L’usufrutto legale dei genitori

di Valeria Cianciolo
Introduzione all’istituto dell’usufrutto legale
Di regola, tutti i beni appartenenti al figlio minore costituiscono oggetto dell’usufrutto legale dei genitori.
Preliminarmente è utile ricordare che, ai sensi dell’art. 324 c.c., non sono soggetti a usufrutto legale:
• le pensioni di reversibilità da chiunque corrisposte;
• i beni:
a) acquistati dal figlio con i proventi del proprio lavoro;
b) lasciati o donati al figlio per intraprendere una carriera, un’arte o una professione;
c) lasciati o donati con la condizione che i genitori esercenti la potestà, o uno di essi, non ne abbiano l’usufrutto (la condizione non ha tuttavia effetto per i beni spettanti al figlio a titolo di legittima);
d) pervenuti al figlio per eredità, legato o donazione, e accettati nell’interesse del figlio contro la volontà dei genitori esercenti la potestà (se uno solo di essi era favorevole all’accettazione, l’usufrutto legale spetta esclusivamente a questi).
L’istituto dell’usufrutto legale dei genitori, nel contesto italiano, ha resistito agli interventi del legislatore, nel corso degli oltre ottant’anni di vigenza del codice civile, conservando, oltre che un’indiscussa importanza di carattere storico, un rilievo funzionale e giuridico che condiziona ancora le dinamiche patrimoniali (e non solo) del nucleo familiare (1).
Con l’intervento del 1975, la disciplina dell’usufrutto legale dei genitori ha subìto alcune modifiche sostanziali, sia con riferimento all’impianto normativo, sia in relazione con alcuni istituti “cardine” del diritto di famiglia divenuti oggetto della riforma stessa (2).
Successivamente all’entrata in vigore della legge sull’affidamento condiviso, poiché l’ipotesi ordinaria di affidamento dei figli minori è l’affidamento condiviso a entrambi i genitori, appare chiaro che, nell’ipotesi di esistenza di beni immobili di proprietà di un figlio minore, l’usufrutto sui medesimi spetterà a entrambi i genitori, con tutte le intuibili conseguenze che potranno prodursi nell’ipotesi di contrasto tra gli stessi e del conseguente pregiudizio che potrà derivarne al minore. Laddove non vi sia conflitto tra i genitori, gli stessi dovranno decidere come impiegare i frutti del bene di proprietà del minore, seguendo la regola dell’accordo; laddove però non vi sia accordo o i genitori siano separati o divorziati e i figli siano affidati in regime di affido condiviso, i genitori potranno chiedere al giudice di autorizzare la scelta proposta da uno dei due, oppure chiedere al giudice di nominare un curatore che amministri i beni del minore, con il conseguente aumento di spese, a danno del minore, che questo comporta.
La funzione dell’usufrutto legale
Le tesi che si sono maggiormente affermate sono quelle in base alle quali il fine dell’usufrutto legale è da individuarsi nell’esigenza di agevolare i genitori nell’esercizio delle proprie funzioni di indirizzo della vita familiare, dotandoli di uno strumento che, eliminando, o, perlomeno, attenuando, eventuali disparità tra i componenti del medesimo nucleo si diriga a contribuire alla realizzazione della solidarietà familiare
L’originaria formulazione dell’art. 324 c.c. riconosceva al soggetto esercente la potestà genitoriale (nella fattispecie il padre) il diritto di godimento sui beni del figlio, obbligandolo al contempo a sostenere le “spese di mantenimento, istruzione ed educazione del figlio” (così l’art. 325 del codice del 1942).
L’istituto, perciò, si qualificava immediatamente per la spiccata funzione “patrimonialistica”: esso, operando esclusivamente nel rapporto soggettivo tra il genitore ed il solo figlio minore titolare di beni, sembrava porsi quale sorta di “corrispettivo” in favore del padre gerente. In sostanza, il riconoscimento ex lege dell’usufrutto sui beni del figlio costituiva, nel disegno originario del codice del ’42, quasi un sostegno ed un ristoro in favore del genitore per l’incombente dovere di mantenimento nascente dall’esercizio della patria potestas.
