Profili di responsabilità penale dei componenti delle commissioni di gara

SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. I reati contro la pubblica amministrazione. Il percorso inaugurato dalla Legge 6 novembre 2012 n. 190. – 3. Il reato di concussione ex art. 317 c.p. – 4. L’induzione indebita a dare o promettere utilità ex art. 319-quater c.p. – 5. L’annosa questione sui criteri distintivi tra il reato di concussione e di induzione indebita. – 6. I reati di corruzione: la corruzione per l’esercizio delle funzioni e la corruzione per atto contrario a doveri di ufficio. – 7. Conclusioni.
1. Introduzione.
La creazione e l’allocazione di rendite inducono l’essere umano, atavicamente, nelle braccia della corruzione e, per tali ragioni, essa può annidarsi in qualsiasi settore d’intervento pubblico.
Attraverso il presente lavoro saranno analizzate le più rilevanti – benché non le uniche – fattispecie di reato che possono fondare la responsabilità a titolo penale dei componenti delle commissioni di gara nel settore dei contratti pubblici.
Per l’ampiezza che connota il genus dei reati contro la Pubblica Amministrazione e che potrebbero astrattamente profilarsi, l’indagine si condenserà sui reati di concussione, di induzione indebita a dare o a promettere utilità, nonché sulla fattispecie corruttiva nel suo duplice schema[1].
A tal fine, giova preliminarmente muovere dal D.lgs. 50/2016, entrato in vigore il 19 aprile 2016, il quale rinnova interamente il corpo normativo relativo ai lavori pubblici, precedentemente regolato dal D.lgs. 163/2006.
Con l’obiettivo di conseguire maggior efficienza amministrativa e combattere il fenomeno dilagante della corruzione, il Legislatore ha previsto uno snellimento e una semplificazione delle procedure, al fine di garantire maggior chiarezza e trasparenza.
In particolare, ai sensi dell’art. 78 del Codice dei Contratti pubblici del d.lgs. n. 50/2016 si  prevede che l’ANAC gestisca e aggiorni l’Albo nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni giudicatrici nelle procedure di affidamento dei contratti pubblici.
Segnatamente, l’ANAC deve definire i criteri e le modalità per l’iscrizione all’albo dei soggetti dotati di requisiti di compatibilità e moralità, nonché di comprovata competenza e professionalità nello specifico settore a cui si riferisce il contratto[2].
Analogamente, l’art. 77 del Codice, nel prevedere che la valutazione delle offerte dal punto di vista tecnico ed economico è affidata ad una commissione giudicatrice, disciplina le caratteristiche principali delle commissioni giudicatrici e i requisiti di compatibilità dei commissari di gara.
È proprio con espresso riguardo ai requisiti di onorabilità che l’art. 77, comma 6 Dlgs. cit. prevede che si applicano ai commissari di gara le norme di cui all’art. 35-bis del d.lgs. 165/2001, relative alla “Prevenzione del fenomeno della corruzione nella formazione di commissioni e nelle assegnazioni agli uffici”; prevedendo che “sono altresì esclusi da successivi incarichi di commissario coloro che, in qualità di membri delle commissioni giudicatrici, abbiano concorso, con dolo o colpa grave accertati in sede giurisdizionale con sentenza non sospesa, all’approvazione di atti dichiarati illegittimi”.
Coerentemente con tale impostazione, il richiamato art. 35-bis del d.lgs. 165/2001 prevede che non possono far parte delle commissioni giudicatrici «coloro che sono stati condannati, anche con sentenza non passata in giudicato, per i reati previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale».
Il suddetto capo I riguarda i delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, ma non quelli commessi dai privati nei confronti della Pubblica Amministrazione, di cui al successivo capo II.
Peraltro, oltre ai richiamati reati di cui al capo II del titolo II del libro secondo del codice penale, è necessario inserire ulteriori reati, quali il falso, i delitti contro l’ambiente, le truffe, le estorsioni, l’associazione a delinquere, tra quelli che incidono sulla moralità dei commissari di gara e sulla conseguente possibilità di iscrizione all’Albo[3].
Dunque, al precipuo fine di garantire l’imparzialità e l’indipendenza dell’azione pubblica, la stazione appaltante ha il compito di mettere in atto misure volte a prevenire conflitti di interesse o possibili preferenze in grado di minacciare e condizionare gli esiti della gara.
In questa fase i processi rilevanti riguardano: la pubblicazione del bando, la nomina della commissione giudicatrice, la verifica dei requisiti di partecipazione e la valutazione delle offerte.
Nella fase di selezione del contraente il rischio maggiore è costituito dalla possibilità che gli attori coinvolti manipolino le disposizioni al fine di pilotare l’aggiudicazione della gara.
Il riferimento è, in particolare, a comportamenti volti a ridurre il numero di partecipanti alla gara, all’applicazione distorta dei criteri di aggiudicazione per ottenere l’esito desiderato e, infine, alla nomina di commissari in conflitto di interesse o privi dei necessari requisiti.
In tal senso, indici rivelatori di una non corretta gestione della procedura si rinvengono nell’assenza di pubblicità del bando, nella concessione di proroghe non motivate oltre il termine stabilito dal bando, nell’alto numero di concorrenti esclusi e nella presenza di gare aggiudicate con frequenza agli stessi operatori.
Tale sintetica premessa di carattere generale serve a chiarire la risposta resa nel tempo, dall’ordinamento, ad una situazione di criminalità diffusa all’interno dell’apparato della Pubblica Amministrazione[4] e avviata con l’adozione della l. n. 190/2012, contenente “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”.
Tale riforma, benché attualmente integrata e modificata da successivi e plurimi interventi normativi – ex multis la L. n. 124 del 30 maggio 2015 e la recentissima L. 3/2019 – ha l’indubbio merito di aver proceduto al delineamento di un nuovo assetto dei reati di concussione, induzione indebita e di corruzione di cui si darà esplicazione.
Da quanto sin qui detto è chiaro che, a cagione della particolare natura degli illeciti di cui si discute, l’evoluzione normativa non poteva non essere fortemente influenzata da un nuovo modo di intendere il rapporto tra autorità e cittadino, come arricchito dal necessario processo di integrazione nella realtà sovranazionale.
2. I reati contro la pubblica amministrazione. Il percorso inaugurato dalla Legge 6 novembre 2012 n. 190.
L’illegalità della pubblica amministrazione è un fenomeno conosciuto da tempo in Italia, la cui capacità di polarizzare l’attenzione dell’opinione pubblica e della classe politica, premessa per la formulazione di interventi legislativi, sembra rispondere ad una logica più
I delitti contro la pubblica amministrazione, nel costituire una categoria di reati previsti e dall’ordinamento penale italiano[5] che attentano ai princìpi costituzionali di buon andamento e imparzialità degli organi pubblici e dei loro rappresentanti[6], trovano ratio giustificatrice nel fatto che ledono sia il prestigio della cosa pubblica sia quel naturale rapporto di fiducia che deve esistere tra il cittadino e lo Stato.
Introdotti in epoca fascista dal codice Rocco per rafforzare l’autorità dello Stato, la disciplina del delitti contro la pubblica amministrazione è stata profondamente e più volte modificata negli anni 1990, nel periodo storico legato agli scandali di tangentopoli negli anni 1990[7].
