Operazioni inesistenti nel reato di dichiarazione fraudolenta: inquadramento normativo e contrasti giurisprudenziali
Di Maurizio Villani e Lucia Morciano
Art. 2 Dlgs n. 74/2000 “Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”
Il reato di dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti è previsto e punito dall’art. 2, D.lgs. n. 74/2000, che così enuncia: “È punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi passivi fittizi.
Il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria”.
Tale fattispecie sanzionatoria è quella più grave fra quelle regolate dalla normativa di riforma del sistema penale tributario.
La previgente normativa, all’art. 4, comma 1, lett. d), d.l. n. 429/1982 (convertito nella legge n. 516/1982), prevedeva, infatti, la punibilità di chi emetteva o utilizzava fatture o altri documenti per operazioni in tutto o in parte inesistenti, o recanti l’indicazione dei corrispettivi o dell’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale; ovvero, emetteva o utilizzava fatture o altri documenti recanti l’indicazione di nomi diversi da quelli veri, in modo che risultasse impedita l’identificazione dei soggetti cui si riferivano.
Invece, l’ipotesi di dichiarazione fraudolenta mediante uso di documentazione falsa era oggetto di distinta disposizione normativa, indicata nell’art. 4, comma 1, lett. f), d.l. n. 429/1982, a norma del quale era punibile chi indicava, nella dichiarazione dei redditi ovvero nel bilancio o rendiconto ad essa allegato, al di fuori dei casi previsti dall’art. 1 del d.l. n. 429/1982, ricavi, proventi od altri componenti positivi di reddito, ovvero spese od altri componenti negativi di reddito in misura diversa da quella effettiva, utilizzando documenti attestanti fatti materiali non corrispondenti al vero, oppure ponendo in essere altri comportamenti fraudolenti idonei a ostacolare l’accertamento di fatti materiali.
Nella nuovo addentellato normativo contenuto nell’art. 2 citato, vi è la nuova nozione di “frode fiscale”, accolta dal Legislatore del 2000.
Tale definizione consiste nella dichiarazione fraudolenta fondata su falsa documentazione, idonea a fornire una falsa rappresentazione contabile della situazione fiscale del contribuente.
Come per le altre ipotesi delittuose di cui al D.lgs. n. 74/2000, il bene giuridico tutelato dalla fattispecie in esame coincide con l’interesse dell’Erario alla percezione dei tributi, a differenza di quanto disposto dalla previgente legge del 1982, che proteggeva principalmente l’interesse del Fisco al corretto svolgersi dell’azione di accertamento tributario.
Soggetto attivo del reato può essere unicamente colui il quale è contribuente ai fini delle imposte dirette e dell’IVA, oppure è amministratore, liquidatore o rappresentante del contribuente soggetto a imposizione (art. 1, comma 1, lett. c), D.lgs. n. 74/2000).
L’ambito soggettivo di applicazione dell’art. 2 appare dunque ampio, potendo riguardare anche i titolari di redditi di lavoro dipendente, di terreni, di fabbricati o comunque di entrate non soggette all’obbligo di tenuta delle scritture contabili, bensì soltanto all’obbligatoria presentazione della dichiarazione annuale. È rilevante anche la condotta di chi si limita a detenere la falsa documentazione fiscale, previa registrazione nelle scritture contabili obbligatorie, pur se per fini diversi da quelli di prova nei confronti dell’Amministrazione Finanziaria.
La fattispecie indicata nell’art. 2 citato individua un reato di pericolo o di mera condotta, avendo il legislatore inteso rafforzare la tutela del bene giuridico protetto, anticipandola al momento della commissione della condotta tipica (Cass. Pen., SS.UU., 19 gennaio 2011, n. 1235).
In riferimento all’elemento soggettivo, il reato è punito a titolo di dolo specifico poiché è caratterizzato dalla finalità di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto.
Inoltre, il reato di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 D.lgs. n. 74/2000 è a consumazione istantanea e si realizza nel momento della presentazione della dichiarazione fiscale (Cass. Pen., Sez. II, 2novembre 2010, n. 42111). Infatti, la predisposizione e la registrazione dei documenti attestanti le operazioni inesistenti sono condotte meramente preparatorie e non sono punibili, nemmeno a titolo di tentativo, per espressa previsione del legislatore: “i delitti previsti dagli articoli 2, 3 e 4 non sono comunque punibili a titolo di tentativo” (art. 6, D.Lgs. n. 74/2000).
La pena prevista per il reato di cui all’art. 2 è della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni.
L’art. 2 D.Lgs. n. 74/2000 punisce chi “al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi”.
Affinché, pertanto, possa ritenersi realizzata la condotta prevista da tale normativa, è necessario che siano posti in essere due comportamenti diversi:
– la confezione delle fatture o degli altri documenti per operazioni inesistenti e la loro registrazione nelle scritture contabili obbligatorie o la loro detenzione a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria (art. 2, comma 2, D.Lgs. n. 74/2000);
– l’indicazione nella dichiarazione annuale di elementi passivi fittizi o di attivi inferiori a quelli reali suffragando tali circostanze con i documenti previamente registrati (Cass. Pen., Sez. VI, 31 agosto 2010, n. 32525).