Il legislatore estende prima di tutto la titolarità dell’usufrutto ad entrambi i genitori (art. 144 c.c.), conseguenza necessaria e naturale dell’avvenuto riconoscimento di una posizione di parità ed uguaglianza in capo al padre e alla madre.
La riforma del ’75, inoltre, ha eliminato dal novero degli obblighi inerenti all’usufrutto legale, di cui all’art. 325, «le spese di mantenimento, istruzione ed educazione del figlio», ed ha espressamente previsto, all’art. 324, 2° co., che i frutti percepiti siano «destinati al mantenimento della famiglia e all’istruzione e all’educazione dei figli».
L’art. 328 c.c. sancisce, espressamente, che il genitore passato a nuove nozze, pur conservando l’usufrutto legale sui beni del figlio, è obbligato ad «accantonare in favore del figlio quanto risulti eccedente rispetto alle spese per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione di quest’ultimo». Pare, dunque, che il dovere di contribuire alle esigenze della famiglia -dovere che può essere assolto con le proprie capacità lavorative, con le proprie sostanze o con i propri redditi- se riferito ai frutti sui beni del figlio non possa estendersi oltre alle necessità del figlio stesso, qualora il genitore abbia formato una nuova famiglia.
In origine, l’articolo ora in esame prevedeva, come causa di estinzione dell’usufrutto legale, il passaggio a nuove nozze dell’usufruttuario per evitare che i frutti dei beni dei figli di primo letto venissero rivolti a vantaggio della nuova famiglia e dei figli di secondo letto (3).
I genitori- pur potendo compiere in nome proprio gli atti di disposizione che non incidano sulla consistenza del patrimonio del figlio (C. 342/1978; C. 1628/1956) – non possono disporre liberamente dei frutti (tra cui vanno compresi anche gli interessi su di un capitale del figlio minore: C. 9386/1999), ma devono destinarli al mantenimento della famiglia, seppure con ampia discrezionalità nella scelta dei modi.
L’usufrutto legale e l’usufrutto ordinario
L’usufrutto legale nasce non per volontà dell’uomo (o per usucapione), come nell’usufrutto ordinario (cfr. l’art. 978 c.c.), ma soltanto al realizzarsi di due condizioni, strettamente connesse l’una con l’altra e previste ex lege: l’esercizio della potestà genitoriale da cui automaticamente nasce l’usufrutto legale e, ancora, lo status di figlio-proprietario, ovvero l’appartenenza dei beni al figlio.
Gli altri elementi di distinzione, sono:
a) l’inscindibilità dell’usufrutto legale dalla proprietà dei beni, per cui una volta alienati i genitori non conserverebbero l’esercizio dell’usufrutto, che a sua volta residuerebbe solo sul ricavato dell’alienazione;
b) la conseguente perdita del c.d. diritto di seguito;
c) la mancanza del diritto al possesso, poiché i poteri posti in capo ai genitori sono strumentali e vincolati all’ amministrazione in nome del figlio stesso;
d) il potere di modificare la destinazione economica del bene, ma sempre nel rispetto delle modalità prescritte dall’art. 320 c.c.;
e) in quanto amministratori inoltre, i genitori non hanno diritto all’indennità per i miglioramenti della cosa (prevista per l’usufrutto ord. ex artt. 985 – 986 c.c.);
f) l’inacquistabilità della proprietà di cose consumabili e deteriorabili (artt. 995 – 996 c.c.).
Quanto alle cause di estinzione, l’usufrutto legale cessa di produrre i suoi effetti a seguito dell’alienazione dei beni del figlio, al raggiungimento della maggiore età o alla sua morte.
Particolare ipotesi è quella prevista dall’art. 465 c.c. in tema di indegnità a succedere prevede la privazione dell’usufrutto legale e dell’amministrazione del genitore indegno.