In particolare, la legge 6 novembre 2012 n. 190 (Legge Severino), recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione” ha introdotto numerose e rilevanti modifiche alla disciplina in tema di reati dei pubblici agenti contro la P.A.[8]
Anche a seguito di tale storica legge, i successivi e molteplici interventi normativi che si sono susseguiti negli ultimi anni a livello nazionale, internazionale e comunitario attribuiscono tutti rilevanza al fenomeno corruttivo, con il fine di arginarlo e combatterlo, esprimendo l’inequivoco dato per cui esso sia divenuto ormai un fenomeno a larghissima diffusione e non più episodico.
È invalsa, del resto, l’opinione per cui un efficace contrasto alla corruzione richiede una politica integrata che miri al rafforzamento dei rimedi repressivi ed alla simultanea individuazione di strumenti di prevenzione idonei ad incidere efficacemente sulle ipotesi della corruzione e sui fattori che ne agevolano la diffusione.
Anche con riguardo ai soggetti, il fenomeno della corruzione, ormai non più relegato al solo carattere bilaterale, si caratterizza per il coinvolgimento di soggetti ulteriori, in funzione di intermediazione e di filtro.
Segnatamente, nell’intento di combattere in via prodromica il fenomeno della corruzione ed in assolvimento ad alcuni obblighi internazionali – ancorché non avulsa da critiche – la L. 6 novembre 2012 n. 190 ha introdotto nel Codice penale l’art. 346-bis (traffico di influenze illecite) al cui ambito applicativo sono state attratte tutte quelle condotte di intermediazione o “lobbismo” illecito nei confronti di soggetti adibiti allo svolgimento di funzioni o servizi pubblici finalizzate ad influire sulle determinazioni relative allo svolgimento delle loro funzioni[9].
Invero, ancor prima dell’intervento modificativo operato dalla recente L. 3/2019 (meglio nota come Legge Spazzacorrotti), che ha abrogato il reato di millantato credito (art. 346 c.p.) modificando il reato di traffico di influenze illecite, sul presupposto di relazioni – invece – effettivamente esistenti tra il mediatore e l’agente pubblico, venivano ad essere sanzionate la promessa o la dazione indebite di un compenso per lo svolgimento di un’opera di mediazione “illecita” con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio, ovvero per la remunerazione di questi ultimi in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri del proprio ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del loro ufficio.
La stessa Legge Spazzacorrotti ha previsto l’innalzamento delle pene del reato di corruzione per l’esercizio della funzione, prevista al riscritto art. 318 c.p., passando dalle reclusione da uno a sei anni alla reclusione da tre a otto anni[10].
Ciò premesso, al netto dei copiosi interventi normativi registratisi nel tempo (come tali non compiutamente trattabili in tale sede), la L. 190/2012 mantiene ancora il merito di essere intervenuta in modo significativo in sede di riscrittura ed integrazione di ipotesi criminose già contemplate, prima tra tutte la concussione, oggetto di un significativo intervento modificativo di cui si dirà nella trattazione delle fattispecie previste dagli artt. 317 e 319 quater c.p.
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3. Il reato di concussione ex art. 317 c.p.
La fattispecie della concussione costituisce una figura emblematica nel sistema di tutela penalistica predisposta dal Legislatore a tutela del corretto esercizio dei pubblici poteri, indi per cui risulta coerentemente punita con la sanzione più elevata tra i reati contro la P.A.
Tale reato si presenta come una specie di “estorsione qualificata” dalla natura del soggetto agente.
La L. n. 190/2012, contenente disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione, ha modificato la struttura della norma, intervenendo essenzialmente su diverse linee direttrici.
In primis, il Legislatore del 2012 ha circoscritto la condotta di cui all’art. 317 c.p. alla sola ipotesi di concussione “per costrizione”, facendo confluire la precedente figura della concussione “per induzione” in una distinta ed ulteriore fattispecie contenuta nel nuovo art. 319-quater c.p. e denominata “Induzione indebita a dare o promettere utilità”, riferibile sia al pubblico ufficiale che all’incaricato di pubblico servizio.
Secondariamente, aveva riferito il “nuovo” art. 317 c.p. al solo pubblico ufficiale, comportando l’eliminazione della previsione inserita dalla l. n. 86/1990 di riforma generale dei delitti dei pubblici ufficiali che aveva esteso la punibilità all’incaricato di pubblico servizio, il quale prima del 1990 non era considerato dal legislatore in grado di esercitare sugli utenti quella “coartazione della volontà” idonea e necessaria ad integrare tale tipologia di reato[11].
Cionondimeno, il novero dei soggetti attivi è poi nuovamente mutato a seguito della L. 69/2015 che ha ricompreso tra i soggetti autori del reato, accanto al Pubblico Ufficiale, anche l’incaricato di un pubblico servizio.
La decodificazione della costrizione è nucleo fondante delle concussione.
Essa prescinde dalla mera violenza fisica per abbracciare le ipotesi di c.d. violenza morale o di minaccia perpetrate con l’abuso della qualità o dei poteri.
Incertezze interpretative suscita la stessa indagine relativa al significato del termine “abusare” e alla funzione che assolve nella struttura degli illeciti in esame.
Tali difficoltà ermenutiche risentono, evidentemente, della mancanza, nella parte speciale del codice penale, di una definizione unitaria del concetto di abuso, essendo lo stesso utilizzato con riferimento a fattispecie tra loro eterogene.
Sicché, il significato da attribuire al concetto di abuso ex artt. 317 c.p. e 319-quater c.p. va desunto dalla qualifica dell’agente (pubblicistica) e dall’oggetto stesso dell’abuso (la qualità o i poteri), e per questo lungi dal costituire un mero presupposto della condotta, anzi ne rappresenta un elemento essenziale e qualificante[12], causalmente connesso tanto alla costrizione quanto all’induzione[13].
Del pari, si discute se gli abusi possano realizzarsi in forma omissiva. Tuttavia è da escludere la configurabilità dell’abuso della qualità in forma omissiva, risultando difficilmente configurabile la possibilità per l’agente pubblico di abusare della sua condizione personale in termini di puro non facere[14].
Pertanto, è necessario che la minaccia si palesi in maniera esplicita e concreta, trovando una ragionevole probabilità di realizzazione sul piano della realtà esteriore, e che annienti, del tutto, la capacità di autodeterminazione della vittima.
Ciò spiega il perché la violenza morale o la minaccia con la prospettazione di un danno ingiusto devono essere di entità tali da assoggettare completamente il privato alla volontà prevaricatrice del pubblico ufficiale.
L’assoggettamento in parola e derivante dal metus pubblicae potestatis segna e individua il discrimine tra la concussione e l’induzione indebita ex art. 319-quater c.p.[15]
Segnatamente, “laddove la volontà del privato non venga ‘piegata’ dall’altrui sopraffazione, ma solo ‘orientata’ da una pressione psichica, i cui effetti, poiché non concretantisi in una violenza o minaccia di un male ingiusto, sono di contro riconducibili ad un’indebita manifestazione delle prerogative proprie della qualifica soggettiva ricoperta dall’imputato, ed oggettivamente esibite per ottenere per se stesso ed altri soggetti una non dovuta gratuità di talune prestazioni, si configura non già il reato di concussione, ma quello di cui all’art. 319 quater c.p., ossia d’induzione indebita a dare o promettere utilità’’[16].