Sul punto, lumeggia poi l’art. 1, lett. a) del D.Lgs. n.74/2000, il quale precisa che “ per fatture o altri documenti per operazioni inesistenti s’intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilevo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi”.
Dal tenore letterale di predetta norma, emerge l’impossibilità d’individuare una fattispecie giuridica univoca di “operazione inesistente”, dovendosi piuttosto tenere presente una vera e propria bipartizione tra inesistenza oggettiva e inesistenza soggettiva.
Operazioni oggettivamente inesistenti
Si configura un’operazione oggettivamente inesistente in due ipotesi:
quando le fatture documentino un’operazione mai realizzata completamente (inesistenza oggettiva c.d. assoluta o totale);
quando le fatture documentino un’operazione mai realizzata solo in parte, vale a dire in termini quantitativi differenti e inferiori rispetto a quelli rappresentati cartolarmente (inesistenza oggettiva relativa o parziale).
Nelle ipotesi summenzionate, l’operazione, pur essendo totalmente o parzialmente inesistente sul piano materiale, consente all’utilizzatore di conseguire un vantaggio fiscale indebito (sia ai fini delle imposte dirette che ai fini IVA), attraverso l’indicazione nelle relative dichiarazioni di elementi passivi fittizi, che gli garantiranno di ridurre al minimo il proprio reddito.
La dottrina, nell’ambito dell’inesistenza oggettiva, effettua una distinzione tra “inesistenza materiale” e “ inesistenza giuridica”.
Affinché si configuri la prima, è necessario che la transazione non esista in natura, ossia che la cessione di beni o la prestazione dei servizi risultante dalla fattura non siano mai state effettuate in concreto o lo siano state in termini quantitativi minori rispetto a quelli dichiarati.
L’inesistenza giuridica ricorre, di converso, in tutti i casi in cui la fattura attesti la conclusione di un negozio giuridico diverso da quello realmente compiuto dalle parti (c.d. negozio simulato).
Con riferimento a tale ipotesi, occorre porre in luce che con il restyling della disciplina dei reati tributari operato dal Dlgs n.158/2015 al Dlgs n. 74/2000, è stata introdotta e tipizzata,quale ipotesi di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, l’ ipotesi delle “operazioni simulate oggettivamente e soggettivamente inesistenti”(art.3).
Precisamente, le operazioni frutto di simulazione, assoluta o relativa, sono quelle poste in essere con la volontà di non realizzarle, totalmente o parzialmente, come enuncia il comma g-bis dell’art.1 che le definisce apparenti, distinguendole, quindi, da quelle inesistenti di cui al comma a) dello stesso articolo.
Difatti, nel primo caso si realizza un’operazione in tutto o in parte diversa da quella effettivamente voluta, nel secondo non si compie alcuna operazione, in tutto o in parte.
La prima ipotesi è ora punita ai sensi dell’art. 3 del D.Lgs. n.74/2000, mentre la seconda resta punibile a norma dell’art. 2 citato.
Si può ritenere, pertanto, che tale distinzione abbia portato al superamento del dibattito relativo all’inesistenza naturalistica o giuridica, rientrando la seconda nell’art.3 cit. e la prima nell’art. 2 cit.
Operazioni soggettivamente inesistenti
La falsità delle fatture ha, invece, carattere soggettivo quando l’operazione è stata effettivamente posta in essere, ma tra soggetti diversi da quelli figuranti cartolarmente come parti del rapporto. Ciò, in quanto anche la falsa indicazione dell’emittente e/o del destinatario della fattura va ad inficiare la veridicità dell’attestazione documentale della transazione, permettendo all’utilizzatore di portare in deduzione costi effettivamente sostenuti e, tuttavia, non documentati o non documentabili ufficialmente per varie ragioni.
Precisamente, rientra nell’ambito dell’inesistenza soggettiva il caso di “interposizione”, tanto “fittizia” quanto “reale”.
La prima figura ricorre quando l’operazione è in realtà avvenuta, ma fra soggetti diversi da quelli dichiarati, e tutti i soggetti di essa vogliono che gli effetti del negozio si producano nei confronti di una persona diversa da quella che appare nell’atto.
L’interposizione fittizia sussiste, pertanto, quando le parti abbiano effettivamente posto in essere un negozio, ma quest’ultimo sia stato oggetto di quella che, in termini civilistici, è definita simulazione relativa soggettiva (che ricorre quando fra le parti sia intervenuto un accordo di fatto diverso da quello risultante ex contractu, in modo da dissimulare il contraente effettivo).