Scopo della norma è quello di evitare che, anche indirettamente, l’indegno possa trovare vantaggio dall’eredità devoluta ai suoi figli che succedono per rappresentazione o per ragioni proprie al de cuius. Tale esclusione dai diritti di usufrutto o di amministrazione spettanti ai genitori, si aggiunge alle ipotesi previste dall’art. 324 c.c. . Se indegno è un solo genitore, l’usufrutto legale e l’amministrazione si concentra sull’altro. Se entrambi i genitori sono indegni, l’amministrazione viene affidata ad un curatore.
Quali invece le analogie?
Secondo l’opinione maggioritaria – il genitore nel godere della cosa, dovrà attenersi ai parametri richiamati dall’art. 1001, 2°co. c.c., utilizzando la diligenza del buon padre di famiglia sebbene, nel caso del genitore usufruttuario legale tale standard di riferimento non sembri adeguato, considerate le finalità a cui l’istituto è finalizzato.
La nuova disciplina della responsabilità genitoriale
La L. 10 dicembre 2012, n. 219, che «ha proclamato il principio della unicità dello stato di filiazione», ha previsto che il legislatore delegato provvedesse alla «unificazione delle disposizioni che disciplinano i diritti e doveri dei genitori nei confronti dei figli nati nel matrimonio e dei figli nati fuori del matrimonio, delineando la nozione di responsabilità genitoriale quale aspetto dell’esercizio della potestà genitoriale» (art. 2, comma 1, lett. h).
Per quanto concerne le norme che regolano la rappresentanza dei genitori, l’amministrazione dei beni del figlio (artt. 320-323 c.c.) e l’usufrutto legale dei genitori (artt. 324-329 c.c.), si potrebbe affermare che gli elementi di novità sembrano essere limitati solamente alla sostituzione del termine “potestà” con quello di “responsabilità genitoriale”.
Le cose però sono più complesse e ci si accorge che le modifiche operate dalla riforma non sono solo lessicali.
Le modifiche dell’art. 74 e dell’art. 258 c.c. hanno radicalmente inciso sulla disciplina giuridica della parentela, consentendo al figlio di essere inserito nelle reti di parentela delle famiglie dei genitori a prescindere dal fatto che questi ultimi siano coniugati.
L’art. 74 c.c. stabilisce che il vincolo di parentela si stabilisce tra persone che discendono da uno stesso stipite, sia per il caso in cui la filiazione sia avvenuta al di fuori del matrimonio, sia per il caso in cui la filiazione sia avvenuta in costanza di matrimonio, mentre la L. 10.12.2012, n. 219, modificando il testo del 1° co. dell’art. 258 c.c., “il riconoscimento produce effetti riguardo al genitore da cui fu fatto e riguardo ai parenti di esso”, ne ha, oggi, sovvertito l’enunciato originario, facendo venire meno la relatività degli effetti del riconoscimento, con riguardo ai parenti del genitore che lo ha effettuato, in armonia con uno dei due principali scopi della riforma iniziata con quella stessa legge, vale a dire con l’unificazione del rapporto di parentela, e l’eliminazione di ogni discriminazione per la parentela in passato detta solo “naturale“.
Pertanto, in assenza di matrimonio tra genitori, «il figlio si trova inserito in due famiglie, quella paterna e quella materna, tra loro non comunicanti». (4)
La regola secondo cui la responsabilità genitoriale «è esercitata di comune accordo» (art. 316 c.c.) ha assunto una valenza generalizzata e, pertanto, trova applicazione nel contesto della famiglia matrimoniale unita, in quello della famiglia formata da genitori non coniugati, e nel caso in cui questi ultimi non abbiano mai convissuto (art. 316, comma 4, c.c.), nonché in tutte le ipotesi nelle quali la crisi e la rottura della coppia dei genitori determini la divisione di un nucleo familiare inizialmente unito (art. 337 ter, comma 3, c.c.).