Quanto al momento consumativo si è valorizzato non tanto il momento relativo alla consegna materiale dell’utilità, bensì alla mera promessa, non rilevando neppure il fatto che la vittima, dopo essere costretta a promettere, si sia rivolta all’autorità giudiziaria per denunciare il fatto, e che quindi la consegna sia stata effettuata sotto la supervisione delle forze dell’ordine[17].
Con riferimento, invece, all’ammissibilità della fattispecie nella forma del tentativo, esso è stato pacificamente ammesso configurandosi la tentata concussione ogni qualvolta il pubblico ufficiale ponga in essere comportamenti e atti connotati da efficacia intimidatoria, restando ininfluente la soggezione o meno del privato.
Tuttavia l’aspetto di maggiore interesse relativamente alla fattispecie in discorso attiene al rapporto tra vecchie e nuove previsioni incriminatrici.
In particolare, è stata a lungo dibattuta la sussistenza di un rapporto di continuità normativa tra la precedente concussione per induzione e la figura delittuosa in argomento e ciò anche e soprattutto ai fini dell’applicabilità delle norme in tema di successione delle leggi penali nel tempo.
Sul punto, la Suprema Corte ha mostrato prima facie dei dubbi in ordine alla possibilità di riscontrare tale continuità[18]; ex adverso, la dottrina ne ha ammesso la sussistenza sostenendo che le ipotesi abbracciate dal vecchio art. 317 c.p. vengono a confluire nell’una o nell’altra delle nuove fattispecie (concussione per costrizione ed induzione indebita).
A rigore, si è evidenziato che il senso complessivo dell’operazione di riforma in materia di concussione è stato quello di scindere la fattispecie previgente nelle due sottofattispecie citate, elevando ciascuna di essa a fattispecie autonoma, sicché tutte le altre ipotesi abbracciate dal vecchio art. 317 c.p. vengono attualmente a confluire nell’una o nell’altra delle nuove fattispecie, che si pongono entrambe in rapporto di specialità rispetto alla norma precedente e pertanto danno luogo, secondo gli insegnamenti della sentenza Giordano delle Sezioni Unite, a un fenomeno di successione meramente modificativa di leggi penali[19]: con conseguente applicazione della lex mitior ai fatti commessi nel vigore della previgente disciplina[20].
Nessun dubbio invece sussisterebbe in ordine alla configurabilità dell’abuso di poteri tanto nell’ambito di un’attività vincolata quanto in un’attività discrezionale, poiché allorquando l’atto è vincolato l’abuso avrebbe a manifestarsi nel mancato compimento dello stesso ovvero nel compimento in modo difforme dalle legge; viceversa, quando l’atto è discrezionale si ha abuso dei poteri tutte le volte in cui non viene fatto un uso conforme della discrezionalità rispetto agli interessi pubblici perseguiti, con conseguente deviazione dell’atto dalla sua causa tipica[21].
4. L’induzione indebita a dare o promettere utilità ex art. 319-quater c.p.
Nel deliberato intento di fornire una risposta concreta alle pressanti richieste riformatrici e di adeguamento alle istanze sovranazionali la legge del 2012 si è posta, da un lato, l’obiettivo di introdurre all’interno della pubblica amministrazione un disciplina “preventiva” atta ad evitare il verificarsi di situazioni favorevoli alla consumazione degli illeciti; dall’altro, di innovare la normativa penale, introducendo nuove fattispecie incriminatrici, come il “traffico di influenze illecite” e la “corruzione tra privati”, modificando altresì sensibilmente fattispecie già esistenti.
In particolar modo, la L. n. 190/2012 opera uno “spacchettamento” dell’originaria fattispecie di concussione che si presentava come fattispecie alternativa mista integrabile tanto mediante la condotta di “costrizione” quanto mediante condotta di “induzione”.
Corrispettivamente all’osservata elevazione della concussione per costrizione a fattispecie autonoma, il Legislatore del 2012 introduce un’ulteriore autonoma fattispecie di reato: l’induzione indebita a dare o promettere utilità ex art. 319-quater[22].
La condotta di induzione è disciplinata autonomamente, il pubblico ufficiale e l’incaricato di pubblico servizio figurano entrambi quali soggetti attivi puniti con la reclusione da sei anni a dieci anni e sei mesi, ed in forza della previsione contenuta nel comma secondo è assoggettato a pena anche il privato “indotto” che da persona offesa diviene concorrente necessario nella nuova fattispecie di reato.
Giova infatti rilevare che, prima dell’intervento operato dalla legge n. 190/2012, la concussione, in entrambe le forme, era riferibile sia al pubblico ufficiale che all’incaricato di pubblico servizio e non prevedeva per nessuna di tali figure la punibilità del soggetto privato, in quanto considerato vittima della condotta illecita del pubblico ufficiale.
Invero, la concussione “ante riforma” richiedeva una modifica normativa che fosse idonea a recepire le raccomandazioni di carattere internazionale, provenienti in particolare dal rapporto sulla fase 3 dell’applicazione della Convenzione anticorruzione Ocse in Italia, scongiurando il consentire al corruttore di sfuggire alle sanzioni presentandosi come vittima di concussione.
La fattispecie di induzione indebita occupa così uno spazio intermedio tra la concussione per costrizione, in cui il privato è vittima, e la corruzione in senso stretto, caratterizzata da un vero e proprio mercimonio della pubblica funzione, all’interno della quale il pubblico agente ed il privato occupano una posizione paritetica.
Ebbene, la punibilità “bilaterale” che caratterizza il reato di induzione unitamente alla collocazione contigua rispetto alle figure di corruzione è indice di una maggior prossimità al reato di corruzione; per altro verso, però, il Legislatore pare aver considerato il minor disvalore della condotta induttiva rispetto alla corruzione punendo meno gravemente il privato indotto[23] (reclusione fino a tre o quattro anni) rispetto al corruttore (punito con la reclusione da sei anni a dieci anni e sei mesi).[24]
È, dunque, in tale chiave che va letta l’introduzione dell’art. 319-quater c.p., ossia nell’avvertita esigenza di delimitare gli spazi di impunità del privato che effettui dazioni o promesse indebite di denaro o altra utilità ai pubblici funzionari, adeguandosi a prassi di corruzione diffusa in determinati settori.
Il messaggio legislativo sotteso alla disposizione in parola è di plastico nitore: i pubblici ufficiali non vanno remunerati per l’esercizio delle loro funzioni.
Pertanto, si assiste al mutamento della precedente visione politico-criminale contenuta nell’art. 317 c.p. delineando un nuovo modo di intendere i rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione.
Dal lato pubblicistico, nel quadro in cui ha trovato genesi detto reato, sono punibili sia il pubblico ufficiale che l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità.
Quanto alla struttura di tale reato, è mantenuto l’abuso della qualità o dei poteri, quale elemento già previsto e osservato per l’ipotesi concussiva per induzione, nonché  richiesto per l’ipotesi di concussione per costrizione, di cui al riscritto art. 317 c.p.
È in tale elemento che va tracciata la distinzione tra l’induzione indebita rispetto alla corruzione propria di cui all’art. 319 c.p.
Per quanto attiene, invece, al rapporto tra la fattispecie di cui all’art. 319-quater e la previgente concussione per induzione si ha una nuova incriminazione, inapplicabile come tale ai fatti pregressi, per il fatto commesso dal privato che sia stato indebitamente indotto alla dazione o alla promessa di denaro o altra utilità dal pubblico funzionario che abbia abusato della sua qualità o delle sue funzioni.