E invero, il Legislatore, consapevole della frequenza con cui si verificano in ambito tributario le fattispecie d’interposizione fittizia, ha introdotto nell’ordinamento una disposizione antielusiva (art. 37, comma 3, D.P.R. n. 600/1973), secondo cui “in sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona”.
L’interposizione reale (cui la prevalente dottrina non ritiene applicabile il citato art. 37, comma 3, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600) si ha invece quando gli effetti della vendita si producono realmente in capo all’acquirente e, quindi, manca un accordo simulatorio. Pertanto, affinché possano aversi effetti tributari penalmente rilevanti, occorre che una terza persona ponga in essere un successivo negozio di trasferimento in favore di un altro soggetto.
Nell’interposizione reale è, dunque, l’interposto il soggetto passivo dell’obbligazione tributaria, che nasce dal “fatto-presupposto” a sua volta originatosi dal compimento del negozio giuridico con il terzo; invece, nell’interposizione fittizia è l’interponente il soggetto passivo della relativa obbligazione tributaria.
Misure di contrasto all’evasione ex art. 8, D.L. n.16/2012
Il D.L. 2 marzo 2012, n. 16 (c.d. Decreto Semplificazioni) , conv. con modif. con L. 26 aprile 2012, n. 44 – in vigore dal 2 marzo 2012 – ha introdotto importanti modifiche alla disciplina dell’indeducibilità dei costi e delle spese dei beni o delle prestazioni di servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo, nonché in materia di sanzionabilità dell’utilizzo di componenti reddituali negativi relativi a beni o servizi effettivamente scambiati o prestati. In particolare, l’art. 8, co. 1, del citato decreto ha sostituito la disposizione recata dal co. 4-bis dell’art. 14, L. 24 dicembre 1993, n. 537, con la finalità di determinare e circoscrivere l’ambito dell’indeducibilità dei costi da reato soltanto a quelli direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività che configurano condotte delittuose non colpose e non, genericamente, a quelli “riconducibili” ad atti o attività qualificabili come reato.
Art. 8, co. 1, D.L. n. 16/2012 – Identificazione e indeducibilità dei costi da reato
Nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6, co. 1, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424, Codice di Procedura Penale, ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p. fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 del codice penale.
Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell’art. 530 c.p.p., ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p. fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’art. 529 c.p.p., compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi.
L’art. 8, co. 2, ha invece previsto una nuova disciplina, anche sanzionatoria, in materia di utilizzo di fatture relative a beni e servizi, non effettivamente scambiati o prestati, ossia in relazione alle operazioni cd. inesistenti sotto il profilo oggettivo.
Art. 8, co. 2, D.L. n. 16/2012 – Operazioni inesistenti sotto il profilo oggettivo
Ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi. In tal caso, si applica la sanzione amministrativa dal 25% al 50% dell’ammontare delle spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati indicati nella dichiarazione dei redditi. In nessun caso si applicano le disposizioni di cui all’art. 12, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, e la sanzione è riducibile esclusivamente ai sensi dell’art. 16, co. 3, D.Lgs. 472/1997.
Infine, il co. 3 dell’art. 8 ha introdotto una disciplina transitoria, ai sensi della quale le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano, se più favorevoli, anche in presenza di deduzioni di costi da reato o di operazioni oggettivamente inesistenti effettuate prima del 2 marzo 2012 (data di entrata in vigore del decreto semplificazioni), a condizione che i provvedimenti emessi prima di tale data in base alla previgente disciplina non siano divenuti definitivi, indipendentemente dalla data della loro notifica. Lo stesso comma 3 conferma, poi, che le novità introdotte dal D.L. n. 16/2012 trovano applicazione anche ai fini della determinazione del valore della produzione netta dell’Irap.
Art. 8, co. 3, D.L. 16/2012 – Disciplina transitoria
Ebbene, dalle modifiche introdotte dal D.L. n. 16/2012 si evince che nella determinazione dei redditi sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio, a patto che:
– tali costi siano stati direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo;
– il pubblico ministero, in relazione a tali illeciti penali, abbia esercitato l’azione penale, ovvero, il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 c.p.p., nonché sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 dello stesso Codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 c.p. (prescrizione).
In ogni caso, qualora, successivamente, intervenga una sentenza definitiva di assoluzione, ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla prescrizione, ovvero ancora una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’art. 529 c.p.p., compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi.
Dall’analisi della norma, dunque, emergono due presupposti fondamentali per l’applicazione della norma:
– da un lato, taluni specifici requisiti «sostanziali» dei costi da reato; – dall’altro lato, dei requisiti di carattere «procedurale» legati allo sviluppo del procedimento penale.
Requisiti sostanziali
Dall’esame della novella si evince che si passa, quindi, da una generica “riconducibilità” a fatti qualificabili come reato, a spese e costi “direttamente” utilizzati per il compimento di atti o attività illeciti, restringendo, pertanto, l’ambito dell’indeducibilità.
