L’importo e l’anno fiscale entro cui assoggettare la perdita nel caso di dilazione di pagamento
Critica a Cass.16167/20
Sommario:
1 Preambolo; 2 L’importo da assoggettare a perdita nel caso di dilazione di pagamento; 3 L’individuazione dell’anno fiscale per la messa a perdita del credito nel caso di dilazione di pagamento.
Preambolo
In relazione al recente arresto giurisprudenziale (Cassazione 16167/20) ed al principio di diritto in esso espresso [1], va posto in evidenza che, ogni qual volta si concretizzi un’intesa – tra debitore e creditore – avente ad oggetto la concessione da parte del secondo di una dilazione di pagamento a mezzo ratei, soventemente, nella prassi operativa, sorgono dubbi interpretativi circa l’esatta individuazione, da un lato, dell’importo da sottoporre a messa a perdita e, dall’altro lato, del momento temporale entro cui assoggettare a deduzione l’importo medesimo. La questio juris – dalla duplice sfaccettatura – va, in termini più spiccioli, ravvisata nell’ipotesi in cui il creditore accordi al debitore un piano di pagamento in forma dilazionata che venga successivamente concretizzato in un atto scritto (va al riguardo specificato che trattasi di negozio per il quale la forma scritta non riveste alcune finalità ad substantiam e quindi l’accordo può essere concluso in via orale e financo per facta concludentia e che – da un punto di vista fiscale – non sussiste l’obbligo di sua registrazione in termine fisso rientrando l’accordo tra gli atti da registrarsi in caso d’uso). Ipotizziamo, altresì, (come peraltro si verifica nella prassi) che all’interno di tale accordo vengano specificate una serie di voci di spesa (interessi, spese di giustizia, spese non ripetibili, ecc….) delle quali il debitore si accolla il relativo pagamento. Ebbene, in un simile contesto, nella eventualità di mancato adempimento dei pagamenti nei termini pattuiti, tali ultime spese vanno computate nell’importo da assoggettare a perdita, oppure l’importo da portare in deduzione deve riguardare solo ed esclusivamente la somma specificata a titolo di capitale. Ed ancora, la somma da assoggettare a perdita, va imputata nell’anno fiscale in cui si sono manifestati e concretizzati – per la prima volta – i criteri di precisione e certezza (per legge – art. 101 tuir – tali criteri devono necessariamente concorrere affinchè possa procedersi alla messa a perdita del credito) oppure nell’anno fiscale in cui – in base agli accordi presi – termina il piano di dilazione di pagamento (chiaramente la problematica non sorge nel caso in cui i due anni fiscali dovessero coincidere).
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L’importo da assoggettare a perdita nel caso di dilazione di pagamento
E’ noto che la messa a perdita del credito rappresenta un’operazione di natura contabile / bilancistica che presenta, quale connotato principale, quello di annullare un componente in precedenza imputato positivamente a bilancio. La messa a perdita si differenzia tanto dal similare procedimento di svalutazione dei crediti per l’assenza, in quest’ultima, dell’elemento della certezza circa il mancato incasso dei crediti (il credito viene svalutato quando perde il proprio valore, ma si ritiene ancora probabile il relativo futuro incasso seppur ri – determinato in misura inferiore rispetto agli anni precedenti) quanto in riferimento alle cd sopravvenienze passive (si ha sopravvenienza quando si verifica un evento – di rilevanza atipica nel contesto di impresa – futuro la cui realizzazione è incerta e di difficile collocazione temporanea).
Ebbene, se la messa a perdita annulla un componente positivo in precedenza imputato a bilancio, allora, giocoforza, la messa a perdita medesima dovrà, necessariamente, riguardare ed avere come oggetto esattamente quell’importo precedentemente iscritto a bilancio come componente positivo (detratto chiaramente da eventuali acconti), con esclusione di qualsivoglia altra tipologia di importo sorto successivamente. A nulla, a tal proposito, varrebbero eventuali accordi presi tra debitore e creditore e, più in dettaglio, specifiche dichiarazioni del debitore di accollo di spese diverse dalla somma capitale. Quindi il semplice fatto di avere inserito nella dilazione di pagamento spese ulteriori e diverse rispetto alla somma capitale delle quali il debitore si accolla il pagamento, non legittima l’inserimento di esse nell’importo da portare a deduzione.
