Quando trova applicazione l’art. 379-bis cod. pen., prima ipotesi, c.p.

(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 379-bis)
Indice:

Il fatto 
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione 
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione 
Conclusioni
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Il fatto
La Corte di Appello di Catanzaro confermava una decisione emessa dal Tribunale di Cosenza con cui l’imputato era stato ritenuto colpevole del reato di rivelazione di segreti inerenti ad un procedimento penale (art. 379-bis cod. pen.) e condannato alla pena convertita di E. 5.000,00 di multa.
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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il provvedimento summenzionato proponeva ricorso per Cassazione a mezzo dei suoi difensori che a loro volta contestavano siffatta decisione con impugnazioni distinte.
In particolare, uno di questi legali deduceva i seguenti motivi: 1) nullità dell’ordinanza di inammissibilità della richiesta di pubblica udienza resa il 25 novembre 2020 e della sentenza impugnata per violazione dell’art. 23, comma 6 del decreto – legge n. 149 del 2020; 2) violazione degli artt. 178 e segg. cod. proc. pen. posta a garanzia anche del principio di oralità e pubblicità del processo penale, del diritto di difesa e del giusto processo di cui agli artt. 24 e 11 Cost. e 6 CEDU per avere la Corte di appello trattato il processo in camera di consiglio nonostante la richiesta di trattazione in presenza avanzata dal difensore; 2) e 3) questione di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 6 del decreto – legge n. 149 del 2020 per irragionevolezza della previsione e contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost.; 4) violazione dell’art. 379-bis cod. pen. per mancanza degli elementi costituitivi del reato; 5) inutilizzabilità ex art. 191 cod. proc. pen. delle intercettazioni eseguite nei confronti dell’imputato; 6) violazione ed erronea applicazione degli artt. 42 e 43 cod. pen. per mancanza del dolo del reato; 7) violazione di legge in relazione all’art. 131-bis cod. pen. per mancata applicazione della causa di non punibilità della speciale tenuità del fatto.
Ciò posto, l’altro difensore, dal canto suo, prospettava le susseguenti doglianze: a) violazione degli artt. 125, 546, 192 e 533 cod. proc. pen. per errata applicazione della legge penale e travisamento della prova nella parte in cui l’imputato era stato ritenuto soggetto attivo del reato, colpevole di aver commesso una rivelazione indebita e di avere posto in essere una condotta concretamente offensiva; b) violazione degli artt. 125, 546, 192 e 533 cod. proc. pen. per errata applicazione della legge penale e vizi congiunti di motivazione nella parte in cui era stata desunta la prova dell’elemento psicologico del reato dalla irrilevanza dell’ignoranza della norma impositiva del segreto investigativo; c) violazione dell’art. 131-bis cod. pen. in relazione alla esclusa applicabilità della causa di non punibilità per speciale tenuità del fatto.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso era stimato fondato e quindi, in quanto tale, ritenuto meritevole di accoglimento per le seguenti ragioni.
Si osservava innanzitutto che, ai sensi dell’art. 379-bis cod. pen., salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque rivela indebitamente notizie segrete concernenti un procedimento penale, da lui apprese per avere partecipato o assistito ad un atto del procedimento stesso, è punito con la reclusione fino ad un anno e la stessa pena si applica alla persona che, dopo avere rilasciato dichiarazioni nel corso delle indagini preliminari, non osserva il divieto imposto dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 391-quinquies del codice di procedura penale.
Richiamata tale previsione di legge, gli Ermellini osservavano come siffatto precetto contempla due distinte condotte di consumazione del reato, ossia: a) la prima, consistente nell’indebita rivelazione di notizie segrete, avente come indefettibili presupposti la partecipazione o l’assistenza ad un atto del procedimento, che assurgono, pertanto, al rango di elementi costitutivi dello illecito penale; b) la seconda, consistente nella violazione dell’obbligo al segreto imposto dal Pubblico Ministero ai sensi dell’art. 391-quinquies, che presuppone l’avvenuto rilascio di dichiarazioni all’organo requirente ai sensi degli artt. 362 o 363 cod. proc. pen..