In sintesi:
– non è sufficiente, per disconoscere la deducibilità, che i costi di beni e servizi siano semplicemente e genericamente relativi alla fattispecie penalmente rilevante;
–può essere considerato indeducibile il costo direttamente collegato all’attività illecita (in quanto ab origine destinato a porre in essere il reato stesso, ovvero inizialmente sostenuto per l’acquisizione di fattori produttivi funzionali allo svolgimento di una attività lecita).
Per di più, circa gli illeciti che fanno scattare la nuova norma, mentre prima poteva trattarsi di qualunque reato (anche contravvenzionale) ora, invece, l’indeducibilità è limitata ai soli delitti non colposi (reati puniti con reclusione e/o multa).
A esempio, è possibile, dunque, contestare l’indeducibilità del costo relativo all’acquisto di merce di illecita provenienza (delitto di ricettazione previsto dall’art. 648 del Codice Penale), mentre nessuna contestazione in tema di indeducibilità del relativo costo può essere formulata per il reato di cui all’art. 712 del Codice Penale per il reato contravvenzionale di acquisto di cose di sospetta provenienza, peraltro punito soltanto a titolo di colpa.
Requisiti procedurali
L’eventuale contestazione di indeducibilità può aver luogo solo dopo (alternativamente):
– l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero. Il pubblico ministero deve, dunque, valutare gli elementi raccolti durante le indagini preliminari idonei a sostenere l’accusa in giudizio, non ritenendo, per converso, sussistenti i presupposti per una richiesta di archiviazione. Lo scopo perseguito del legislatore è, chiaramente, quello di garantire che l’attività di controllo fiscale abbia luogo sulla base di presupposti qualificati dal vaglio preventivo degli organi giudiziari;
– che il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 c.p.p.;
– la sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 dello stesso Codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato per intervenuta prescrizione. Tale previsione normativa deriva dal fatto che la sentenza pronunciata dal giudice penale per intervenuta prescrizione del reato non dichiara, nel merito, l’assoluzione dell’imputato in relazione al reato costituente il presupposto del recupero a tassazione dei connessi componenti negativi direttamente utilizzati per il compimento dell’attività delittuosa. In ogni caso, resta la possibilità per il contribuente di rinunciare alla prescrizione, al fine di ottenere una pronuncia di assoluzione nel merito, con conseguente rimborso di quanto versato.
Le nuove disposizioni introdotte dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16 sono state chiarite ed illustrate dall’Agenzia delle Entrate con la C.M. 3 agosto 2012, n. 32/E e, in particolare, oggetto di contrasto giurisprudenziale è stata la questione relativa la deducibilità dei costi nelle operazioni soggettivamente inesistenti, di cui si darà contezza nei paragrafi che seguono.
Giurisprudenza di legittimità favorevole alla deducibilità dei costi nelle operazioni soggettivamente inesistenti
(Cass. civ. n. 12503/2013; Cass. n. 24426/2013; Cass. n. 21633/2016; Cass. n. 53146/2017)
Il nuovo testo del comma 4-bis dell’art. 14, legge n. 537/1993, introdotto dal D.L. n. 16/2012, dispone l’indeducibilità ai fini delle imposte sui redditi di costi e spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo.
Al fine di meglio comprendere la questione in esame, appare opportuno illustrare, a titolo esemplificativo, la fattispecie della frode carosello.
Per frode carosello s’intende un meccanismo fraudolento dell’IVA attuato mediante vari passaggi di beni, in genere provenienti ufficialmente da un Paese dell’Unione Europea, al termine del quale l’impresa italiana acquirente detrae l’Iva nonostante che il venditore compiacente non l’abbia versata. In genere, viene interposto un soggetto italiano (prestanome e nullatenente) nell’acquisto di beni tra un soggetto comunitario (reale venditore) e un altro italiano (reale acquirente). Quest’ultimo, ufficialmente risulta però aver acquistato dal prestanome, che emette una fattura con Iva ma non la versa, mentre l’acquirente (compiacente) la detrae.
Il soggetto terzo coinvolto, anche consapevolmente, in una “frode carosello”, di norma acquista i beni non per il compimento diretto di un reato, ma per la loro successiva commercializzazione; conseguentemente, ancorché l’acquisto risulti da una fattura proveniente da un soggetto diverso dall’effettivo venditore, non incorre nell’indeducibilità stabilita dal comma 4-bis, fermo restando che il componente negativo deve rispettare i requisiti ordinariamente previsti affinché ne sia consentita la deduzione.
Pertanto, nelle frodi carosello, nei vari passaggi, possono riscontrarsi sia operazioni oggettivamente inesistenti che soggettivamente inesistenti.
Occorre, a tal proposito, affrontare le conseguenze in tema di IVA e di imposte dirette.
Nel caso in cui la fatturazione attenga a operazioni solo soggettivamente inesistenti, per quanto riguarda l’IVA, in linea di principio non è detraibile (Cass. n. 24426/2012).
