Via libera al ricorso per decreto ingiuntivo per il recupero dei compensi degli avvocati con parcella vistata dall’Ordine

SOMMARIO: 1) Premessa; 2) Normativa di riferimento; 3) Esito; 4) La vicenda; 5) La posizione del Tribunale di Roma; 6) La posizione del Procuratore generale; 7) La posizione della Corte; 8) La riforma del 2012; 9) L’art. 636 c.p.c. non risulta abrogato; 10) Conclusioni.
Premessa
Secondo l’interpretazione fornita dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite – sentenza 8 luglio 2021 n. 19427 – l’art. 636 c.p.c. è tuttora vigente nonostante l’abrogazione delle tariffe professionali: pertanto, l’avvocato avrà la possibilità di recuperare i propri compensi dal cliente con decreto ingiuntivo su parcella vistata dal Consiglio dell’Ordine.

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

Art. 636 c.p.c.; L. n. 27/2012; art. 633 c.p.c.; art. 2233 c.c.; L. n. 247/2012.

ESITO

Accoglimento.
La vicenda
Il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione adiva la Corte medesima chiedendo, ai sensi dell’art. 636, co. 1, c.p.c., l’enunciazione dei principi di diritto ai quali il Tribunale di Roma avrebbe dovuto attenersi nel procedimento monitorio azionato da un avvocato per ottenere il pagamento dei propri compensi da un cliente inadempiente.
Il Procuratore generale, difatti, a seguito di una segnalazione da parte di un avvocato, a cui era seguita una nota da parte del Consiglio dell’Ordine, veniva informato di un orientamento del Tribunale di Roma secondo cui i ricorsi per decreto ingiuntivo, presentati a partire dal 2012 per la liquidazione dei compensi di avvocato in materia giudiziale e stragiudiziale civile, erano rigettati nonostante l’allegazione dei documenti attestanti l’attività svolta e del parere di congruità reso dal competente consiglio dell’ordine.
Il suddetto indirizzo seguito dal Foro capitolino si sarebbe basato sul principio secondo cui, con l’avvento della Legge n. 27/2012 che aboliva il sistema tariffario, la disposizione dell’art. 636, co. 1, c.p.c., fosse stata abrogata.
Il Procuratore generale, assunte informazioni da altri tribunali – in particolare, Torino, Napoli e Palermo – i quali riferivano di un principio opposto a quello di Roma, chiedeva alle Sezioni Unite di enunciare un principio di diritto nell’interesse di legge al fine di superare i contrasti interpretativi e uniformare la legge a livello nazionale.
In particolare, il Procuratore generale ha chiesto l’affermazione dei seguenti principi:

L’abrogazione delle tariffe professionali, con particolare attenzione all’art. 9 del D.L. n. 1/2012 convertito in Legge n. 27/2012, non ha disposto l’abrogazione dell’art. 636 c.p.c.;
Persistendo la vigenza dell’art. 636 c.p.c., l’avvocato può agire per la richiesta dei propri compensi professionali con la procedura monitoria, sulla base della parcella e del parere di congruità rilasciato dal competente consiglio dell’ordine reso sulla base del sistema dei parametri ministeriali.