Proviamo a fare un esempio. Quello di una relazione adulterina. Una donna da alla luce un figlio concepito con un uomo già coniugato e che non intende rompere il proprio vincolo matrimoniale. Nel contesto precedente la riforma del ‘75 il figlio adulterino non poteva — salvo casi del tutto particolari — essere riconosciuto dal genitore già coniugato (art. 252 c.c.); stante il tenore dell’art. 252 c.c., non poteva conseguire un legame giuridicamente rilevante con i nonni, gli zii e i cugini “naturali“; la potestà veniva esercitata in via esclusiva dall’unico genitore che avesse effettuato il riconoscimento al quale, pertanto, competeva anche il potere di rappresentare il minore ed amministrarne i beni, nonché l’usufrutto legale su di essi.
La situazione appena descritta si presentava in termini sostanzialmente analoghi nel contesto normativo vigente tra il ‘75 e il 2014. Infatti, il venir meno del divieto di riconoscimento dei figli adulterini, da un lato, avrebbe consentito la possibilità del riconoscimento da parte del padre; ma per il tenore degli artt. 74 e 258 c.c., l’inserimento del figlio nelle reti di parentela dei genitori continuava ad essere indefettibilmente condizionato al matrimonio di questi ultimi.
Adesso, invece, affermandosi la sussistenza di un unico status di figlio, che comporta l’insorgere di un vincolo di parentela tra il figlio stesso e «le persone che discendono da uno stesso stipite», si è consolidata la posizione giuridica dell’ormai ampia e multiforme categoria delle “altre” famiglie (rispetto a quelle fondate sul matrimonio).
Alla luce di quanto affermato, il riferimento al dovere di contribuzione al mantenimento della famiglia che si rinviene nella disposizione sui “diritti e doveri del figlio” di cui all’art. 315 bis c.c., andrebbe a pieno titolo estesa anche alla famiglie “naturali“, o meglio non fondate sul matrimonio.
Allo stesso modo il secondo comma dell’art. 324 c.c., che vincola la destinazione dei frutti dei beni del figlio proprietario al «mantenimento della famiglia e all’istruzione ed educazione dei figli» e, più in generale, l’intera disciplina dell’usufrutto legale, va applicata nei confronti di tutti i genitori esercenti la responsabilità genitoriale, siano essi sposati, “conviventi” e non.
Da ciò discende che i frutti dovranno essere destinati al mantenimento della famiglia – anche se essa è formata dal solo genitore che ha riconosciuto il figlio (c.d. famiglia mononucleare fondata sul rapporto genitoriale – e, ancora, all’istruzione e all’educazione dei figli – siano essi i fratelli del figlio-proprietario nati dai medesimi genitori o, diversamente, fratelli unilaterali.
L’introduzione della regola secondo cui l’esercizio congiunto della responsabilità genitoriale viene attribuito in via generalizzata (art. 316 e art. 337 ter, comma 3 c.c.), ed esteso anche al caso in cui i genitori non abbiano mai dato vita ad una coppia unita (art. 316, comma 4, c.c.) ha considerevolmente ampliato l’ambito entro il quale potrebbe ravvisarsi un interesse all’esclusione di uno dei genitori dall’usufrutto legale sui beni del figlio e quindi a ricorrere all’opzione contemplata dall’art. 324, comma 3, c.c.
Potrebbe, dunque, accadere che vi siano dei nonni che intendano escludere dall’usufrutto legale dei beni attribuiti al nipote il padre biologico, già “impegnato” in un’unione matrimoniale, oppure il padre biologico che non abbia mai formato una coppia unita con la madre e non abbia mai convissuto con il figlio.
Amministrazione dei beni del minore adottato ed usufrutto legale sugli stessi
Che succede nel caso di una famiglia ricomposta attraverso l’adozione in casi particolari?
In caso di adozione di minore regolata dall’art. 44,1° comma, lett. b) l. ad., la mancanza di una disciplina specifica della famiglia ricomposta pone delicati problemi riguardo ai ruoli spettanti, rispettivamente, ai genitori genetici ed al nuovo coniuge con riferimento alla responsabilità genitoriale ed all’esercizio della stessa.