Sul punto la Suprema Corte ha sottolineato che, in questo caso, “.. .l’imposta è stata, infatti, versata a un soggetto non legittimato alla rivalsa, né assoggettato all’obbligo di pagamento dell’imposta: non entrano nel conteggio di dare e avere ai fini IVA le fatture emesse da chi non è stato controparte nel rapporto relativo alle operazioni fatturate, in quanto tali fatture emesse da chi non è stato controparte nel rapporto relativo alle operazioni, in quanto tali fatture riguardano operazioni, per quanto lo riguarda, inesistenti, e a nulla rileva che le medesime fatture costituiscano la “copertura” di prestazioni acquisite da altri soggetti” (Cass. n. 24426/2012).
Sul punto si precisa che, per negare la detraibilità dell’IVA, non basta che l’imposta sia riportata nelle fatture emesse da un soggetto diverso rispetto a quello che ha realmente realizzato la cessione del bene o la prestazione del servizio; a tal fine è, però, necessario che l’Amministrazione finanziaria provi, tramite elementi oggettivi, che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere, utilizzando l’ordinaria diligenza, che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione s’inquadrasse in una più ampia frode fiscale (Cass. Civ., Sez. V, 20 settembre 2017 n. 21740 e Cass. Civ., Sez. V, 15 marzo 2017, n. 6687; v. anche Cass. Civ. Sez. V, 20 gennaio 2016 n. 967 e Cass. Civ. Sez. V, 21 giugno 2016 n. 12764).
Tale principio è stato elaborato in ambito europeo dalla Corte di Giustizia dell’Unione, che ha sancito che il diritto alla detrazione dell’IVA, versata a monte da parte del soggetto passivo, non può essere escluso in ogni caso di frode, ma solo quando l’Amministrazione Finanziaria riesca a provare che il soggetto passivo sia coinvolto nell’operazione truffaldina volta ad evadere l’Imposta sul Valore Aggiunto, ovvero sia meramente connivente nell’operazione fraudolenta, essendo altrimenti pregiudicata la neutralità del tributo sugli operatori economici (Corte di Giustizia, sentenze 21 giugno 2012, cause riunite C-80/11 e 142/11;CGE 22 ottobre 2015, causa C – 277/14; CGE 6 dicembre 2012, causa C-285/11; CGE 18 dicembre 2014 cause riunite C-131/13, C-131/13, C-163/13 e C-164/13).
La giurisprudenza di legittimità ha recentemente affermato che l’A.F. che contesti il diritto al contribuente a portare in detrazione l’IVA, deve provare in base a elementi oggettivi che “… il contribuente, al momento in cui acquistò il bene o il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente aveva, con l’emissione della relativa fattura, evaso l’imposta o partecipato a una frode, e cioè che il contribuente disponeva d’indizi idonei ad avvalorare un tale sospetto e a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente; ove l’amministrazione abbia assolto a tale onere probatorio, passa poi al contribuente l’onere di fornire la prova contraria” (Cass. n. 23560/ 2012; Cass. n.24426/2013).
Tuttavia. a parere della giurisprudenza di legittimità tributaria, un discorso differente occorre svolgere, limitatamente alle ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti, per quanto concerne la deducibilità dei relativi costi ai fini delle imposte dirette.
Prima di analizzare le conseguenze in tema di deducibilità dei costi connessi a operazioni inesistenti in una frode carosello, derivanti dalle novità introdotte dal predetto decreto, occorre dare menzione della posizione della giurisprudenza di legittimità ante riforma.
Secondo tale parte della giurisprudenza di legittimità, da qualsiasi angolo visuale si esamini il profilo soggettivo in questione, un elemento è certo: l’operazione sottostante è reale e i costi sono stati effettivamente sostenuti.
Nella versione antecedente la modifica normativa intervenuta con l’art. 8 del decreto legge 2 marzo 2012, n. 16, convertito con modificazioni nella Legge 26 aprile 2012, n. 44, disponeva: “nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti”.
Tuttavia, a dispetto della normativa allora vigente, l’orientamento giurisprudenziale era orientato nel senso che «ai fini della determinazione del reddito d’impresa, anche i costi relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti possono essere dedotti, purché il contribuente ne dimostri l’effettiva sussistenza, l’ammontare e l’inerenza» (Cass. n. 19786 del 27 settembre 2011).
Da questo presupposto si era mossa, già nel 2010, la Corte di Cassazione ritenendo che l’inesistenza soggettiva non integra il reato di frode fiscale quanto alle imposte dirette, ma unicamente con riguardo all’IVA (vedi anche Cass. Pen. n. 19353/2006).
Il principio è stato affermato nuovamente nel 2012, con l’art. 8 c.1 del D.L. n. 16/2012 che ha modificato il comma 4 bis dell’art. 14 L. n. 537/1993.
Come chiarito dalla stessa relazione illustrativa al decreto legge n.16/2012 “… per effetto di tale disposizione, l’indeducibilità non trova applicazione per i costi e le spese esposti in fattura o altri documenti aventi analogo rilievo probatorio che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi”.