La posizione del tribunale di Roma
Secondo la posizione espressa dal Tribunale di Roma, l’abolizione del sistema tariffario avvenuta con la Legge n. 27/2012, avrebbe abrogato l’art. 636 c.p.c. nella parte in cui consente di utilizzare la procedura monitoria sulla base della parcella e del parere di congruità rilasciato dal consiglio dell’ordine.
Tale tesi si fonda sulla lettera dell’art. 9, co. 5, della Legge n. 27/2012 secondo la quale vengono abrogate le disposizioni vigenti che per la determinazione del compenso del professionista, rinviano alle tariffe di cui al comma 1.
Lo scopo della Legge n. 27/2012 era quella di far risaltare principalmente la libera contrattazione delle parti nella determinazione del compenso dell’avvocato, introducendo l’obbligo per il professionista di predisporre e consegnare al cliente il preventivo dei costi: pertanto, per il foro capitolino si avrebbe, come conseguenza, la limitazione del procedimento monitorio ai soli casi in cui l’avvocato sia in possesso di una documentazione comprovante la pattuizione del compenso; in mancanza, al professionista rimane il procedimento di cui alla Legge n. 794/1942, art. 28, come modificata dal D. Lgs. n. 150/2011.
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La posizione del procuratore generale
Di contro, il Procuratore sosteneva che se la riforma del 2012 ha eliminato le tariffe obbligatorie in favore del principio della libera contrattazione del compenso, tuttavia è ancora previsto che in caso di mancato accordo tra le parti, il compenso dell’avvocato debba essere determinato sulla base dei parametri ministeriali e che il consiglio dell’ordine possa rilasciare, su richiesta dell’interessato, un parere di congruità.
Quindi, secondo la Procura generale, è ammissibile il ricorso per decreto ingiuntivo ex artt. 633 e seg. c.p.c. nel caso in cui tra professionista e cliente non sia convenuta la misura del compenso e in particolare, alla possibilità di una sua liquidazione in virtù della parcella unilateralmente predisposta e corredata dal parere del consiglio dell’ordine.
La posizione della Corte
La Suprema Corte si era già interrogata a suo tempo di come inquadrare l’istituto disciplinato dall’art. 636 c.p.c., ricordando che, secondo un orientamento costante[1], gli strumenti utilizzati dagli avvocati per ottenere il pagamento del compenso per prestazioni giudiziali civili sono il procedimento per decreto ingiuntivo di cui agli artt. 633 e seg. c.p.c. e lo speciale procedimento previsto dalla Legge n. 794/42, art. 28, come modificata dal D. Lgs. n. 150/2011, art. 14.
Per quanto riguarda il primo dei due strumenti, si fa riferimento alla disciplina dell’art. 633, co. 1 n. 2 c.p.c., secondo cui: “…su domanda di chi è creditore di una somma di denaro…il giudice competente pronuncia ingiunzione di pagamento …2) se il credito riguarda onorari per prestazioni giudiziali o stragiudiziali o rimborso di spese fatte da avvocati, procuratori, cancellieri, ufficiali giudiziari o da chiunque altro ha prestato la sua opera in occasione di un processo”; inoltre, l’art. 636 prevede poi che nei casi di cui ai nn. 2 e 3 dell’art. 633, co. 1, c.p.c. “…la domanda deve essere accompagnata dalla parcella delle spese e prestazioni, munita della sottoscrizione del ricorrente e corredata da parere della competente associazione professionale. Il parere non occorre se l’ammontare delle spese e delle prestazioni è determinati in base a tariffe obbligatorie.”
Per tariffe obbligatorie si intendo quelle tariffe per le quali l’ammontare del compenso è determinato in un importo fisso, sicché il giudice non ha che da attenersi ad esse, senza alcun margine di valutazione.
Le tariffe che, invece, prevedono un importo variabile tra un minimo e un massimo, hanno solo la funzione di fissare i limiti dell’autonomia privata e di dettare i criteri di liquidazione che, in mancanza di accordo, il giudice è tenuto a rispettare, senza pregiudizio per i margini di discrezionalità che i criteri stessi consentono[2]: la mancanza di un importo fisso e quindi di una tariffa obbligatoria, impedisce all’avvocato di determinare unilateralmente l’importo della prestazione in mancanza di accordo e rende quindi necessario il parere di congruità del consiglio dell’ordine.
Pertanto, in mancanza di tariffe obbligatorie, la prova del credito dell’avvocato richiede il concorso di due imprescindibili requisiti:

La parcella sottoscritta dal ricorrente, la cui funzione è quella di fornire la prova dell’effettuazione delle prestazioni e delle spese;
Il parere dell’organo professionale la cui funzione è quella di esprimere un giudizio critico sulla parcella.

Con particolare riferimento al secondo requisito sopra richiamato, la Suprema Corte ha avuto modo di affermare che il parere di congruità, quale atto soggettivamente e oggettivamente amministrativo, non si esaurisce in una mera certificazione della rispondenza del credito alla tariffa professionale, ma implica la valutazione di congruità del quantum attraverso un motivato giudizio critico[3].
L’art. 636 c.p.c. prescrive che il giudice, se non rigetta il ricorso a norma dell’art. 640 c.p.c., deve attenersi al parere nei limiti della somma domandata, salva la correzione degli errori materiali: il parere di congruità, dunque, ha un’efficacia vincolante in sede di emissione di decreto ingiuntivo, ma perde detta efficacia nel giudizio di opposizione, nel quale il giudice è libero di discostarsene e dove sarà onere del professionista opponente fornire gli elementi dimostrativi della pretesa.
La “norma architrave” è data dall’art. 2233 c.c., a tenore del quale il compenso dovuto per le prestazioni di opera intellettuale, se non convenuto tra le parti e se non possa essere stabilito secondo tariffe o gli usi, è determinato dal giudice, sentito il parere dell’associazione professionale a cui il professionista appartiene.
Si individua una precisa gerarchia tra i criteri per determinare il compenso del prestatore d’opera professionale:

