Il conto cointestato e le sue vicende

In caso di conto corrente cointestato con autorizzazione nei confronti di ognuno dei contitolari a effettuare azioni attraverso la firma disgiunta, vale a dire separatamente, è necessario rispettare determinate regole all’atto dei prelievi, perché si potrebbe correre il rischio di incorrere oltre che in un illecito civile, anche in un reato.
Secondo l’orientamento unanime della giurisprudenza, più volte ribadito dalla Suprema Corte di Cassazione, commette il reato di appropriazione indebita uno dei contitolari del conto corrente cointestato, a firma disgiunta, se preleva, senza consenso dell’altra parte, una somma superiore alla sua quota per disporne secondo le sue finalità.
L’utilizzo del conto corrente cointestato, in assenza di consenso da parte del contitolare, è consentito nei limiti delle rispettive quote di proprietà. Se non ci sia prova di una diversa ripartizione delle quote, queste si presumono essere divise in parti uguali.
La delega al prelievo dell’altro viene concessa per altre finalità, ad esempio per la gestione delle spese domestiche. Il cointestatario che prelevi oltre la sua quota deve restituire l’eccedenza all’altro contitolare (illecito di natura civilistica), e risponde anche del reato di appropriazione indebita.
Nel caso di rapporto tra coniugi, il reato non potrebbe scattare perché, a norma dell’articolo 649 del codice penale, il reato di appropriazione indebita non è punibile se la “vittima” è il coniuge non legalmente separato, o un ascendente (genitore) o discendente (figlio) o un affine in linea retta, oppure l’adottante o l’adottato.
La cointestazione del conto corrente, indipendentemente dal regime patrimoniale al quale hanno optato i coniugi (comunione o separazione dei beni) fa presumere la comproprietà del saldo nella misura della metà ciascuno. In ipotesi di separazione coniugale, ognuno dei coniuge avrà diritto alla metà dell’importo disponibile sul conto.
Il regime di separazione dei beni consente di superare questa presunzione di contitolarità a metà, purché sia fornita la cosiddetta prova contraria. Il coniuge, in sede di separazione, può dimostrare al giudice, attraverso adeguate e sicure prove, che l’effettiva percentuale di denaro che rientra nella sua titolarità è superiore alla metà.
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