Anche l’Agenzia delle Entrate, in tema di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, nella circolare 32/E/2012, al punto 2.3 “Riflessi della norma in tema di fatture soggettivamente inesistenti”, ha confermato che per effetto delle modifiche normative “l’indeducibilità non trova applicazione per i costi e le spese esposti in fattura o altri documenti aventi analogo rilievo probatorio che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi”.
Quindi, l’indeducibilità del costo opera qualora vi sia stato un diretto utilizzo dei beni o servizi
per il compimento dell’attività delittuosa.
Di contro, i costi relativi all’acquisizione di beni o servizi che, ancorché documentati da fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, non siano stati utilizzati per il compimento di alcun reato, sono deducibili se ricorrono i requisiti generali di deducibilità dei costi previsti dall’articolo 109 del D.P.R. n. 917/1986 (inerenza, competenza, certezza ed obiettiva determinabilità).
L’Agenzia delle Entrate ha, pertanto, chiarito che tale riformulazione sull’indeducibilità dei cosiddetti costi da reato portava a poter dedurre i costi effettivamente sostenuti anche in presenza del reato di dichiarazione fraudolenta. L’esempio ivi riportato è l’utilizzo di fattura soggettivamente inesistente per l’acquisto di merce finalizzato al compimento di una frode in ambito IVA. In tali ipotesi, il costo esposto in fattura, effettivamente relativo all’acquisto della merce, non rappresenta l’onere sostenuto per porre in essere la frode IVA.
La deducibilità dei costi, essendo un diritto del contribuente insito nel concetto stesso di reddito, non richiede una norma che la riconosca ma, se del caso, che la vieti espressamente; la fattura, del resto, è irrilevante ai fini della deducibilità di un costo per la determinazione del reddito imponibile (diversamente che ai fini dell’IVA).
A corollario di tale principio generale, la Corte di Cassazione ha affermato che sono deducibili per l’acquirente dei beni i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti anche per l’ipotesi che il medesimo sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni; (Cass. Civ. n. 12503/2013; Cass. n. 24426, 30 ottobre 2013), sancendo con ciò l’indifferenza dell’elemento psicologico della condotta tenuta dall’imprenditore e l’eventuale contesto illecito in cui si sia realizzata l’operazione di scambio (Cass. Civ. n. 13800/2014).
I decreti legislativi attuativi della delega per la revisione del sistema fiscale del 2015 non hanno potuto che confermare l’interpretazione fin qui offerta ed adottata dalla giurisprudenza di legittimità più attenta, cui è auspicabile si uniformino le pronunce difformi. Si pensi, in particolare, alla rilevanza del concetto di realtà degli elementi passivi ai fini dell’esclusione della sanzione penale (il concetto, espresso all’interno dell’art. 4 D.Lgs. n. 158/2015, non potrà non essere il riferimento per l’interprete anche al di fuori della specifica fattispecie) ed anche alla codificazione dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale operata dal D.lgs. n. 128/2015, con l’espressa indicazione che le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie.
Tale assunto, del resto, si è cristallizzato nella giurisprudenza di legittimità che ha avuto occasione di chiarire ripetutamente (ex multis, Cass. 26 ottobre 2016, n. 21633) come “la nuova normativa comporta che, poiché nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, i beni acquistati – di regola (e salvo il caso, ad esempio, in cui il “costo” sia consistito nel “compenso” versato all’emittente il falso documento) – non sono stati utilizzati direttamente per commettere il reato ma,
salvo prova contraria, per essere commercializzati, non è più sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da soggetto diverso dell’effettivo venditore perché non siano deducibili, ai fini delle imposte sui redditi, i costi relativi a dette operazioni”.
In particolare, con la sentenza n. 53146 del 26/09/2017,il Supremo Consesso ha testualmente affermato che: “va infine ricordato che mentre, con riguardo alle imposte dirette, l’effettiva esistenza dell’operazione e del conseguente esborso economico, corrispondente a quanto dichiarato, esclude il carattere fittizio degli elementi passivi indicati nella dichiarazione, a nulla rilevando in linea di massima che il destinatario degli stessi sia un soggetto diverso da quello reale, con riguardo invece all’Iva la detrazione è ammessa solo in presenza di fatture provenienti dal soggetto che ha effettuato la prestazione, giacché tutto il sistema del pagamento e del recupero della imposta (artt. 17 e 18 del D.P.R. n. 633 del 1972) si basa sul presupposto che la stessa sia versata a chi ha effettuato prestazioni imponibili mentre il versamento dell’imposta ad un soggetto non operativo o diverso da quello effettivo consentirebbe un recupero indebito dell’Iva stessa …. Di qui, dunque, la conseguenza che l’evasione Iva può essere configurata anche in presenza di costi effettivamente sostenuti”.
