La responsabilità sociale d’impresa
La responsabilità sociale d’impresa, ou, CSR, dall’inglese Corporate Social Responsibility è, nel gergo economico e finanziario, l’ambito relativo alle implicazioni di natura etica nella visione strategica d’impresa: è una manifestazione della volontà delle grandi, piccole e medie imprese di gestire efficacemente le questioni di impatto sociale ed etico al loro interno e nelle zone di attività.
Il profilo normativo
L’Unione Europea definiva la Responsabilità Sociale d’Impresa come un’azione volontaria, vale a dire, come integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate.
Con la comunicazione del 25 Octobre 2011 (n. 681), la Commissione Europea, dopo dieci anni, riesamina e supera la nozione espressa nel precedente Libro Verde.
L’impostazione apporta significative modifiche alla complessa discussione intorno al tema, riduce il peso di un approccio soggettivo delle imprese e richiede maggiore adesione ai principi promossi dalle organizzazioni internazionali come l’OCSE e l’ONU, ed Agenzie come l’ILO.
Un simile spostamento è un’importante innovazione e ricalca una posizione promossa dall’agenzia di rating etici Standard Ethics di Bruxelles, vicino agli ambienti europei. La nuova impostazione è sicuramente destinata a modificare profondamente gli orientamenti sin qui seguiti.
La Costituzione italiana all’articolo 41 lit:
L’iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
Il concetto
Si tratta di un concetto innovativo[2] e molto discusso, la cui più nota interpretazione risale al 1984 e fu fornita da Robert Edward Freeman nel suo saggio “Strategic Management: a Stakeholder Approach”, Pitman, London 1984. Il fenomeno dei limiti etici all’economia è comunque un fenomeno dalle radici lontane, basti pensare che già nel 1928 la “Pioneer Fund” di Boston si riproponeva investimenti eticamente connotati.
L’accademia italiana trattò l’argomento nel 1968 nel saggio “Strutture integrate nel sistema distributivo italiano”, nel qualei l’economista italiano Giancarlo Pallavicini affermava che l’attività d’impresa, pur mirando al profitto, avrebbe dovuto tenere esplicitamente presenti una serie di istanze interne ed esterne all’impresa, anche di natura socio-economica, per la misurazione delle quali venne proposto il “metodo della scomposizione dei parametri”.
Sono concetti che si ritrovano, anche antecedentemente in grandi autori ed economisti come Gino Zappa, uno dei padri della ragioneria italiana, o in autori come Bruno de Finetti, il padre della probabilità moderna, nella sua nozione della “geometria del benessere”.
I vari concetti che possono avere condizionato lo sviluppo delle teorie successive, in particolare quella di Robert Edward Freeman nel menzionato lavoro del 1984.
Senza che ci siano dubbi, il modello concettuale della CSR si è rapidamente affermato nella disciplina economica dando vita, negli ultimi anni, a numerosi filoni di studi, come le ricerche sui sistemi di rendiconto degli intangibles portati avanti in Italia dal Gruppo di studio per il Bilancio Sociale (Gruppo GBS) guidato dalla Professoressa Ondina Gabrovech Mei[4], i sistemi di rating etico, i modelli di governance proposti dalle autorità pubbliche, o gli impatti sulla reputazione e sul valore della marca industriale.
Il contesto
Il contesto nel quale si sviluppa la nozione della Responsabilità Sociale d’Impresa è un contesto culturale e accademico nel quale si chiede a un’impresa di adottare un comportamento socialmente responsabile, monitorando e rispondendo alle aspettative economiche, ambientali, sociali di tutti i portatori di interesse (stakeholders) con l’obiettivo di cogliere anche un vantaggio competitivo e massimizzare gli utili di lungo periodo.
Si ritiene e si auspica che un prodotto non sia apprezzato unicamente per le caratteristiche qualitative esteriori o funzionali, ma anche per le sue caratteristiche non materiali, come le condizioni di fornitura, i servizi di assistenza e di personalizzazione, l’immagine ed infine la storia del prodotto stesso.
Nell’attuale contesto produttivo, la consapevolezza dei produttori e dei consumatori, sulla centralità di simili aspetti nelle dinamiche competitive e la tracciabilità della catena dei processi, stanno guadagnando interesse.
Risulta evidente come l’impegno “etico” di un’impresa sia entrato direttamente nella cosiddetta catena del valore prospettando l’utilizzo di altri percorsi e leve competitive coerenti con uno “sviluppo sostenibile” per la collettività.
Come scriveva più di cinquant’anni fa, l’economista italiano Gino Zappa, nel mercato globale e locale, le imprese non hanno un’esistenza a sé stante, ma sono enti che vivono e agiscono in un tessuto sociale che comprende vari soggetti, tra i quali spicca di sicuro una società civile molto attenta al lavoro imprenditoriale.
È di fondamentale importanza l’attività dedicata al mantenimento delle relazioni con l’esterno, verso i cosiddetti stakeholders (soggetti interessati, per es. Organizzazioni non governative, sindacati, mass-media).
Nei sistemi di gestione aziendale, l’attenzione agli stakeholders è divenuta di importanza cruciale per le imprese e spesso lo sviluppo nel tempo di relazioni con questi soggetti può diventare un elemento di valore aggiunto per l’impresa.
Anche l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile ha contribuito a definire il contesto e la direzione della Responsabilità Sociale d’Impresa.
Si tratta di un programma di azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto nel 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU nel quale sono delineati gli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile che devono essere raggiungi dai Paesi del mondo entro il 2030.
Anche essendo indirizzati a diverse categorie di attori, governi e istituzioni, società civile, organizzazioni no profit, intendono essere una spinta soprattutto per le imprese.
La controversa ricchezza dei contributi intellettuali
Come è stato acclarato dai modelli attuali, dall’impostazione dell’Unione europea con la comunicazione del 2011, dai modelli delle Nazioni Unite e dell’OCSE, la CSR non è filantropia, ha superato la prima indeterminatezza dovuta all’originaria impostazione accademica della teoria degli Stakeholder, ed ha individuato una propria pragmaticità operativa.
Nel mondo accademico o tra i cultori della materia, i punti di vista restano numerosi e anche contrapposti.
Come avvertono alcuni studiosi e cultori della materia, come Paolo D’Anselmi, il rischio è che la CSR (O RSI) diventi qualcosa che si mette in atto per compiacere cittadini e stakeholders ricevendone in cambio un buon ritorno di immagine.
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