L’art. 48 l. ad. dispone che «se il minore è adottato (…) dal coniuge di uno dei genitori, la potestà sull’adottato ed il relativo esercizio spettano ad entrambi», senza precisare se l’altro genitore genetico debba considerarsi decaduto dalla responsabilità genitoriale o se ne perda soltanto l’esercizio, oppure se lo mantenga immutato.
L’art. 48, 3° comma, l.ad., prevede che «se l’adottato ha beni propri, l’amministrazione di essi durante la minore età dell’adottato stesso, spetta all’adottante, il quale non ne ha l’usufrutto legale ma può impiegarne le rendite per le spese di mantenimento, istruzione ed educazione del minore con l’obbligo di investirne l’eccedenza in modo fruttifero. Si applicano le disposizioni dell’art. 382 del c.c.» (5).
In relazione ai genitori biologici il nuovo art. 155 c.c., a differenza di quello previgente, nulla prevede riguardo all’amministrazione ed all’usufrutto sui beni dei figli.
In presenza di questo vuoto normativo si potrebbe arrivare al paradosso per cui tutto il potere di amministrazione dei beni del minore spetta in via esclusiva al solo genitore sociale, mentre l’usufrutto legale sugli stessi non spetta ad alcuno.
Per colmare la lacuna ci si potrebbe rifare alle disposizioni del previgente art. 155, 5° comma, c.c., ai sensi del quale i genitori biologici  devono attenersi alle decisioni del giudice della separazione o del divorzio circa l’amministrazione ed hanno il godimento dell’usufrutto legale per quote stabilite anch’esse dal giudice.
Ma come conciliare queste disposizioni con i poteri conferiti all’adottante?
Il ricorso all’art. 324 c.c., che prevede che i genitori esercenti la responsabilità genitoriale abbiano in comune l’usufrutto dei beni del figlio e che «i frutti percepiti sono destinati al mantenimento della famiglia e all’istruzione ed educazione dei figli», non pare corretto posto che la fattispecie dallo stesso normata è quella dei genitori in costanza di convivenza.
Si potrebbero richiamare gli articoli 327 e 328 del c.c. i quali offrono però una soluzione che era stata approntata dal legislatore del 1975 per il solo caso -oggi residuale- di esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale, prevedendo, il primo, che “Il genitore che esercita in modo esclusivo la potestà è il solo titolare dell’usufrutto legale” ed il secondo che “Il genitore che passa a nuove nozze conserva l’usufrutto legale, con l’obbligo tuttavia di accantonare in favore del figlio quanto risulti eccedente rispetto alle spese per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione di quest’ultimo” .
Come possono essere conciliate tutte queste norme, e soprattutto, quid iuris in caso di adozione di minore in affido condiviso ai genitori biologici?
Una coamministrazione congiunta “a tre” dei beni del minore con uguali poteri in capo ai due genitori biologici ed a quello adottivo?
Un diritto di usufrutto legale spettante esclusivamente e congiuntamente ai genitori biologici ma limitato sia dall’obbligo, a carico esclusivo del genitore che si risposa, di utilizzare i frutti per le necessità del figlio e di accantonare in suo favore l’eccedenza, sia dall’analogo obbligo gravante sul genitore adottivo e non titolare dell’usufrutto?
L’impraticabilità di tali soluzioni – che pure paiono essere le uniche inferibili dal complesso di regole vigenti – è di solare evidenza.
E’ inoltre da rilevare, ai fini che qui interessano, che i poteri del genitore adottivo e quelli del genitore biologico passato a nuove nozze sono più limitati rispetto a quelli del genitore biologico non risposatosi e non convivente con il figlio. All’adottante non è attribuito l’usufrutto legale, ma solo la possibilità di impiegarne le rendite per le spese di mantenimento, istruzione ed educazione del minore, con l’obbligo di investire l’eccedenza in modo fruttifero. Il genitore coniugato conserva la contitolarità del diritto di usufrutto ma, rispetto all’utilizzo dei frutti, è soggetto agli stessi limiti dell’adottante.
