Accesso abusivo a sistema informatico commesso dal pubblico ufficiale
La sentenza in commento affronta l’argomento del c.d. “domicilio informatico” , tutelato dall’art. 615-ter c.p., che punisce l’accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico da parte di chi vi si introduca o vi si mantenga contro la volontà, espressa o tacita, di chi ha diritto per escluderlo. Tale materia non è nuova alla giurisprudenza della Suprema Corte la quale, già nel 2011 (sentenza Casani), ha ritenuto integrato l’illecito de quo anche allorquando l’accesso venga effettuato da un soggetto abilitato a farlo, ma esulando dai limiti imposti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitare l’accesso. Invero, a nulla rilevano gli scopi e le finalità che abbiano spinto l’agente a violare il sistema.
Pertanto, il reato sussiste quando un soggetto, astrattamente autorizzato ad accedere al sistema, opera violando i limiti di cui al complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema, ovvero ponendo in essere operazioni differenti da quelle autorizzate.
Tuttavia, detto principio non è sempre stato applicato pedissequamente dalla giurisprudenza; l’incertezza deriva dalla difficile intelligibilità del concetto di “ontologica diversità dell’operazione eseguita rispetto a quella consentita”, ingenerata in particolare dall’affermazione della non rilevanza della finalità perseguita dall’agente nella sentenza Casani. A ben vedere, la differenza ontologica degli accessi effettuati rispetto a quelli autorizzati non può che essere vagliata in relazione alle funzioni del soggetto ed alle finalità degli accessi. Sicché, ontologicamente diversi possono ritenersi gli accessi differenti rispetto ai compiti funzionali rispetto ai compiti del soggetto che accede, ovvero quelli posti in essere per soddisfare finalità diverse da quelle per le quali l’accesso viene consentito.
Nel caso di specie, l’imputata è una cancelliera presso una Procura della Repubblica, che era autorizzata ad accedere al registro delle notizie di reato, ma l’aveva fatto per una ragione privata.
Il problema interpretativo di cui si tratta nasce in relazione al fatto che la nozione di accesso ontologicamente diverso da quello autorizzato non può essere apprezzata solo oggettivamente, ma implica giocoforza l’apprezzamento delle finalità che qualifica la condotta del soggetto. In tal senso, è abusivo l’accesso di colui il quale, a prescindere dalle prescrizioni specifiche dettate dal titolare, lo realizzi per un fine privato, incoerente rispetto a quella per cui l’accesso è attribuito.
La conseguenza dell’arresto in commento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione è la rilevanza penale degli accessi al Sdi e Sicp, effettuate da persone legittimate ma per finalità private. Nondimeno, il principio dettato può ritenersi esportabile a tutte le ipotesi di astratta contestabili del reato di cui all’art. 615-тер c.p. .
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