5. L’annosa questione sui criteri distintivi tra il reato di concussione e di induzione indebita.
A seguito della legge 6 novembre 2012, n.190 la questione di diritto che si è posta all’indomani della riforma concerne la linea di demarcazione tra la fattispecie di concussione – come prevista dal novellato art. 317 c.p. – e quella di induzione indebita a dare o promettere utilità – prevista dal successivo art. 319-quater c.p., specie con riferimento al rapporto tra la condotta di costrizione e quella di induzione e alle connesse problematiche di successione di leggi penali nel tempo[25].
Sulla problematica si sono pronunciate le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 12228 del 24 ottobre 2013[26], componendo il dibattito insorto in dottrina e giurisprudenza e sostenendo la sussistenza della continuità normativa tra le fattispecie de quibus.
Tuttavia, al netto della ritenuta comunanza tra le due fattispecie di uno stesso evento (dazione o promessa dell’indebito) e di una medesima modalità di realizzazione (l’abuso della qualità o dei poteri dell’agente pubblico), le stesse si differenziano per l’uso del verbo “costringere” nella concussione rispetto al verbo “indurre” di cui all’art. 319-quater c.p.
Ebbene, se la definizione del concetto di costrizione non ha sollevato particolari problematiche tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, venendo individuato nell’ “esercitare con violenza o minaccia una pressione su una persona, in modo da alterarne il processo formativo della sua volontà e determinare la persona medesima ad una azione od omissione diversa da quella che altrimenti ( e cioè senza la coazione) avrebbe compiuto”[27], maggiori dubbio sono sorti con riferimento alla corretta decodificazione della modalità induttiva.
Certi che “indurre” significhi “influire sul processo di formazione dell’altrui volere, in modo da ottenere che taluno si determini ad una azione od omissione”[28], per un certo indirizzo dottrinale, al fine di limitare la portata incriminatrice della condotta di induzione rispetto alla costrizione, occorre limitare il termine “induce”, alle sole ipotesi di induzione in errore. Secondo tale impostazione non rileverebbe ogni induzione a compiere qualcosa, ma la sola induzione mediante inganno per piegare l’altrui volere a una condotta, che altrimenti non si sarebbe voluta.
Tuttavia, il rischio cui si perviene mediante un siffatto opinare è quello di far coincidere la concussione con la truffa ex art. 640 c.p. aggravata dalla qualità dell’agente ex art. 61 n. 9 c.p.
Per tali ragioni, opposto orientamento critico ha sostenuto che per induzione dovesse intendersi ogni forma di pressione caratterizzata da minor cogenza rispetto alla costrizione, da realizzarsi mediante lusinghe, ammiccamenti, ecc., potendosi questa giovarsi dell’errore solo nella misura in cui il privato sia consapevole di dare o promettere l’indebito, non potendosi spingere fino al punto di fargli credere di star dando o promettendo quanto dovuto. Conclusivamente, è necessaria la consapevolezza del privato “di essere vittima di un sopruso perpetrato nei suoi confronti”[29].
Infine, per un orientamento mediano, il concetto di induzione ricomprenderebbe tanto l’inganno, sia nella forma più grave di artifici e raggiri che in quella più lieve di menzogna, nonché l’esortazione ed il consiglio, purché la posizione di supremazia rivestita dal funzionario abbia influito sull’accettazione del privato.
Orbene, nell’obiettivo di individuare chiaramente i criteri differenziatori della concussione ex art. 317 c.p., dall’induzione indebita a dare o promettere utilità, di cui all’art. 319-quater, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione si sono delineati tre differenti indirizzi interpretativi[30].
Secondo un primo indirizzo interpretativo, sostenuto dalla sentenza Nardi[31], i delitti de quibus sono il risultato dello “sdoppiamento” della figura di concussione disciplinata dal previgente art. 317 c.p. senza l’integrazione di ulteriori elementi descrittivi. Vengono per tal via recuperati gli approdi cui era pervenuta la pregressa giurisprudenza di legittimità che individuava il discrimen tra le “vecchie” ipotesi di concussione per costrizione e per induzione nell’intensità della pressione prevaricatrice[32].
Segue che la prima si connota per una forma più blanda di persuasione, di suggestione o di pressione morale, non idonea a compromettere la libertà di autodeterminazione dell’indotto, il quale mantiene un ampio margine di discrezionalità, e che giustifica la sua punibilità; mentre la seconda si caratterizza per modalità pressorie molto intense e tali da incidere notevolmente sulla sua libertà di autodeterminazione.
Da una differente angolatura, altra parte della giurisprudenza di legittimità è giunta a individuare la linea di demarcazione tra le due ipotesi delittuose nell’oggetto della prospettazione: danno ingiusto e contra ius nella concussione, danno legittimo e secundum ius nell’induzione indebita a dare o promettere utilità[33], evidenziando semanticamente la dicotomia costrizione/induzione che ricorre rispettivamente nelle due norme.
Da ultimo, un terzo filone giurisprudenziale[34] e mediano alle precedenti formulazioni propone una soluzione interpretativa ritenendo che il criterio discretivo tra le due ipotesi criminose sia ascrivibile alla diversa intensità della pressione psichica esercitata sul privato. Per le situazioni dubbie, dunque, il criterio discretivo legato al grado di condizionamento psichico deve essere tuttavia integrato dal tipo di vantaggio che il destinatario della pretesa indebita consegue per effetto della dazione o della promessa di denaro o altra utilità.
La surriferita diversità delle interpretazioni fornite dalla giurisprudenza in chiave solutoria del problema della linea di discrimine tra le fattispecie di concussione e di induzione indebita ha giustificato la rimessione al vaglio delle Sezioni Unite delle Cassazione[35] (sentenza “Maldera”).
Si è, dunque, giunti ad affermare che “la coazione psicologica che si risolve sostanzialmente nella compressione della libertà di autodeterminazione suscitata dal timore del male minacciato è stata distinta in assoluta e relativa. Nella prima si sono fatti rientrare tutti i casi in cui la vittima è in balìa dell’aggressore ed è privo di qualsivoglia potere di autodeterminazione: per ripetere un antico brocardo, il soggetto non agit, sed agitur. Ricorre, invece, la seconda ipotesi quando l’aggressore non può pervenire al risultato prefissatosi senza la collaborazione della vittima alla quale è lasciata una certa libertà di scelta, per quanto esigua, fra il male minacciato dall’aggressore e il male che subirebbe non assecondandolo; in questo caso, la vittima etsi coactus, tamen voluit.”[36].
Ne consegue che nella concussione ex art. 317 c.p. il riferimento deve essere al tipico mezzo di coazione, ossia alle modalità di comportamento rappresentate dalla “violenza” e dalla “minaccia” quali uniche modalità idonee ad “obbligare” il soggetto passivo a tenere un comportamento che altrimenti non avrebbe tenuto”[37].
6. I reati di corruzione: la corruzione per l’esercizio delle funzioni e la corruzione per atto contrario a doveri di ufficio.
La corruzione, intesa in senso generico, consiste in un accordo fra un pubblico funzionario e un privato, in forza del quale il primo accetta dal secondo, per un atto relativo all’esercizio delle sue attribuzioni, un compenso che non gli è dovuto[38].