Premesso ciò, si notava come nel caso in esame rilevasse la prima di tali ipotesi, non risultando dalla sentenza impugnata che l’imputato fosse stato in precedenza mai chiamato a rendere dichiarazioni al Pubblico Ministero prima di ricevere l’incarico dal Vescovo di ottemperare alla richiesta di documenti inoltrata dalla Procura della Repubblica di Cosenza.
Orbene, individuata quale condotta criminosa fosse da prendere in considerazione nella fattispecie in esame, i giudici di piazza Cavour facevano presente che se la seconda ipotesi, nettamente definita nella sua materialità, non aveva costituito oggetto di particolari difficoltà applicative, al punto che nessuna delle pur non numerose pronunce di questa Corte di legittimità sul tema risulta oggetto di massimazione (v. ad es. Sez. 6 n. 28095 del 14/09/2020; Sez. 6, n. 27389 del 17/09/2020; Sez. 6 n. 35872 del 20/06/2019) mentre, tornando, invece, alla prima ipotesi, era osservato che, ai fini di una corretta interpretazione della prima parte dell’art. 379 –bis cod. pen., andava sicuramente disattesa la prospettazione difensiva secondo cui l’agente del reato può essere individuato soltanto in chi astrattamente è potenzialmente in grado di assumere la veste di indagato e/o imputato, in ragione del carattere ufficiale dell’atto cui ha partecipato o assistito di persona dato che all’accoglimento della tesi è di ostacolo il dato letterale della legge secondo cui ‘chiunque’ può commettere le condotte incriminate dalla prima parte dell’articolo, a condizione che abbia partecipato o assistito ad un atto del procedimento, da cui la definizione dell’illecito come reato proprio (in tal senso v. Sez. 6, n. 20105 del 16/02/2011).
Chiarito ciò, ad avviso della Suprema Corte, al fine, però, di delimitare l’ambito di applicabilità della previsione in esame, occorre prendere le mosse dalle ragioni di ordine sistematico per cui essa è stata introdotta nel Codice penale posto che l’art. 379-bis cod. pen. è stato inserito con l’approvazione della legge 7 dicembre 2000 n. 397, mediante la quale è stato introdotto nell’ordinamento processuale il minisistema delle investigazioni difensive di cui agli artt. 391-bis e segg. cod. proc. pen., trattandosi,
dunque, di estendere il novero delle persone tenute al segreto istruttorio in aggiunta a quelle che, in forza delle rispettive qualifiche di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, già lo erano in relazione agli atti processuali contemplati dall’art. 329 cod. proc. pen., la cui violazione è assistita dai precetti di cui all’art. 326 cod. pen.; l’art. 379-bis cod. pen. si apre, infatti, con la clausola di salvaguardia “Salvo che il fatto costituisca più grave reato” e tutte le fattispecie di rivelazione dolosa di segreto d’ufficio sono punite in maniera più grave, con la sola eccezione della agevolazione di cui all’art. 326, comma 2, cod. pen., che implica, tuttavia, un atteggiamento soggettivo colposo.
Detto questo, i giudici di legittimità ordinaria osservavano come i soggetti interessati dalla previsione incriminatrice in esame non possano che individuarsi in coloro che, pur non svolgendo alcuna funzione pubblicistica (artt. 357 e 358 cod. pen.) nell’ambito del procedimento penale, si trovino a partecipare o ad assistere alla formazione ovvero alla esecuzione di un atto processuale, sia esso promanante dall’autorità giudiziaria (pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari) o da suoi delegati (polizia giudiziaria) e/o ausiliari (consulente, perito) sia lo stesso imputabile al difensore dell’indagato nell’ambito delle investigazioni difensive, con la debita eccezione, però, dei soggetti semplicemente sottoposti agli effetti dell’atto stesso, in quanto a vario titolo suoi destinatari.
