuetudine invalsa di permettere una circolazione cartacea oltre i limiti legali per sostenere il credito finanziario, era talmente avanzata che qualsiasi intervento nell’eliminare l’abuso comportava un discredito della carta – valuta italiana, né il sistema poteva continuare procrastinando l’inevitabile crollo.
Mediante l’istituzione di commissioni di indagini e in particolare di un apposito Comitato dei Sette emersero principalmente le responsabilità del Crispi e del Miceli nell’ottenere prestiti, come quelle di altri parlamentari quali il San Giuliano nel raccomandare amici e intrigare a favore delle banche, mentre nessun addebito poté imputarsi al Giolitti se non una mancanza di accortezza nel nominare uno dei responsabili Tanlongo senatore, ma era pur vero che questi per i titoli che possedeva appariva un candidato naturale.
Il Crispi cercò in tutti i modi di impedire il dibattito parlamentare, servendosi anche della relazione sul bilancio per deviare la discussione, risultò che il Miceli aveva nascosto il rapporto Alvise-Biagini facendo pressioni perché questi non rivelassero la verità, mentre emersero documenti dai quali risultava che il Crispi aveva ricevuto grossi prestiti mai rimborsati.
Si crearono due opposti fronti, chi voleva coprire lo scandalo impedendo la pubblicazione della relazione e chi al contrario ne desiderava il dibattito, mentre le due fazioni capeggiate rispettivamente dal Cambray-Digny e dall’Imbriani si affrontavano in Parlamento, la Corte di Cassazione considerò ingiudicabile in Tribunale Giolitti per gli atti commessi in qualità di capo del governo, configurandosi altrimenti una grave violazione del principio della separazione dei poteri, questo tuttavia impediva agli accusati di citare pubblicamente ed interrogare i testimoni a discarico.
Tuttavia a seguito di una osservazione del ministro della Giustizia Calenda di Taviani, il quale aveva accennato alla necessità di “preparare l’ambiente” prima che avessero corso i procedimenti giudiziari, Giolitti in un discorso alla Camera del 13 Prosinac 1894 poté dimostrare, documenti alla mano, la sua estraneità ai fatti facendo così emergere le manovre del Crispi che aveva nel frattempo fatto trasferire molti giudici a conoscenza del caso Tanlongo, costringendo pertanto il governo Crispi a giustificarsi così da ammettere le interferenze del potere esecutivo sul potere giudiziario.
Nel frattempo vi era stata la sconfitta delle truppe italiane in Etiopia sull’Amba Alagi, il governo Crispi entrò in crisi insieme al complesso di leggi liberticide emanate, vi fu comunque un notevole danno all’immagine del Parlamento con la conseguente ricerca di soluzioni alternative.
Crispi con la sua evoluzione politica da rivoluzionario risorgimentale a colonialista autoritario, non insensibile alle lusinghe del mondo finanziario, divenne con il governo di fine secolo del generale Pelloux un simbolo dell’antiparlamentarismo e modello per le forze antiparlamentari dell’inizio ‘900, tanto da essere considerato un antesignano del movimento fascista.
L’intreccio tra poteri istituzionali con i tentativi di indebita influenza, nonché l’irrompere della finanza speculativa nella vita parlamentare vennero a screditare le istituzioni democratiche post-risorgimentali, su cui si pose una grossa futura ipoteca, circostanza che si è ripetuta più volte nel corso della storia dell’Italia.
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