La corruzione è, dunque, un ménage à trois, un gioco a tre in cui sono coinvolti: un principale, un agente e un soggetto corruttore. Sicché si determina corruzione, quando il pubblico agente viene meno ai doveri legati al suo ruolo pubblico e assegnati dalla collettività: il patto tra corrotto e corruttore rompe il legame di fiducia con il soggetto principale, allontanando l’agente dal compito di realizzare gli interessi collettivi.
Gli aspetti che favoriscono la corruzione sono “le rendite allocate a vantaggio del corruttore e in parte restituite – per vie riparate- all’agente pubblico sotto forma di tangente”[39].
Questo processo si sviluppa attraverso tre meccanismi:

l’acquisto di beni e servizi richiesti dalla collettività e offerti da soggetti privati a un costo superiore a quello di mercato (emblema sono gli appalti di opere pubbliche);
la vendita o l’assegnazione a privati di beni e servizi senza alcun corrispettivo oppure ad un prezzo inferiore a quello di mercato;
l’attività di enforcement, che permette agli agenti pubblici di imporre costi e espropriare o ridurre il valore di risorse e beni privati.

Il fenomeno corruttivo, nel suo opaco quanto endemico sviluppo ha assunto colorazioni trasnazionali concordemente riconosciute: “pratica occulta e sfuggente come poche altre, notoriamente comune ed endemica in molti paesi, non affatto esclusi quelli a più elevato tasso di civilizzazione, la corruzione unisce alla pesante immortalità del comportamento, la distorsione di una sana parità concorrenziale: effetto obbligato e al tempo stesso terreno di coltura e strumento di sostegno insostituibile al dilagare della criminalità organizzata, essa contribuisce a minare e ad ostacolare gravemente le stesse condizioni di sviluppo delle moderne democrazie”[40].
La progressiva esigenza di repressione di tale radicato fenomeno criminale e culturale ha spinto il Legislatore, pochi anni dopo l’intervento di riforma del 2012, a rivisitare alcuni aspetti della disciplina attraverso la L. 69/2015 nell’ottica di rinforzare l’inasprimento sanzionatorio. E, d’altra parte, è nell’ inafferrabile poliedricità di sviluppo di tale pratica che s’innesta la lotta alla corruzione nella società contemporanea, in cui forme di illegalità sempre nuove impongono adattamenti legislativi tanto più immediati quanto efficaci e scrupolosi.
A rigore si è affermato che “La corruzione ha due anime, presenta cioè due principali forme di manifestazione (…). Si suole chiamare ‘burocratica’ la corruzione in cui domina l’atto amministrativo oggetto del mercimonio, tendenzialmente individuato e inserito in un episodio singolo e definito. Si può invece denominare ‘affaristica’ quella corruzione in cui domina il flusso di denaro prodotto da una rete elastica ed abbastanza indeterminata di scambi corruttivi che tendono a sfumare in rapporti interpersonali sufficientemente stabili”[41].
Sotto un profilo strutturale, la corruzione è, innanzitutto, un reato plurisoggettivo – o a concorso necessario – atteso che ne rispondono sia il soggetto privato corruttore sia il funzionario pubblico corrotto, ritenuti compartecipi dello stesso reato.
Il codice penale prevede, inoltre, la possibilità del concorso eventuale di terzi, che possono fungere da collegamento tra corrotto e corruttore o che possono fornire importanti informazioni ai soggetti coinvolti.
In seconda battuta, la corruzione si configura come un reato a duplice schema: principale e sussidiario.
Per lo schema principale, il reato ricomprende sia il momento in cui i due soggetti definiscono un accordo, sia il momento in cui il soggetto corrotto riceve l’utilità pattuita. Lo schema sussidiario, invece, si configura allorquando la promessa non viene mantenuta e in questo caso il reato sussiste con la sola accettazione della promessa.
Ciò premesso, prima della riforma dei reati contro la pubblica amministrazione, le fattispecie della corruzione presentavano una struttura normativa differente da quella odierna.
In primo luogo era netta la distinzione tra corruzione propria e corruzione impropria e nonché la distinzione tra corruzione antecedente e susseguente.
Mentre la corruzione propria delineava un agire criminale volto alla compravendita di un atto contrario ai doveri d’ufficio del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, la seconda, disciplinata dall’art 318 c.p., concerneva un atto conforme ai doveri d’ufficio.
Fermi sull’idea che il bene tutelato riguardava il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione[42], la riforma del 1990 unifica in un’unica fattispecie la forma susseguente con quella antecedente per quanto concerne il profilo sanzionatorio, per ragioni dettate dai fini processuali e probatori[43].
Con riferimento al soggetto attivo oltre al pubblico ufficiale, l’art. 320 c.p. comprendeva al suo interno anche l’incaricato di pubblico servizio che al momento del fatto avesse la qualifica che la legge richiedeva per il compimento del reato.
Tratto distintivo tra le due forme di corruzione era, dunque, dato dalla contrarietà o meno dell’atto ai doveri d’ufficio; l’art. 319 c.p. provvedeva ad accostare l’omissione (mancato compimento dell’atto) e il ritardo (esecuzione dell’atto oltre i termini prescritti dalla legge), alla ultimazione dell’atto contrario, ravvisando nelle due forme della condotta omissiva un comportamento antidoveroso del pubblico ufficiale.
In tale contesto si inserisce la legge del 2012 che incide sulle fattispecie introducendo una distinzione tra corruzione propria e corruzione per l’esercizio della funzione (ex corruzione impropria); la prima per un atto contrario ai doveri di ufficio, la seconda disciplinata dall’art. 318 c.p. per l’esercizio delle funzioni o dei poteri[44].
Ne discende che la fattispecie punita dal legislatore è imperniata nel ricevere utilità «per l’esercizio della funzione o dei poteri».
Per mezzo della scelta di modificare la suddivisione normativa espungendo il riferimento al compimento di un atto d’ufficio, da compiere o già compiuto, e sostituendolo con la più ampia ricezione di utilità “per l’esercizio della funzione o dei poteri” si assiste al superamento della dicotomia tra corruzione impropria antecedente e susseguente, con la conseguenza pratica che il corruttore può essere perseguito sia nel caso di dazione che in quello di promessa.
Sul tema, una recentissima sentenza della Corte d’Appello di Milano, nel condividere la prospettazione accusatoria, ha ritenuto configurabile in astratto la fattispecie di cui all’art. 318 c.p. “avendo l’uomo politico algerino – ed i funzionari dell’ente petrolifero – accettato di favorire l’impresa italiana e le sue consociate estere nella partecipazione ed aggiudicazione delle indicate gare d’appalto, sulla base di un patto corruttivo concluso anteriormente all’attuazione di quella protezione”, definendosi la susseguente come l’ipotesi in cui, invece, “l’accordo interviene successivamente alla realizzazione dell’attività funzionale, presentando con questo un legame causale e non finalistico, in quanto l’accordo corruttivo è volto alla remunerazione di un’attività già esercitata prima ed indipendentemente dall’accordo stesso”[45].
Segnatamente, l’accordo viene adottato prima della cosiddetta “vendita di discrezionalità” ed è questa dinamica a distinguere la corruzione antecedente dalla susseguente.
Sicché, secondo l’impianto motivatorio in esame, è irrilevante che i termini dell’accordo prevedano il versamento della remunerazione illecita dopo l’aggiudicazione degli appalti, giacché si configura comunque l’ipotesi corruttiva antecedente in quanto il reato di corruzione si perfeziona già al tempo della conclusione del pactum sceleris, procrastinandosi semplicemente, con i pagamenti, l’esecuzione del reato.