In primis, l’accordo del professionista con il cliente;
In mancanza, il ricorso a tariffe e agli usi (che tuttavia, la riforma del 2012 sembrerebbe aver abolito);
Da ultimo, la determinazione del giudice previo parere dell’associazione professionale.

Se esiste un accordo tra le parti, il ricorso agli ultimi due criteri sussidiari resta precluso; tuttavia, se mancasse l’accordo, il giudice non può prescindere, per la sua valutazione discrezionale, dal parere di congruità emesso dall’associazione professionale.
La riforma del 2012
Delineato il quadro normativo, gli Ermellini si soffermano poi sulla riforma del 2012 – introdotta con dal D.L. n. 11/2012, convertito con modificazioni dalla L. n. 27/2012 – relativa all’abolizione delle tariffe professionali.
In particolare, l’art. 9 della suddetta norma, abrogando le tariffe regolamentate dal sistema ordinistico, ha tuttavia previsto che, ferma l’abrogazione, nel caso di liquidazione del compenso al professionista da parte di un organo giurisdizionale, il giudice deve far riferimento a parametri stabiliti da decreto ministeriale.
Proprio il D.M. n. 140/2012, all’art. 1, dispone che, in difetto di accordo tra le parti in ordine al compenso, l’organo giurisdizionale che deve liquidare il compenso dei professionisti di cui al regolamento è tenuto ad applicare le disposizioni ivi contenute.
Altresì, la successiva Legge n. 247/2012, recante disposizioni in ordine alla nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, in linea di continuità con il suddetto art. 9 della L. 27/2012, ha disposto la totale abolizione delle tariffe professionali, rinviando a successivi decreti ministeriali l’individuazione di parametri per la determinazione o la liquidazione in giudizio dei compensi professionali.
Si ribadisce, pertanto, la regola secondo cui i parametri si applicano quando non vi è una pattuizione tra le parti (parametri che sono poi stati introdotti con il D.M. n. 55/2014).
La legge professionale, vieppiù, ribadisce come i parametri si applicano solo:

Quando manca l’accordo tra le parti, in caso di liquidazione giudiziale e
Nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell’interesse di terzi o
Per prestazioni ufficiose previste dalla legge.

In mancanza di accordo tra avvocato e cliente, ciascuno di essi può rivolgersi al consiglio dell’ordine affinché esperisca un tentativo di conciliazione; in mancanza di accordo, il consiglio, su richiesta dell’iscritto, può rilasciare un parere di congruità della pretesa dell’avvocato in relazione all’opera prestata.
Le Sezioni Unite della Suprema Corte denotano come vi sia una forte analogia, se non una sostanziale omogeneità, tra le tariffe abrogate e i nuovi parametri: difatti, tanto le tariffe quanto i parametri funzionano come criteri integrativi della remunerazione professionale.
Come per le tariffe, anche i decreti ministeriali, nella formulazione dei parametri, devono rispettare criteri che tengano conto dell’onore e del decoro della professione, delle caratteristiche, dell’urgenza e del pregio dell’attività prestata, nonché gli ulteriori elementi di cui all’art. 4 del D.M. n. 55/2014.
Inoltre, al pari delle tariffe, anche i parametri devono tener conto del valore delle singole controversie, come dispone l’art. 2233 c.c., co. 2, nella parte in cui prevede che il compenso deve essere adeguato “all’importanza dell’opera”.
Conclusivamente, anche i parametri, non diversamente dalle tariffe, operano come fonte sussidiaria e suppletiva, alle quali è dato ricorrere, in forza delle disposizioni speciali, nonché dell’art. 2233 c.c., nella liquidazione giudiziale dei compensi al professionista nel caso in cui non risulti stipulato con il cliente un accordo sul compenso medesimo o sorga una lite tra le due parti nel rapporto; analogo potere è riconosciuto al giudice in caso di compenso pattuito nell’ambito delle speciali convenzioni disciplinate nell’art. 13bis della L. 247/2012, qualora il giudice lo ritenga “non equo”.
L’art. 636 c.p.c. non risulta abrogato
Secondo la Suprema Corte, non è corretta la tesi del Tribunale di Roma secondo cui l’art. 9, co. 5, della L. n. 27/2012 – “…sono abrogate le disposizioni vigenti che, per la determinazione del compenso del professionista, rinviano alle tariffe di cui al comma 1…” – avrebbe letteralmente abrogato l’art 636 c.p.c. e infatti:

