Violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza
Indice
La questione
La soluzione adottata dalla Cassazione
Conclusioni
1. La questione
La Corte di Appello di Roma confermava una condanna per il reato di appropriazione indebita, così riqualificato dal primo giudice quello di truffa contestato nell’imputazione, ma rideterminava la pena inflitta dal Tribunale in un anno di reclusione e 400 euro di multa.
Avverso questo provvedimento il difensore dell’imputato ricorreva per Cassazione e, tra le doglianze ivi addotte, per quello che rileva in questa sede, deduceva le seguenti: 1) violazione della legge processuale in quanto il fatto ritenuto in sentenza risultava, per la difesa, diverso, nella sua accezione naturalistica (art. 521, comma 2, cod. proc. pen.), da quello descritto nel capo d’imputazione, nel quale erano contestate condotte di fraudolenta dazione di assegni artefatti e/o di illecita provenienza al fine di conseguire l’indebita cessione dell’autovettura mentre il ricorrente, invece, era stato condannato per non avere restituito il bene che aveva conseguito per effetto della stipula di un regolare contratto; 2) contraddittorietà della motivazione là dove non era stata esclusa la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, dopo avere ritenuto la identità del fatto per il quale l’imputato era stato condannato e quello descritto in imputazione (incentrato sulle condotte ingannatrici escluse dal primo giudice, con la conseguente impossibilità di configurare i contestati reati di truffa, falso e ricettazione), evocando altresì una condotta asseritamente fraudolenta successiva all’impossessamento dell’autovettura non indicata nel capo d’accusa; 3) inosservanza di norme processuali poiché, sempre in relazione alla violazione del suddetto principio, avendo la Corte di appello affermato che “l’imputato ha potuto adeguatamente difendersi dall’addebito”, quando la possibilità per l’imputato di difendersi non poteva, per il legale, mai esserci quando il fatto è diverso da quello descritto nell’imputazione;
2. La soluzione adottata dalla Cassazione
La Suprema Corte riteneva i motivi summenzionati infondati.
In particolare, gli Ermellini consideravano come la sentenza impugnata si fosse attenuta al costante orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza è configurabile solo in presenza di una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad una incertezza sull’oggetto della contestazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa e, pertanto, l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto
insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010; Sez. U, n. 16 del 19/06/1996; Sez. 4, n. 4622 del 15/12/2017; Sez. 4, n. 33878 del 03/05/2017; Sez. 2, n. 17565 del 15/03/2017; da ultimo v. Sez. 2, n. 15928 del 25/03/2022).
Orbene declinando tale criterio ermeneutico rispetto al caso di specie, i giudici di piazza Cavour stimavano come, nel caso di specie, l’elemento centrale della condotta, costituito dall’impossessamento dell’autovettura e dalla illegittima omessa restituzione della stessa, fosse rimasto invariato avendo il primo giudice accertato – come osservato nella sentenza impugnata – che eventuali artifizi sarebbero stati posti in essere dopo e non prima della conclusione del contratto e del trasferimento materiale del veicolo cosicché la condotta era stata riqualificata nel reato di appropriazione indebita, all’epoca del fatto punito meno gravemente di quello di truffa, stante il minimo edittale, quanto alla pena detentiva, di quindici giorni di reclusione, a fronte di quello di sei mesi previsto dall’art. 640 cod. pen..
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Oltre a ciò, il Suprema Corte osservava altresì come la difesa, a suo avviso, avesse solo genericamente richiamato “i principi espressi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza Drassich vs. Italia, II^ sezione, 11 dicembre 2007”, senza neppure denunciare una violazione del principio del contraddittorio sulla nuova definizione giuridica del fatto mentre, invece, il potere del giudice, di merito di dare al fatto una diversa definizione giuridica, nella interpretazione dell’art. dell’art. 6, comma 3, lett. a) e b), della Convenzione EDU datane dalla Corte di Strasburgo, esige che l’imputato, una volta informato dell’accusa, sia messo in condizione di poter discutere su ogni profilo che investe i fatti contestatigli e la qualificazione ad essi attribuita, trattandosi di una condizione fondamentale dell’equità del processo e, pertanto, il giudice di merito, cui è riconosciuto dal diritto interno il potere di riqualificare i fatti per i quali l’imputato è chiamato a giudizio, deve curare che il medesimo abbia avuto la possibilità di esercitare i diritti di difesa su questo specifico punto in maniera concreta ed effettiva, verificando: a) se in concreto fosse sufficientemente prevedibile per il ricorrente che l’accusa inizialmente formulata nei suoi confronti fosse riqualificata; b) la fondatezza dei mezzi di difesa che il ricorrente avrebbe potuto invocare se avesse avuto la possibilità di discutere della nuova accusa formulata nei suoi confronti; c) quali siano state le ripercussioni della nuova accusa sulla determinazione della pena del ricorrente.
Ciò posto, a sua volta, recependo tali principi, si prendeva atto di come la giurisprudenza di legittimità sia da tempo consolidata nel senso che, qualora una diversa qualificazione giuridica del fatto venga effettuata in appello, senza che l’imputato abbia preventivamente avuto modo di interloquire sul punto, la garanzia del contraddittorio resta comunque assicurata dalla possibilità di contestare la diversa qualificazione mediante il ricorso per cassazione, specie quando la stessa non avvenga “a sorpresa“, bensì risulti come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile, sì che l’imputato abbia avuto la possibilità di interloquire in ordine al contenuto dell’imputazione, in assenza di una lesione dei diritti della difesa derivante dai profili di novità che da quel mutamento scaturiscono (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015; Sez. 2, n. 23410 del 01/07/2020; Sez. 1, n. 49671 del 24/09/2019; Sez. 5, n. 11235 del 27/02/2019; Sez. 2, n. 39961 del 19/07/2018).
Orbene, a fronte di tale filone interpretativo, i giudici di legittimità ordinaria evidenziavano come, nella fattispecie in esame, la riqualificazione del fatto fosse avvenuta sin dal primo grado di giudizio, che l’imputato fosse stato condannato per un reato punito meno gravemente di quello originariamente contestato (truffa) e che la difesa in appello non avesse neppure prospettato la possibilità di assumere nuove prove in relazione al reato come diversamente qualificato, circostanza peraltro (considerata) ben comprensibile, considerata la pacifica ricostruzione del fatto.
I motivi di cui sopra, di conseguenza, come accennato prima, erano reputati infondati.
3. Conclusioni
La decisione in esame desta un certo interesse specialmente nella parte in cui è ivi chiarito quando è configurabile la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza.
Difatti, si afferma in tale pronuncia, sulla scorta di un consolidato orientamento ermeneutico, che per l’appunto la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza è configurabile solo in presenza di una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad una incertezza sull’oggetto della contestazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa e, pertanto, l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione.
Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione ogni volta si debba verificare se sia stato violato (o meno) siffatto principio.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su tale tematica procedurale sotto il profilo giurisprudenziale, dunque, non può che essere positivo.
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Fabio PiccioniAvvocato del Foro di Firenze, patrocinante in Cassazione; LL.B., presso University College of London; docente di diritto penale alla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali; coordinatore e docente di master universitari; autore di pubblicazioni e monografie in materia di diritto penale e amministrativo sanzionatorio; giornalista pubblicista.
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