Le ragioni sottese all’esaminata modifica si rinvengono, dunque, nella constatazione che, nella prassi, il pubblico amministratore asserve la sua carica pubblica e i relativi poteri o servizi alla disponibilità economica del privato, non realizzando uno sporadico episodio corruttivo, bensì un grave rapporto continuato di malaffare tale da asservire il pubblico ufficio o servizio alla mercé del privato corruttore.
Sulla base di siffatte coordinate ermeneutiche la nuova fattispecie dell’art. 318 c.p. dilata il suo raggio di copertura normativa risultando applicabile anche ai casi di corruzione impropria, sia a quelli di corruzione per l’esercizio della funzione.
Nel dettaglio normativo, è rimarchevole il dato per cui sia venuto meno anche il termine «retribuzione», atteso il riferimento essenziale «al denaro o altra utilità».
È entro tale contesto che pare utile, al fine di arginare il diffondersi di questi fenomeni criminosi, l’utilizzo non solo degli strumenti sanzionatori attraverso l’inasprimento delle pene, bensì l’eliminazione di tutto quanto possa essere utile e favorevole allo sviluppo di tali fenomeni adottando criteri volti alla trasparenza e alla rotazione degli incarichi dirigenziali pubblici; insomma utilizzare tutti gli strumenti utili alla prevenzione più che alla punizione[46].
Nel disciplinare la “Corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio” o corruzione propria, l’art. 319 c.p., a seguito della riforma del 2012, punisce sia il soggetto corruttore sia il pubblico ufficiale che si siano accordati per l’omissione o per il ritardo di un atto conforme ai doveri d’ufficio, o per compiere o per aver compiuto un atto illegittimo/non conforme ai doveri d’ufficio, dietro pagamento o promessa di pagamento[47].
Si ricade, dunque, nelle maglie della corruzione propria allorché si abbia la percezione di un compenso indebito per il raggiungimento di un certo risultato compatibile con la legge e anche coincidente con quello che si sarebbe potuto raggiungere in mancanza del pagamento[48].
Per altro verso, la risposta punitiva in tale ipotesi risulta essere più severa rispetto alla precedente fattispecie, atteso che l’atto compiuto dal funzionario risulta contrario ai suoi doveri d’ufficio.
Del resto, in ottica coerente con la maggiore gravità di cui si connota il reato in esame, lo stesso art. 319-bis prevede un incremento della pena, qualora “il fatto di cui all’art.319 [abbia] per oggetto il conferimento di pubblici impieghi o stipendi o pensioni o la stipulazione di contratti nei quali sia interessata l’amministrazione alla quale il pubblico ufficiale appartiene” e la reclusione può aumentare fino a dodici anni, se i fatti indicati negli articoli 318 e 319 sono commessi per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo (art.319-ter “Corruzione in atti giudiziari”).
Lo scopo dell’incriminazione della corruzione impropria è, dunque, di evitare il danno che deriva all’amministrazione dalla venalità dei soggetti ad essa preposti, venalità che, anche quando non porta al compimento di atti illegittimi, nuoce alla dignità e al prestigio dell’amministrazione medesima, poiché getta discredito e sospetto sul suo funzionamento[49].
Per altro verso, in settori come quello degli appalti pubblici, si verifica di frequente che alla configurabilità dell’atto contrario si accompagnino ulteriori figure di reato strettamente connesse alla corruzione. Segnatamente, la rivelazione di segreto d’ufficio (art. 326 cp), la turbata libertà degli incanti o del procedimento di scelta del contraente (artt. 353, 353-bis cp), di regola contestate in concorso materiale/giuridico con la corruzione propria[50].
Da tali premesse si comprende come sia di grande attualità la problematica di delineare i confini tra la corruzione impropria e la corruzione propria, il cui tema si collega alla evanescente nozione di “atto contrario ai doveri d’ufficio”.
L’aspetto rilevante in tale sede investe, dunque, i complessi rapporti intercorrenti tra le due ipotesi di corruzione prese in esame, i quali sono stati – e sono tuttora – indagati dalla giurisprudenza di legittimità.
Invero, solo in ambiti confinati agli episodi di “piccola corruzione” si ritiene possibile individuare con certezza la contrarietà ai doveri d’ufficio dell’atto compiuto dal pubblico ufficiale. Negli altri casi, la qualificazione giuridica della condotta del pubblico agente si complica allorché l’atto è discrezionale.
Nella prassi, infatti, spesso la retribuzione del pubblico ufficiale non è finalizzata al compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, quanto all’acquisto “in toto” della funzione pubblica, di modo che il funzionario, per il futuro e per un numero indeterminabile di atti, si ponga stabilmente a disposizione del corruttore.
Così come può accadere che il soggetto pubblico compia atti formalmente legittimi, ma al sol fine di guadagnare tempo, nell’attesa che si raggiunga un accordo corruttivo più articolato.
Ebbene, nei suddetti casi si discorre di c.d. “vendita della funzione”, sul cui tema si confrontano due orientamenti contrapposti.
Secondo la giurisprudenza di legittimità attualmente maggioritaria l’atto discrezionale è ascrivibile alla nozione di “atto contrario”, ai sensi dell’art. 319 c.p.
Sicché si configurerebbe il reato di corruzione “propria” se l’intraneus abbia esercitato il potere discrezionale rinunciando, preventivamente, ad una imparziale comparazione degli interessi in gioco, quand’anche l’esito della valutazione coincida ex post con l’interesse pubblico; con l’ulteriore precisazione che solo la perfetta identità tra l’atto adottato e quello che sarebbe stato adottato in caso di corretto adempimento delle funzioni esclude la qualificazione della condotta dell’intraneus nei termini di «atto contrario»[51].
Secondo tale orientamento giurisprudenziale dominante – invero non esente da critiche – lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, attraverso il sistematico ricorso ad atti contrari a doveri d’ufficio non predefiniti, né specificamente individuabili ex post, deve ritenersi integrare il reato di cui all’art. 319 c.p. e non il più lieve reato di corruzione per l’esercizio della funzione ex art. 318 c.p.[52].
All’opposto, per altro orientamento giurisprudenziale (minoritario), la cosiddetta “messa a libro paga” del funzionario pubblico integra, in ogni caso, il delitto ex art. 318 cp, e non la più grave fattispecie di corruzione propria, salvo che la messa a disposizione non si sia tradotta nell’emanazione di uno specifico e ben individuato atto contrario ai doveri d’ufficio[53].
Invero, tale soluzione, benché maggiormente aderente con la ratio delle riforme succedutesi nel tempo e che hanno restituito ampiezza della corruzione impropria (318 c.p.) pare contrastare con i principi costituzionali di ragionevolezza e proporzionalità della pena.
Ciò in quanto ascrivere all’art. 318 c.p. la stabile messa a disposizione del privato della “funzione pubblica”, quale ipotesi criminale espressiva di una maggiore gravità rispetto al mero compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio, condurrebbe a punire il pubblico agente più lievemente (il reato di cui all’art. 318 c.p., ancorché indubbiamente più grave, é punito più lievemente rispetto a quello di cui all’art. 319 c.p.).
È stato osservato, infatti, che se si assume l’imparzialità dell’amministrazione quale bene giuridico tutelato dalle fattispecie incriminatrici in esame, la stabile messa a disposizione del pubblico ufficiale appare assai più lesiva del bene protetto rispetto al compimento di un singolo atto contrario, sicché sarebbe irrazionale riservare alla vendita della funzione il più mite trattamento sanzionatorio ex art. 318 cp.
