Solidarietà sociale e abuso del diritto: una pronuncia della Cassazione
Indice
Buona fede e diligenza
Dalla buona fede all’abuso del diritto come principio generale
Segue: l’exceptio doli
Segue ancora: un recente esempio pratico. Sentenza della Corte di cassazione n. 27474 del 2022 [1]
1. Buona fede e diligenza
L’intero sistema del diritto civile implicitamente risponde al costituzionale dovere di solidarietà sociale. L’art. 2 Cost., infatti, rappresenta il fondamento normativo di più elevato spessore del principio generale, ben noto sin dal diritto romano, di buona fede, che, nel codice civile attuale si traduce, nella sua concezione prettamente oggettiva, in quei doveri di correttezza e trasparenza che permeano la disciplina delle obbligazioni. Sia che l’obbligazione nasca da contratto, da fatto illecito, da qualunque altro atto o fatto idoneo a produrla secondo l’ordinamento giuridico, sia che nasca da un contatto socialmente rilevante, le parti del rapporto sono chiamate ad adottare un atteggiamento protettivo tanto della reciproca sfera patrimoniale quanto di quella personale. Tale comportamento protettivo si estende, inoltre, anche nei confronti dei soggetti che, benché terzi rispetto al rapporto obbligatorio, rientrino nella immediata sfera organizzativa delle parti e possano, dunque, subire danni riflessi derivanti dalla violazione del predetto rapporto. I brevi lineamenti generali sin qui delineati consentono di considerare minoritaria la tesi secondo la quale la bona fides dovrebbe essere qualificata come facere cum diligentia[2]: la diligenza, infatti, come codicisticamente prevista ai sensi dell’art. 1176 cc, si atteggia tendenzialmente quale specifico dovere del lato passivo del rapporto obbligatorio e si concreta nel livello di sacrificio massimo richiedibile per l’esecuzione della prestazione e, dunque, per l’adempimento della prestazione oggetto dell’obbligazione. E’ pur vero che l’esecuzione diligente della prestazione impone di utilizzare modalità attuative tali da non arrecare danno alla parte nei cui confronti la stessa viene eseguita, ma occorre, tuttavia, osservare che la diligenza si arresta alla fase esecutiva e, conseguentemente, la stessa è circoscritta al momento estintivo del rapporto. La bona fides, per contro, permea ogni fase, ogni momento di contatto delle posizioni creditorie e debitorie e svolge funzione integrativa dello stesso rapporto obbligatorio. Essa si rinviene nella fase delle trattative, avendo riguardo agli artt. 1337 e 1338 cc e concentrando l’attenzione solamente nell’ambito della disciplina contrattuale, nonché della fase esecutiva del contratto ex art. 1375 cc o, ancora, in pendenza di condizione. Se la violazione del dovere di diligenza nell’esecuzione della prestazione si traduce nell’inadempimento contrattuale, seguendo una lettura dell’art. 1218 cc in combinato disposto con l’art. 1176 cc e prescindendo tanto dalla visione più oggettivistica della norma e dalla giurisprudenza della Corte di cassazione che ha inciso nel superamento del binomio obbligazione di mezzi/obbligazione di risultato, la violazione del canone di buona fede, di per sé considerato, risulta essere produttiva di molteplici conseguenze. Qualora, infatti, la stessa avvenga nell’ottica di un contatto sociale, privo, dunque, di un substrato contrattuale, essa si concreta in una violazione dell’obbligo di protezione e, dunque, si inserisce nella disciplina della responsabilità contrattuale. Qualora, per contro, la predetta violazione avvenga nella fase precontrattuale, è agevole rilevare come la stessa si concreti in una responsabilità risarcitoria precontrattuale, comprensiva di danno emergente e lucro cessante dettata dalla lesione della libertà di autodeterminazione negoziale e dunque dell’interesse negativo a non intavolare trattative inutili che la giurisprudenza ha recentemente ricondotto nell’alveo della responsabilità contrattuale. Può, altresì, accadere che la violazione della buona fede sia si avvertita nella fase precontrattuale ma che la stessa abbia comunque portato alla conclusione di un contratto che, se ritenuto giuridicamente valido, si mostra certamente svantaggioso per la parte che ha subito la scorrettezza nelle