Alla luce di tale ricostruzione sistematica del precetto, per il Supremo Consesso, possono rispondere del reato in questione i soggetti privati che: a) per le ragioni più disparate (perché ad es. presenti di persona nell’ufficio del pubblico ministero o del giudice al momento della redazione dell’atto o per motivi di carattere professionale, come nel caso del consulente della difesa che partecipi ad accertamenti tecnici non ripetibili di cui all’art. 360 cod. proc. pen.) si trovino ad assistere alla formazione dell’atto promanante dall’autorità giudiziaria o dai soggetti a vario titolo da essa delegati ovvero alla relativa esecuzione (ad es. ad una perquisizione o ad un sequestro, v. in termini Sez. 6, n. 20105 del 16/02/2011); b) a varo titolo (ad es. in qualità di ausiliari durante le investigazioni difensive) partecipino alla formazione di atti processuali formati e riferibili al difensore dell’indagato; in tutti casi a condizione che la rivelazione del relativo contenuto concerna notizie riservate e/o destinate a rimanere tali in quel momento.
Tuttavia, sempre ad avviso della Corte di legittimità, per quanto ampio possa essere il novero dei soggetti attivi del reato, esso non potrà mai ricomprendere coloro che risultano semplicemente assoggettati all’esecuzione dell’atto stesso, poiché suoi destinatari in veste di indagati o in qualità di terzi che ne sopportano comunque gli effetti dal momento che una diversa lettura della previsione normativa sortirebbe effetti paradossali nel senso che, in capo al soggetto sottoposto a perquisizione personale o domiciliare durante le indagini preliminari, sorgerebbe, ad esempio, l’obbligo di non divulgare ad alcuno l’avvenuta esecuzione della misura, fino al punto di essergli impedito di rivolgersi finanche ad un difensore al fine di tutelare la propria posizione processuale nell’ambito del procedimento, così come, allo stesso modo, al soggetto fatto segno di richiesta di consegna di documentazione nell’ambito di qualunque organizzazione complessa, risulterebbe addirittura preclusa la possibilità di delegare a terzi il compito di ottemperare alla richiesta stessa, comportando il conferimento della delega la necessaria condivisione del relativo contenuto con il soggetto incaricato.
Pertanto, si imponeva, ad avviso del Collegio un’interpretazione sistematicamente e logicamente circoscritta della prima parte dell’art. 379-bis cod. pen. sotto il profilo sia soggettivo che oggettivo, interpretazione declinabile nel principio di diritto formulato nella seguente maniera: “L’art. 379-bis cod. pen., prima ipotesi, trova applicazione esclusivamente nei confronti delle persone che, in assenza delle relative qualifiche funzionali di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, non sono già tenute all’obbligo del segreto di cui all’art. 329 cod. proc. pen., la cui violazione trova sanzione nell’art. 326 cod. pen.; partecipazione ed assistenza attengono alle fasi di formazione o di messa in esecuzione dell’atto processuale – promanante tanto dall’autorità giudiziaria o da suoi delegati ed ausiliari quanto dal difensore nell’ambito delle indagini difensive – ma non a quelle della ricezione dell’atto stesso o di soggezione ai relativi effetti”
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante essendo ivi chiarito quando trova applicazione l’art. 379-bis cod. pen., prima ipotesi, c.p. che, come è noto, stabilisce che, salvo “che il fatto costituisca più grave reato, chiunque rivela indebitamente notizie segrete concernenti un procedimento penale, da lui apprese per avere partecipato o assistito ad un atto del procedimento stesso, è punito con la reclusione fino a un anno”.
Difatti, in tale provvedimento, è stato formulato il principio di diritto secondo cui l’art. 379-bis cod. pen., prima ipotesi, trova applicazione esclusivamente nei confronti delle persone che, in assenza delle relative qualifiche funzionali di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, non sono già tenute all’obbligo del segreto di cui all’art. 329 cod. proc. pen., la cui violazione trova sanzione nell’art. 326 cod. pen. posto che la partecipazione e l’assistenza attengono alle fasi di formazione o di messa in esecuzione dell’atto processuale – promanante tanto dall’autorità giudiziaria o da suoi delegati ed ausiliari quanto dal difensore nell’ambito delle indagini difensive – ma non a quelle della ricezione dell’atto stesso o di soggezione ai relativi effetti.
Tale pronuncia, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione al fine di comprendere quando questa norma incriminatrice sia applicabile.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su siffatta tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.
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