Per le anzidette ragioni, per la giurisprudenza maggioritaria è contrario ai doveri d’ufficio non solo l’atto illecito o illegittimo, ma anche quello, che, pur formalmente regolare, prescinda, per volontà del pubblico ufficiale, dall’osservanza di doveri istituzionali espressi in norme di qualsiasi livello, compresi i doveri costituzionali di correttezza e imparzialità[54].
È chiaro che, sebbene la giurisprudenza dominante si sforzi di colmare tale irrazionalità sanzionatoria in via interpretativa, si tratta comunque di un problema che andrebbe risolto in via normativa, attraverso l’innalzamento delle pene previste per il reato di corruzione impropria.

Conclusioni.

All’esito del lavoro svolto è possibile affermare che le conseguenze negative della corruzione e delle fattispecie delittuose conto la P.A. in genere colpiscono sia lo sviluppo economico del paese sia la crescita, l’efficienza e la capacità competitiva delle singole imprese, danneggiando gli investimenti, la credibilità del Paese, e determinano sfiducia dei cittadini verso le pubbliche istituzioni.
Le misure adottate dal legislatore italiano in funzione di contrasto di tale fenomeno sono state attuate soprattutto sul piano della repressione penale attraverso la legge n.190 del 6 novembre 2012, la legge n.114 del 11 agosto 2014, la cosiddetta “Legge Anticorruzione” (legge 69/2015) e, da ultimo, attraverso la Legge 3/2109 (c.d. Legge Spazzacorrotti).
Ebbene, la riferita gravità delle fattispecie delittuose esaminate non risiede esclusivamente nel bene giuridico leso, ovvero buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione, bensì in quella forma di corruzione che Benedetto Croce, nella sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915, definisce la corruzione che “si addensa ma non scoppia”.
La gravità, dunque, risiede nella percezione sociale di tale fenomeno delittuoso che deve essere modificata, poiché la corruzione, inteso come radicato comportamento che da sempre si pone in contrasto al diritto oggettivo, ha finito ormai per permeare ogni strato della società e, in particolare modo, il settore degli appalti pubblici.
In tal senso, la nascita dell’Autorità Nazionale Anticorruzione e le succedutesi riforme anticorruzione rappresentano importanti passi avanti verso la prevenzione[55].
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Note
[1] MERLONI F., VANDELLI L., La corruzione amministrativa. Cause, prevenzioni e rimedi, Astrid, Firenze, 2018, p. 436.
[2] ITALIA V., La centralità dell’ANAC nella regolazione e vigilanza per prevenire la corruzione, in Codice degli appalti. La guida alle nuove regole, 2 maggio 2016, pp. 9-23.
[3] Sul punto PANETTA C., La qualificazione delle stazioni appaltanti, in Giust. Amm., n. 7/2016, p. 98.
[4] Per maggiore contezza si veda PARISI N., Considerazioni sull’efficacia dei presidi anticorruzione per la pubblica amministrazione e per gli enti privati, in AICOM Rivista, Gestione e prevenzione del rischio di corruzione nel settore pubblico e privato, 2018, p. 9 ss.
[5] Disciplinati nel titolo II del libro II del codice penale, si suddivono in due sottocategorie a seconda dell’autore del reato: il pubblico ufficiale interno alla pubblica amministrazione (reato proprio) o il cittadino privato esterno a danno della pubblica amministrazione (reato comune).
[6] Cfr. articolo 97 della Costituzione italiana.
[7] MANNA A., Reati contro la pubblica amministrazione, in Diritto on line, in Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 6/2012.
[8] Ex multis, BALBI G, Alcune osservazioni in tema di riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., n. 3-4/2012, p. 5 ss.; DOLCINI E., VIGANÒ F., Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione, in Dir. pen. cont., Rivista trimestrale, n. 1, 2012, p. 239 e ss.; VIGANO’ F., La riforma dei delitti di corruzione, Treccani, Milano, 2013.
[9] GALLI R., Novità normative e giurisprudenziali di diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo, CEDAM, Bologna, 2019, p. 56.
[10] ALIBRANDI A. S., Prevenire la corruzione: ecco come è possibile, in Vita e Pensiero, n. 7/2018, p. 45 e ss.
[11] DAMATO A.R., Argomenti di diritto penale europeo, Giappichelli, Torino, 2014, p. 165 e ss.
[12] BENUSSI C., I delitti contro la pubblica amministrazione, CEDAM, Padova, 2019, p. 512; GAROFOLI B., Manuale di diritto penale. Parte speciale, NelDiritto, Roma, 2018, p.. 187. In giurisprudenza cfr. SS.UU., sentenza 14 marzo 2014, n° 12228. Contra V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, Vol. I, Torino, 1950, pg. 195 che discorre di “presupposto” e non già di “elemento del reato”.
[13] FIANFACA G., MUSCO E., Diritto penale. Parte speciale, Zanichelli, Bologna, 2019, p. 212; ROMANO M., I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, Giuffrè, Milano, 2019, p. 99.
[14] FLICK G. M., Dalla repressione alla prevenzione o viceversa? Dalle parole ai fatti per non convivere con la corruzione, in Cassazione Penale, fasc. 9, 2014, p. 2754.
[15] In senso conforme, Cass. 1 aprile 2014, n. 28978.
[16] LA ROSA E., La riforma dei reati di Concussione e Corruzione, in Giur. It., 2015, p. 1010.
[17] Cass. pen., 25 febbraio 2013, n. 13047.
[18] Nella Relazione n. III del novembre 2012, l’Ufficio del massimario della Corte di Cassazione ha sostenuto che “la diversa caratterizzazione della nuova ipotesi di reato rispetto alla fattispecie, precedentemente contenuta nell’art. 317 c.p., di concussione “per induzione”, renda tutt’altro che scontato il riconoscimento del menzionato rapporto di continuità normativa tra le due previsioni incriminatrici, anche al di là delle eventuali intenzioni del legislatore. Per contro la conservazione della condotta di induzione nella fattispecie di nuovo conio legittima anche conclusioni di segno diametralmente opposto, potendosi sostenere che la relativa nozione accolta in precedenza nell’art. 317 già presentava una accezione sufficientemente lata da comprendere il significato che il legislatore sembra avergli attribuito nella disposizione di nuovo conio, nella quale peraltro è stato replicato anche il requisito per cui comunque la condotta del pubblico agente deve connotarsi per l’abuso di poteri o di qualità”.
[19] Nel senso della continuità tra la vecchia e le nuove fattispecie si è espressa anche la primissima giurisprudenza di legittimità ed in particolare Cass. pen., sez. VI, 3 dicembre 2012, ric. Roscia e Gori, e Cass. pen., sez. VI, 4 dicembre 2012, ric. Nardi, hanno definito i rapporti strutturali tra nuova fattispecie di induzione indebita e la pregressa figura di concussione per induzione, affermando che “poiché l’art. 317 c.p. oggi modificato già puniva entrambe le condotte del pubblico ufficiale, l’interprete … ricondurrà le imputazioni precedentemente elevate alla prima o alla seconda norma, trascurando la terminologia impiegata nel capo di imputazione che necessariamente riflette la generica endiadi costringe o induce utilizzata nella disposizione che precede”. Ciò in quanto “la “induzione” richiesta per la realizzazione del delitto previsto dall’art. 319, comma 1, quater c.p. non è diversa, sotto il profilo strutturale, da quella del previgente art. 317 c.p. e, pertanto, quanto all’induzione, vi è “continuità normativa” tra le due disposizioni, essendo formulate in termini del tutto identici”.