Se ne potrebbe allora dedurre il paradosso che il genitore biologico non risposatosi possa impiegare le rendite dei beni del figlio con lui non convivente anche per i capitoli di spesa non riguardanti il minore, mentre la nuova coppia genitoriale non possa destinare i frutti medesimi al mantenimento della nuova famiglia, all’educazione e all’istruzione degli altri figli (6).
E’ vero che la ratio dell’art. 48, 3° comma, l.ad. risiede nella volontà del legislatore (condivisa dalla dottrina) di impedire l’instaurarsi di rapporti adottivi non disinteressati, ed è altrettanto vero che questa disposizione si coordina con l’assenza dell’obbligo, a carico dell’adottato, di contribuzione alla vita familiare con il reddito proprio e le proprie sostanze (non trova infatti applicazione, a suo carico, l’art. 315 c.c.).
E’ tuttavia evidente  come le ricadute del combinato disposto dall’art. 48, 3° comma, l. ad. e dell’art. 328 c.c. finiscano, in concreto, con il penalizzare la famiglia ricostituita a favore non solo del minore inseritovi, ma anche dell’altro genitore biologico con lui non più convivente.
La necessità di una diversa disciplina normativa è più che evidente, vieppiù in considerazione del fatto che una regolamentazione contrattuale tra i genitori legalmente coinvolti  e spesso di fatto affiancati dal genitore sociale coniugato o convivente con il genitore biologico presso il quale il minore non convive più, seppure auspicabile, è in concreto difficilmente realizzabile.
Bibliografia
1) M. DOGLIOTTI – F. GALLO, Genitori e figli: l’usufrutto legale, in Fam. e dir., 2007, 3, p. 309 ss.; M. GENNARO, voce «Usufrutto legale dei genitori», in Dig. disc. priv., sez. civ., XIX, Torino, 1999, p. 579 ss.; A.C. PELOSI, Della potestà dei genitori, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di G. CIAN – G. OPPO –A. TRABUCCHI, Padova, 1992, IV, p. 383; G.F. BASINI, L’usufrutto legale dei genitori, in Il diritto di famiglia, II, Il regime patrimoniale della famiglia, dir. da G. BONILINI – G. CATTANEO, Torino, 1997, p. 491 ss.
2) Per un’ampia ricostruzione delle vicende storiche che hanno accompagnato l’istituto dell’usufrutto legale si rimanda a F. RUSCELLO, Origini ed evoluzione storica dell’usufrutto legale dei genitori, in Dir. fam., 2009, 3, p. 1329 ss. Vedi anche F. SANTORO PASSARELLI, Il governo della famiglia, in Saggi di diritto civile, I, Napoli, 1961, p. 400 ss.
3) Cicu, La filiazione, in Tratt. Vassalli, Torino, 1969, 404.
4) Sesta, Stato unico di filiazione e diritto ereditario, in Riv. Dir. Civ., 2014, 5.
5) Il richiamo all’art. 382 c.c. contenuto nell’art. 48, 3° comma, c.c. comporta che l’adottante deve amministrare il patrimonio del minore con la diligenza del buon padre di famiglia ed è responsabile di ogni danno a lui cagionato se viola i propri doveri. Sull’adottante grava poi l’onere di predisporre l’inventario dei beni del minore adottato ex art. 49 l. ad. Dato il rinvio contenuto nella norma alle disposizioni codicistiche relative all’esercizio della tutela, si è paragonata la posizione dell’adottante a quella del tutore pur sottolineando come «l’assimilazione (…) debba considerarsi limitata al solo obbligo di inventario dei beni del minore» stante la profonda e radicale differenza tra la posizione del tutore e quella del genitore adottivo: così A.FINOCCHIARO,  in A. e M. FINOCCHIARO, Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori, Milano, 1983, 475 ss..
6) GIUSTI, L’adozione dei minori in casi particolari, in Trattato Bonilini-Cattaneo, III, Torino 1997, 463.
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