Quale nullità comporta la revoca dell’ordinanza ammissiva dei testi della difesa in difetto di motivazione sul necessario requisito della loro superfluità

(Ricorso dichiarato inammissibile)
(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 495, c. 4, secondo capoverso)
Il fatto 
La Corte di appello di Milano riformava parzialmente una decisione del Tribunale di Pavia che aveva condannato — sia a fini penali che civili — un imputato per bancarotta fraudolenta distrattiva e preferenziale.
La riforma era consistita nell’esclusione dell’aumento per la continuazione, nel riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in regime di prevalenza sulle aggravanti contestate e nella rimodulazione in mitius del trattamento sanzionatorio sia quello principale che quello accessorio (in quest’ultimo caso, riducendo la durata delle pene accessorie di cui all’art. 216, ultimo comma, legge fall. ad anni cinque).
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso questa decisione proponeva ricorso per Cassazione l’’imputato a mezzo del difensore di fiducia affidando le proprie doglianze a tre motivi così formulati: 1) violazione dell’art. 468 cod. proc. pen.; 2) violazione e falsa applicazione degli artt. 223 e 216 legge fall.; 3) vizio di motivazione quanto alla sospensione condizionale della pena immotivatamente (per il ricorrente) non concessa.
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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il primo motivo di ricorso veniva stimato manifestamente infondato rilevandosi a tal proposito che la revoca dell’ordinanza ammissiva dei testi della difesa, in difetto di motivazione sul necessario requisito della loro superfluità, produce una nullità di ordine generale a regime intermedio (Sez. 5, n. 16976 del 12/02/2020) che deve essere immediatamente dedotta dalla parte presente, ai sensi dell’art. 182, comma 2, cod. proc. pen., con la conseguenza che, in caso contrario, essa è sanata (Sez. 6, n. 53823 del 05/10/2017; Sez. 2, n. 9761 del 10/02/2015; Sez. 5, n. 51522 del 30/09/2013).
Ciò posto, pure il secondo motivo di ricorso veniva stimato inammissibile siccome versato in fatto e privo di confronto con l’affermazione della Corte distrettuale secondo cui l’imputato aveva confessato la vendita dei beni della fallita (peraltro avvenuta in favore di una società di cui era amministratore la figlia, ad un prezzo inferiore al dovuto, prezzo che non risultava pagato) e la sua giustificazione circa la necessità di sottrarli al socio infedele non era idonea a scagionarlo, e ciò in quanto tale giustificazione — oltre a derivare da una mera affermazione di parte — costituiva al più un movente dell’agire ma non escludeva l’idoneità depressiva dell’atto rispetto alla garanzia patrimoniale dei creditori, che è l’in se dell’addebito di bancarotta fraudolenta distrattiva (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016; Sez. 5, Sentenza n. 13910 del 08/02/2017; Sez. 5, n. 47616 del 17/07/2014; Sez. 5, n. 32352 del 07/03/2014), né la tesi difensiva, sempre ad avviso della Cassazione, metteva in dubbio il coefficiente soggettivo giacché il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è reato a dolo generico per la cui sussistenza non è necessaria non solo la volontà di cagionare il fallimento ma neanche lo scopo di recare pregiudizio ai creditori essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016; Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017, Sez. 5, n. 13910 del 08/02/2017) con la rappresentazione «della pericolosità  della condotta distrattiva, da intendersi come probabilità dell’effetto depressivo sulla garanzia patrimoniale che la stessa è in grado di determinare e, dunque, la rappresentazione del rischio di lesione degli interessi creditori tutelati dalla norma incriminatrice» (Sez. 5, n. 15613 del 05/12/2014, dep. 2015).
Detto questo, il terzo motivo di ricorso veniva anch’esso stimato inammissibile perché, per la Suprema Corte, era inedito in quanto la parte non aveva invocato la sospensione condizionale della pena né con l’atto di appello, né in udienza dinanzi alla Corte territoriale rilevandosi a tal proposito che il principio generale da cui muoveva questa valutazione era che non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare siccome non devolute con la dovuta specificità alla sua cognizione tranne che si tratti di questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio o che non sarebbe stato possibile dedurre in precedenza (cfr. l’art. 606, comma 3, cod. proc. pen. quanto alla violazione di legge; si vedano, con specifico riferimento al vizio di motivazione, Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017; Sez. 2, n. 13826 del 17/02/2017; Sez. 2, n. 22362 del 19/04/2013), né a conclusioni diverse, sempre ad avviso del Supremo Consesso, si poteva giungere in forza della norma eccezionale di cui all’art. 597, ultimo comma, cod. proc. pen., secondo cui l’applicazione, tra le altre, della norma di favore invocata può avvenire anche di ufficio atteso che, come sancito di recente da Sez. U, n. 22533 del 25/10/2018, proprio sul tema della sospensione condizionale della pena, «Fermo il dovere del giudice di appello di motivare il mancato esercizio del suo potere di ufficio di applicare il beneficio della sospensione condizionale della pena, in presenza delle condizioni che ne consentono il riconoscimento, specialmente se sopravvenute al giudizio di primo grado, l’imputato non può dolersi, con ricorso per cassazione, della mancata applicazione del medesimo beneficio se non lo ha richiesto nel corso del giudizio di appello» e tale richiesta, come precisato nel corpo della motivazione, può essere formulata sia nei motivi di appello che nelle conclusioni rassegnate in udienza dinanzi al Giudice di appello, momenti, entrambi, in cui invece nella specie si era registrato il silenzio della parte.
La Suprema Corte, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, dichiarava il ricorso in questione inammissibile e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Conclusioni
La decisione in questione è assai interessante nella parte in cui spiega quale nullità comporta la revoca dell’ordinanza ammissiva dei testi della difesa in difetto di motivazione sul necessario requisito della loro superfluità.
Difatti, posto che, come è noto, il “giudice, sentite le parti, può revocare con ordinanza l’ammissione di prove che risultano superflue o ammettere prove già escluse” (art. 495, c. 4, secondo capoverso, c.p.p.), in questa pronuncia, citandosi giurisprudenza conforme, è postulato che la revoca dell’ordinanza ammissiva dei testi della difesa, in difetto di motivazione sul necessario requisito della loro superfluità, produce una nullità di ordine generale a regime intermedio che deve essere immediatamente dedotta dalla parte presente, ai sensi dell’art. 182, comma 2, cod. proc. pen., con la conseguenza che, in caso contrario, essa è sanata.
Tale pronuncia, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione al fine di eccepire tale nullità, ove si verifichi una situazione processuale di questo genere, nei termini previsti e concessi per le nullità a regime intermedio.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su questa tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.
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