trattative. La conclusione del contratto chiude le porte alla responsabilità risarcitoria precontrattuale ma le apre alla responsabilità risarcitoria contrattuale rinvenibile, in tali contesti, nell’art. 1440 cc. Tali considerazioni, concernenti le ipotesi di violazione del canone di buona fede, tuttavia, non appaiono esaustive. Occorre, infatti, rilevare che il rapporto obbligatorio, prendendo in prestito gli insegnamenti del diritto amministrativo inerenti ai rapporti tra Pa e privato in assenza di un potere autoritativo, può essere agevolmente ricondotto al binomio civilistico diritto soggettivo-obbligo. Il creditore, titolare del diritto soggettivo, è certamente legittimato ad esercitarlo nei confronti della parte passiva del rapporto. Tuttavia, il predetto esercizio del diritto, perfino rilevante come esimente nel terreno penale, può tradursi in un atteggiamento contrario al dovere di correttezza, di buona fede, nel momento in cui ne venga fatto un uso che, benché formalmente rispettoso dei limiti di legge, in realtà si presti a valutazioni negative sotto il profilo funzionale. Il creditore, infatti, potrebbe forzare le regole del sistema codicistico civile delle obbligazioni, incentrato, sia pure in modo meno evidente, rispetto al codice del 1865, sul principio del favor debitoris, ad esempio rifiutando l’adempimento del terzo senza che sia intervenuta l’opposizione del debitore e senza che lo stesso creditore possa concretamente manifestare un apprezzabile interesse a che la prestazione, esemplificativamente avente ad oggetto un dare fungibile, sia realizzata dal debitore originario. Si pensi, altresì, alle ipotesi nelle quali il debitore, al fine di estinguere una obbligazione pecuniaria, offra al creditore un assegno circolare invece della somma di denaro specifica e lo stesso creditore, pur a fronte dell’esistenza di una piena garanzia di solvibilità del predetto tipo di pagamento, lo rifiuti. Si pensi, ancora, al creditore che, titolare di un diritto di credito unico e discendente da un unico rapporto, decida di frazionarlo giudizialmente, mediante l’instaurazione di molteplici giudizi aventi ad oggetto ciascuno una quota del credito. A fronte di tali esemplificative e non esaustive situazioni, nelle quali si evidenzia una ingiustificata primazia del creditore sul debitore, riconducibile ad una implicita violazione del dovere di buona fede, si potrebbe, prima facie, ritenere che non sussistano rimedi generali, paragonabili a quelli precedentemente descritti ed aventi ad oggetto una violazione palese del predetto principio.
2. Dalla buona fede all’abuso del diritto come principio generale
Si potrebbe, infatti, ritenere che il divieto di esercizio abusivo del diritto, ben noto nel terreno comunitario, sia normativizzato esclusivamente nelle leggi speciali e, più in dettaglio, nella legge n. 192 del 2008, in materia di subfornitura. L’art. 9 della predetta legge, rubricata abuso di dipendenza economica, chiarisce che è fatto divieto alle imprese contrattualmente più forti di abusare dello stato di dipendenza economica nella quale si trovano le imprese clienti o fornitrici. Sebbene il cd. terzo contratto, ovvero il modello contrattuale tra imprese[3], consenta all’impresa contrattualmente più forte di usufruire di diritti quali il diritto di recesso immediato, il legislatore si è preoccupato di sanzionare l’interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto, lasciando all’organo giudicante, il cui sindacato in questo caso è necessariamente più ampio, in deroga alla regola della insindacabilità dello squilibrio economico del contratto (anche, in alcuni casi, discendente dallo squilibrio normativo) , il compito di definire il confine tra esercizio legittimo ed abuso del diritto[4]. Tuttavia, la conclusione a mente della quale non esisterebbe un rimedio generale all’abuso del diritto quale violazione implicita del canone di buona fede, è certamente da considerarsi erronea. L’ordinamento giuridico nel suo complesso reprime alla radice tale fenomeno anche mediante una regola generale che, sebbene non esplicitamente codificata, si concreta nel rifiuto dell’ordinamento di apprestare tutela ai diritti soggettivi esercitati abusivamente.