[20] VIGANO’ F., La riforma dei delitti di corruzione, Treccani, Milano, 2013, p. 154.
[21] FIORE S, Concussione (art.317 c.p.), in I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, UTET, Milano, 2018, p. 124. In giurisprudenza cfr. SS.UU., sentenza 14 marzo 2014, n° 12228; Corte Cass., Sez. VI Pen., sentenza 25 maggio 1994.
[22] Art. 319-quater c.p. Induzione indebita a dare o promettere utilità: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da sei anni a dieci anni e sei mesi.
Nei casi previsti dal primo comma, chi dà o promette denaro o altra utilità è punito con la reclusione fino a tre anni ovvero con la reclusione fino a quattro quando il fatto offende gli interessi finanziari dell’Unione europea e il danno o il profitto sono superiori a euro 100.000” (tale ultimo capoverso è stato inserito dall’art. 1, comma 1, lett. c) del Dlgs. 14 luglio 2020, n. 75).
[23] Poiché destinatario di una mera induzione da parte del soggetto pubblico e non già di costrizione o coartazione alcuna.
[24] Sul punto si veda GAROFOLI R., Il contrasto alla corruzione: il percorso intrapreso con la l. 6 novembre 2012, n. 190, e le politiche ancora necessarie, in www.neldiritto.it, 2015.
[25] Sul punto SARCONE V., Prevenzione della corruzione e trasparenza nelle amministrazioni e negli altri soggetti pubblici individuati dalla disciplina vigente, Spidata, Bologna, 2015.
[26] Dep. 14.3.2014.
[27] ANTOLISEI  F., Manuale di diritto penale. Parte speciale, Vol. II, Giuffrè, Milano, 2018, p. 336.
[28] PALAZZO F., Le norme penali contro la corruzione tra presupposti criminologici e finalità etico-sociali, in Cassazione Penale, fasc. 10, 2015, p. 3389
[29] ROMANO M., I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, Giuffrè, Milano, 2019, p. 111.
[30] GAROFOLI R., Concussione e induzione indebita: il criterio discretivo e i profili successori, in www.penalecontemporaneo.it,, 2015; CANTONE R., Relazione n. 19 del maggio 2013, a cura dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, in www.penalecontemporaneo.it, 2014;
[31] Corte Cass. Sez. VI Pen., sentenza 4 dicembre 2012 n. 8695.
[32] Cfr. Corte Cass. Sez. VI Pen., sentenza 11 gennaio 2011 n. 25694; Corte Cass. Sez. VI Pen., sentenza 19 giugno 2008 n. 33843; Corte Cass. Sez. VI Pen., sentenza 1 ottobre 2003 n° 49538.
[33] Cfr. Corte Cass. Sez. VI Pen., sentenza 23 maggio 2013 n. 29338; Corte Cass. Sez. VI Pen., sentenza 27 marzo 2013 n. 26285; Corte Cass. Sez. VI Pen., sentenza 26 febbraio 2013 n.16566; Corte Cass. Sez. VI Pen., sentenza 25 febbraio 2013 n.13047; Corte Cass. Sez. VI Pen., sentenza 15 febbraio 2013 n.17943; Corte Cass. Sez. VI Pen., sentenza 14 gennaio 2013 n.17593; Corte Cass. Sez. VI Pen., sentenza 3 dicembre 2012 n. 7495; Corte Cass. Sez. VI Pen., sentenza 3 dicembre 2012 n. 3251.
[34] Inaugurato dalla sentenza Melfi: cfr. Corte Cass. Sez. VI Pen., sentenza 11 febbraio 2013 n.11794.
[35]  Ordinanza n. 20430/2013.
[36] In dottrina in senso conforme BENUSSI C., I delitti contro la pubblica amministrazione, CEDAM, Padova, 2019; RIPPA F., Induzione indebita e condotte fraudolente, tra vecchi e nuovi assetti normative, in Dir. Pen. Cont., 10/2018 .
[37] Cfr. SS.UU., sentenza 14 marzo 2014, n. 12228.
[38] MARINUCCI G., DOLCINI E., Trattato di diritto penale: Parte speciale, Giufrrè, Padova, 2013.
[39] GROSSO C.F., PELISSERO M., Reati contro la pubblica amministrazione, Trattato di diritto penale, Giuffrè, Milano, 2015, p. 205 ss.
[40] PALAZZO F., Le norme penali contro la corruzione, tra presupposti criminologici e finalità etico-sociali, in Cass. pen., 2015, p. 3390 ss.
[41] DOMENICONI G., Alcune osservazioni in merito alle modifiche apportate dalla legge n. 69/2015 alla disciplina dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, in Dir. Pen. Cont., 21 gennaio 2016, p. 3 ss..
[42] MONGILLO V., Le riforme in materia di contrasto alla corruzione. Voce per il “Libro dell’anno del diritto Treccani 2016, in Dir. Pen. Cont., 15 dicembre 2105, p. 22.
[43] PULITANÒ D., La novella in materia di corruzione, in Cass. Pen., n. 11/2012, p. 37 e ss.
[44] L’odierno art. 318 c.p. recita: “Il pubblico ufficiale, che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, riceve indebitamente, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da tre a otto anni”. Comma da ultimo modificato dall’art. 1, comma 1, lett. n) della L. 9 gennaio 2019 n.3.
[45] Corte d’Appello di Milano, Sezione II Penale, sentenza n. 286 del 15.01.2020. Il caso ha riguardato una fattispecie di corruzione internazionale coinvolgente la società SAIPEM, controllata da ENI, ed alcuni politici e funzionari pubblici algerini al fine di ottenere l’aggiudicazione di appalti.
[46] FORNASARI  G., Il significato della riforma dei delitti di corruzione (e incidenze “minori” su altri delitti contro la P.A.), in Giur. it., n.12/2014, p. 2691.
[47] Art. 319 c.p.: “Il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da sei a dieci anni”.
[48] Cass. pen., Sez. VI, 18 febbraio 2016, n. 6677.
[49] ANTOLISEI  F., Manuale di diritto penale. Parte speciale, Vol. II, Giuffrè, Milano, 2018, p. 329.
[50] Per un maggiore approfondimento si veda MOSTACCI F., Il Regolamento Anac per le sanzioni su corruzione e trasparenza, in Il Foglietto della ricerca, n. 1/2014.
[51] Cass., sez. VI, sent. 3 febbraio 2016, n. 6677, rv. 267187; Cass., sez. VI, sent. 4 febbraio 2014, n. 23354, rv. 260533.
[52] Cass. pen., Sez. VI, 15 ottobre 2013, n. 9883; Cass. pen., Sez. VI, 27 settembre 2016, n. 40237.
[53] Cass., sez. VI, sent. 25 settembre 2014, n. 49226, rv. 261352.
[54] Cass., sez. VI, sent. 14 maggio 2009, n. 30762, rv. 244530.
[55] PARISI N., CHIMENTI M.L., Il ruolo dell’ANAC nella prevenzione della corruzione in materia di appalti pubblici, in Diritto del Commercio Internazionale, fasc. 2/2018, p. 419.

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