La legge professionale di cui al R.D.L. n. 1578/1933, art. 14, lett. d), tuttora vigente, nella parte in cui attribuisce ai consigli dell’ordine il compito di dare un parere sulla liquidazione degli onorari di avvocati, non rinvia alle tariffe;
L’art. 633 c.p.c., commi 1 e 2 e l’art. 636 c.p.c. non parlano mai di tariffe, ma si limitano a richiamare la parcella dell’avvocato sottoscritta dal ricorrente e corredata dal parere della competente associazione professionale;
La legge professionale – Legge n. 247/2012 – all’art. 29, co. 1, lett. l), prevede espressamente tra i compiti del consiglio dell’ordine, quello di formulare pareri sulla liquidazione dei compensi spettanti agli iscritti;
La prefata norma si raccorda con l’art. 13, co. 9, della medesima legge, nella parte in cui dispone che il consiglio, su richiesta dell’iscritto, possa rilasciare un parere di congruità della pretesa dell’avvocato.

In conclusione, per gli Ermellini non solo non vi sarebbe stata un’abrogazione espressa, ma neppure implicita per incompatibilità tra norme: semmai l’effetto abrogativo dovrà ritenersi limitato solo alla parte in cui la norma rinvia alla fonte di rango inferiore ormai soppressa, lasciando per il resto in tutto e per tutto inalterata la relativa struttura.
Il criterio di liquidazione dei compensi stabilito dai parametri, comporta l’effetto sostitutivo dell’elemento abrogato con il nuovo sistema, ritenuto dal legislatore più congruo e agevole rispetto al precedente.
Conclusioni
In definitiva, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione accolgono la richiesta del Procuratore generale presso la Corte di Cassazione affermando il seguente principio di diritto: “in tema di liquidazione del compenso dell’avvocato, l’abrogazione del sistema delle tariffe professionali per gli avvocati, disposta dal D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito dalla L. 27 marzo 2012, n. 27, non ha determinato, in base all’art. 9 D.L. n. cit., l’abrogazione dell’art. 636 c.p.c. anche a seguito dell’entrata in vigore del D.L. n. 1 del 2012, convertito dalla L. n. 27 del 2012, l’avvocato che intende agire per la richiesta dei compensi per prestazioni professionali può avvalersi del procedimento per ingiunzione regolati dagli artt. 633 e 636 c.p.c., ponendo a base del ricorso la parcella delle spese e prestazioni, munita della sottoscrizione del ricorrente e corredata dal parere di congruità della competente associazione professionale, il quale sarà rilasciato sulla base dei parametri per i compensi professionali di cui alla L. 31 dicembre 2012, n. 247 e di cui ai relativi decreti ministeriali attuativi”
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Note
[1] Cosi Cass. Civ., Sezioni Unite, 23 febbraio 2018, n. 4485 e Cass. Civ., 19 febbraio 2020, n. 4247
[2] Secondo la sentenza n. 9514 del 30.10.1996 e n. 29212/19 della Corte di Cassazione Civile, le tariffe variabili non hanno la funzione di attribuire al professionista l’unilaterale e incensurabile potestà di indicare, sia pure nei limiti segnati dalla tariffa, il compenso dovuto dal proprio cliente e, in altri termini, di integrare, con la propria determinazione volitiva, il contenuto del contratto, fissando l’oggetto della obbligazione principale del cliente.
[3] Tra le varie pronunce, si richiama quella del Consiglio di Stato, n. 2630 del 24.5.2005, secondo cui il giudizio di congruità, pur avendo una finalità obiettiva, non può tradursi in una determinazione che prescinda dal considerare l’effettiva realtà delle prestazioni professionali rese.

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