In conclusione, a parere della Suprema Corte, dopo le modifiche intervenute con il D.L. n. 16/2012: – ai fini Iva, l’imposta assolta sugli acquisti derivanti da fatture per operazioni inesistenti (oggettivamente e soggettivamente), risulta oggettivamente indetraibile, fermo restando che l’onere probatorio permane in capo all’A.F.;
– ai fini delle imposte sui redditi, invece, a fronte di un reale acquisto della merce, i costi relativi alle fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, sono deducibili dal reddito di impresa, rimanendo soggetti unicamente al vaglio dei requisiti previsti dalla normativa di riferimento (certezza, inerenza, competenza dei costi sostenuti).
La giurisprudenza penale di legittimità contraria alla deduzione dei costi nelle operazioni soggettivamente inesistenti
(Cass.Pen.,sez.II, n. 24586, 4 giugno 2018; Cass. Pen., Sez. III, n. 39541, 30 agosto 2017; Cass. Pen. Sez. III, n. 42994, 26 ottobre 2015; Cass. Pen. Sez. III, n. 40559, 16 ottobre 2012; Cass. Pen. Sez. III, n. 10394,18 marzo 2010)
Di diverso avviso è la Cassazione, Sezione Penale, la quale asserisce che ai fini penali non possono considerarsi deducibili i costi da reato nelle operazioni soggettivamente inesistenti, in quanto l’art. 8 D.L. n. 16/2012, che ha modificato le regole sui costi di reato, trova applicazione nel solo accertamento tributario e non anche al processo penale. Ne consegue che l’imposta evasa concorre alla determinazione della somma da sottoporre a sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente (Cass. Pen. Sez.II,n. 24586 , 4 giugno 2018; Cass. Pen., Sez. III, n. 39541 , 30 agosto 2017; Cass. Pen. Sez. III, n. 42994, 26 ottobre 2015; Cass. Pen. Sez. III, n. 40559 del 16 ottobre 2012; Cass. Pen. Sez. III, n. 10394 del 18 marzo 2010).
Secondo il Supremo Consesso, in tema di reati tributari “… l’indeducibilità dei componenti negativi relativi ai beni e ai servizi direttamente non utilizzati per i delitti non colposi, di cui all’art. 14, comma 4-bis L. n. 537/1993 (come modificato dall’art. 8 del D.L. 2 marzo 2012, n.16,conv. in l .n.44 del 2012) non deriva esclusivamente dal loro impiego per finanziare atti immediatamente qualificabili come delitto doloso, ma anche dalla loro inerenza a più generali attività delittuose alle quali l’impresa non sia estranea e per il cui perseguimento abbia sostenuto i costi fittiziamente fatturati, ancorchè realmente sostenuti (Sez. III, n. 22108 del 19.12.2014 dep. 27705/2015 …”( Cass. Pen. Sez. III, n. 42994, 26 ottobre 2015).
Secondo tale filone giurisprudenziale, i costi documentati in fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, non possono essere dedotti ai fini delle imposte dirette dal committente/cessionario che consapevolmente li abbia sostenuti, in quanto essi sono espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività di impresa, comportando la cessazione del requisito dell’”inerenza” tra i costi medesimi e l’attività imprenditoriale.
Pertanto, la consapevolezza, da parte del contribuente, di partecipare ad un sofisticato sistema di frode fiscale, comporta la indeducibilità di qualsiasi componente negativa (costi e spese) riconducibile a tali fatti, atti o attività qualificabili come reato.
Pertanto, secondo la giurisprudenza di legittimità, la nuova formulazione dell’art. 14, c. 4 bis della l. n. 537/1993 (modificato dall’art. 8 D.L. n. 16/2012), deve essere interpretata nel senso che “… sono indeducibili i costi comunque «riconducibili» alla condotta criminosa..” (Cass. Pen. Sez. III, n. 40559 del 16 ottobre 2012).
Per tale ragione, i costi sostenuti per la realizzazione di una frode carosello, essendo essi stessi lo strumento stesso per realizzare l’evasione dell’IVA, sono indeducibili e la modifica legislativa di predetto articolo non può avere alcuna incidenza su predetta fattispecie.
In conclusione, a parere del citato orientamento della giurisprudenza di legittimità penale, oltre ai casi in cui i beni e i servizi siano ”direttamente” utilizzati per un delitto non colposo, secondo i principi generali, nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti “… sono indeducibili, ai fini dell’imposta sui redditi, i costi in contrasto con i principi di effettività,inerenza, competenza,certezza, determinatezza o indeterminabilità, sicchè la ragione principale dell’indeducibilità dei costi in vicende come quelle note con il nome di “frode carosello” sta nella violazione del “principio dell’inerenza” dei costi, nel senso di piena consapevolezza in ordine all’assunzione del costo…”; (Cass. Pen. Sez. III, n. 42994, 26 ottobre 2015,v. anche Cass. n. 24586 del 4.06.2018; Cass. Pen. Sez. III, n. 40559 del 16 ottobre 2012).