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3. Segue: l’exceptio doli
Il rifiuto di tutela, a sua volta, si traduce nell’attribuzione, in capo al soggetto che subisce l’abuso, del rimedio dell’exceptio doli. Più in dettaglio, l’exceptio doli generalis seu praesentis si identifica nella possibilità di neutralizzare l’esercizio, formalmente legittimo ma concretamente abusivo, del diritto in corso di manifestazione, paralizzando l’efficacia dell’atto che ne costituisce la fonte. Riprendendo gli esempi prima riportati, a fronte di un rifiuto di ricevere la prestazione esatta offerta da un terzo, il debitore potrà opporre l’eccezione di dolo generale nell’ipotesi in cui l’obbligo di eseguire la prestazione discenda da un rapporto non connotato dal carattere dell’intuitus personae. Nella ulteriore ipotesi in cui il debitore offra un assegno circolare al posto di una somma di denaro, si può agevolmente giungere al medesimo risultato. Infatti, l’attenzione del legislatore verso la circolazione del denaro contante si è recentemente tradotta nella impossibilità, per espressa previsione normativa, di effettuare pagamenti per importi ingenti, mediante denaro contante. Di conseguenza, l’uso di una modalità di pagamento qual è l’assegno circolare non può essere qualificata alla stregua di una datio in solutum a mezzo della quale la valenza estintiva della obbligazione è subordinata ad un esplicito consenso del creditore. Quest’ultimo, infatti, è chiamato ad accettare l’esatta prestazione offerta dal debitore mediante una modalità di pagamento che, oltre ad essere necessitata, risulta anche satisfattiva e dotata di garanzia di solvibilità, dal momento che il predetto assegno non può essere rilasciato in assenza di una provvista presso l’istituto bancario di riferimento. Si potrebbe obiettare che tale ragionamento risulti valevole solo per le ipotesi di obbligazioni pecuniarie aventi ad oggetto somme ingenti di denaro e non esigue. In tali circostanze spetterà all’organo giudicante valutare l’esistenza di una violazione implicita del principio di buona fede e, dunque, l’esistenza di un superamento sostanziale del confine formale posto all’esercizio consentito del diritto e, conseguentemente, accogliere o rigettare l’eccezione di dolo sollevata dalla parte debitoria. Ancora, la medesima eccezione generale può essere sollevata nell’ipotesi di frazionamento abusivo del credito. Tale frazionamento, infatti, si traduce in una indiretta violazione del dovere di solidarietà sociale in quanto implica per il debitore un ingiustificato aggravio delle spese processuali e, dunque, si traduce in una violazione del principio del favor debitoris. Tale ragionamento, seguendo i recenti orientamenti giurisprudenziali, non può essere operato anche laddove il creditore agisca con due giudizi separati per far valere crediti distinti ma discendenti da un unico rapporto. In questo caso, infatti, potrebbe esserci effettivamente un interesse del creditore, discendente dalla possibilità, per un credito e non per l’altro, di utilizzazione di una tutela monitoria o comunque sommaria, tale da giustificare la compressione della sfera debitoria e, dunque non tale da ritenere esistente una implicita violazione dell’art. 2 Cost. Per contro, in mancanza di ragioni oggettive, ovvero in mancanza di una giustificazione giurisdizionale apprezzabile per la scissione dei crediti, nuovamente potrà essere dal debitore sollevata l’exceptio doli generalis.
4. Segue ancora: un recente esempio pratico. Sentenza della Corte di cassazione n. 27474 del 2022
“[…]La questione del patto traslativo d’imposta non espressamente vietato da specifiche norme di legge rimane invero estranea alla normativa comunitaria, attenendo alla mera disciplina interna [come risulta confermato in particolare da Corte Giust., 16/1/2014, n. 226 (C – 226/12) e da Corte Giust., 6/11/2011, n. 398 (C – 398/09), ove tale patto si è ritenuto di per sé non in contrasto con la normativa comunitaria, potendo assumere viceversa rilievo in caso di violazione dì altri principi o norme, come ad esempio nell’ipotesi in cui esso determini un abusivo squilibrio nei contratti dei consumatori o integri l’abuso del diritto (in ordine al quale v. Corte Giust., 21/2/2006, C – 255/02)[…]”.
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Note
[1] Corte di cassazione n. 27474 del 20 Settembre 2022, in www.cortedicassazione.it, disponibile full text all’indirizzo internet di seguito riportato: http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snciv&id=./20220920/snciv@s30@a2022@n27474@tS.clean.pdf;
[2] Sui tratti distintivi tra buona fede e diligenza, ex multis, C. M. BIANCA con la collaborazione di MIRZIA BIANCA, Istituzioni di diritto privato, Giuffré, Milano, 2014, pp. 282 e ss.
[3] Sul tema, su questa rivista, anche M. Lopinto, La figura del soggetto debole: istituti, rimedi e problematiche attuali, 26 Luglio 2019, https://www.diritto.it/la-figura-del-soggetto-debole-istituti-rimedi-e-problematiche-attuali/.
[4] Sul rapporto tra principio di buona fede e concetto di abuso del diritto, tendendo conto sia degli orientamenti dottrinali che assimilano i due concetti, sia degli orientamenti dottrinali che li diversificano: F. Galgano, Il dovere di buona fede e l’abuso del diritto, Relazione svolta all’incontro di studio tenutosi a Tivoli dal 6 al 10 giugno 1994.
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