Precisamente, il principio d’inerenza, per attribuire rilevanza agli elementi passivi del reddito d’impresa richiede che “… tra il costo che si vuole dedurre e l’esercizio dell’attività imprenditoriale sussista un nesso di causa ed effetto e i“costi da reato” non hanno alcun rapporto di carattere funzionale con l’esercizio dell’attività d’impresa perché evidentemente estranei all’attività di questa” (Cass. Pen. Sez. III, n. 42994, 26 ottobre 2015).
Infatti, i costi sostenuti con la consapevolezza di partecipare a un atto delittuoso, “sono espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività dell’impresa, comportando la cessazione dell’indefettibile requisito dell’inerenza tra i costi medesimi e l’attività imprenditoriale” (Cass. Pen., Sez.I II, n. 39541 del 30 agosto 2017).
L’interpretazione estensiva dell’art. 8 D.L. n. 16/2012. della giurisprudenza di legittimità penale e la violazione dei principi costituzionali
Nonostante l’introduzione della modifica legislativa al comma 4 bis dell’art.14, da parte dell’art. 8 D.L. n.16/2012, non è stato sopito il contrasto giurisprudenziale sulla deducibilità dei costi nelle operazioni soggettivamente inesistenti.
Anche se predetto articolo ha limitato l’ambito dell’indeducibilità dei costi solo a quelli derivanti da beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento dei delitti non colposi, la giurisprudenza di legittimità penale è ormai ferma nel ritenere che tale novella trova applicazione nel solo accertamento tributario e non anche nel processo penale.
Ebbene, l’interpretazione estensiva dell’indeducibilità dei costi da parte della giurisprudenza penale solleverebbe dei dubbi di costituzionalità della tenuta della norma.
In particolare, l’art. 8, D.L. n. 16/2012, comporterebbe:
la violazione del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost), nella misura in cui vengano assoggettati all’indeducibilità i costi “inerenti” a un’attività criminosa e non quelli “direttamente” riconducibili a essa, come si evince dal dato letterale della norma, determinando l’assoggettamento a tassazione dell’ammontare lordo e non del reddito;
la violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost), laddove l’applicazione del novello 8 D.L. 16/2012, che ha modificato le regole sui costi di reato, si riferisce solo all’accertamento tributario e non anche al processo penale; per tale motivo, si rischierebbe nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, di ritenere sempre indeducibili i costi di reato comunque inerenti a un’attività criminosa, anche se non direttamente utilizzati per commettere il delitto, non consentendo a un imprenditore, a parità di costi sopportati, di dedurre un componente negativo di reddito che verrebbe assoggettato a un’imposta più elevata.
Pertanto, vi sarebbe un’irragionevole disparità di trattamento tra i soggetti responsabili di illeciti penali e quelli responsabili di illeciti civili o amministrativi, con riferimento ai quali i costi erano da considerarsi deducibili,e i soggetti che si erano resi responsabili di atti, fatti o attività qualificabili come illecito penale, senza tener conto della modifica del predetto articolo 8 che limitava il campo dell’indeducibilità nel caso di delitti non colposi;
violazione degli artt. 25, 27 e 117 comma 1, Cost poiché l’indeducibilità dei costi da reato deve ritenersi una “vera e propria” sanzione penale alla luce dei principi CEDU sulla determinatezza. Sulla base di quanto espresso dalla giurisprudenza CEDU sul principio di determinatezza, corollario del principio di legalità, occorre valorizzare gli aspetti qualitativi della legalità, concernenti anche i caratteri della prevedibilità e dell’accessibilità.
In particolare, con riferimento al carattere della prevedibilità, il cittadino deve, dunque, disporre delle informazioni sufficienti sulle norme giuridiche applicate a un dato caso; invece, affinchè le norme siano sufficientemente accessibili, è sufficiente che siano pubblicate o comunque portate ad adeguata conoscenza dai destinatari.
L’art. 8 D.L. affinchè sia prevedibile e accessibile dal contribuente, deve essere interpretato in maniera restrittiva per non incorrere in una violazione con i predetti articoli del dettato costituzionale. L’interpretazione restrittiva del termine “direttamente” con riferimento ai costi utilizzati per il compimento di attività qualificabili come delitto non colposo, permette di restringere l’ambito dell’indeducibilità dei costi ed escluderne l’applicazione delle operazioni soggettivamente inesistenti, i cui costi non sono direttamente riconducibili all’attività criminosa ma inerenti all’attività d’impresa.
Al contrario, un’interpretazione estensiva del citato articolo renderebbe l’indeducibilità dei costi una vera e propria sanzione penale, poiché si andrebbero ad allargare le maglie dell’indeducibilità con la conseguenza di far venir meno la precisione della norma indicata nel citato articolo 8, e assoggettando il contribuente a tassazione dell’ammontare lordo e non del reddito.
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