L’individuazione dell’anno fiscale per la messa a perdita nel caso di dilazione di pagamento
Con la recente sentenza sopra menzionata la Suprema Corte ha sancito l’importante principio secondo il quale l’anno fiscale di riferimento, entro cui assoggettare la somma a perdita, è quello in cui il creditore ha piena contezza (attraverso una valutazione connotata da elementi di oggettiva) dell’esistenza degli elementi della certezza e precisione circa la mancata recuperabilità del credito. L’imputazione temporale dei componenti del reddito non è quindi lasciata al libero arbitrio del creditore (la ratio – peraltro pienamente condivisibile – è quella di evitare che il contribuente possa “scegliere” il periodo fiscale più conveniente entro cui assoggettare la somma a perdita) ma è solidamente ancorata al verificarsi di specifici presupposti del tutto estranei alla sfera potestativa del contribuente. Si ricorda, infatti, che l’elemento della certezza e precisione vanno contestualizzati e ricompresi in un ambito di natura oggettiva: eventuali valutazioni soggettive del creditore procedente non hanno incidenza alcuna sulla dimostrazione della esistenza dei due elementi delle precisione e certezza (che come è noto devono coesistere per la messa a perdita del credito). In tale ambito, ben si comprende come la scelta di individuare l’anno fiscale in ragione dell’ultima attività legale svolta (anche stragiudiziale) non sia corretta ed – anzi – esponga il contribuente / creditore a fondate azioni di sindacato da parte dell’Autorità Finanziaria.
Se però, da un parte, il criterio dell’imputazione temporale dei componenti di bilancio sulla scorta del materializzarsi degli elementi della certezza e precisione si fonda su solide basi di logicità e raziocinio (assolutamente da condividere), dall’altra va detto che il criterio medesimo mal si innesta con l’attività della prassi tanto che la sua portata applicativa ha generato non pochi dubbi interpretativi in relazione all’esatta individuazione dell’anno fiscale entro cui assoggettare una somma a perdita in riferimento alla ipotesi in cui (peraltro frequentissima nella prassi) il creditore accordi un piano di pagamento dilazionato nel tempo che si concluda in un anno fiscale successivo a quello in cui si siano manifestati e concretizzati gli elementi della certezza e precisione.
Valga quanto appresso per comprendere la problematica. Tizio richiede, ottiene e notifica un decreto ingiuntivo contro Caio. Procede con il pignoramento che dà esito negativo. Il debitore, che non vuole avere pendenze negative (che potrebbero avere ripercussioni sull’attività imprenditoriale che comunque è intenzionato a continuare) oppure che desidera semplicemente continuare ad intrattenere rapporti commerciali con il creditore, chiede ed ottiene (magari di fronte anche ad una diminuzione del debito) di pagare il debito attraverso un piano di pagamento che però scade nel successivo anno fiscale (chiaramente in ipotesi avversa la problematica non si pone). Ebbene, nell’eventualità di mancata ottemperanza del piano di rientro, l’anno di competenza entro cui operare la deduzione va individuato nel momento in cui si concretizza la certezza circa l’impossibilità di pagare il credito (che nell’esempio coincide con la fase conseguente al pignoramento negativo) oppure va individuato nel momento successivo coincidente con il mancato rispetto del piano di pagamento.
La questione non è di poco conto, stante la frequente incidenza nella prassi.
Se infatti si adottasse alla lettera il principio sancito dalla Suprema Corte, si arriverebbe alla conclusione di individuare – quale unico anno fiscale di riferimento – quello entro cui si sono manifestati gli elementi della certezza e precisione del mancato incasso del credito (nell’esempio svolto pertanto il credito non potrebbe più pertanto essere oggetto di messa a perdita). Ma tale principio si scontrerebbe con ragioni di logica (pura e non prettamente giuridica) e di buon senso. Se così fosse, difatti, il creditore non avrebbe alcun intento a concedere piani dilazionati di pagamento (e ad incassare il credito) stante il rischio concreto di non potere più dedurre l’importo.
D’altro canto, se si aderisse appieno alla tesi che intende concedere tout court al creditore di mettere a perdita il credito ogni qual volta il debitore non ottemperi le condizioni del piano di pagamento proposto, ciò porterebbe ad una situazione nella quale verrebbe sminuito (fino ad essere vanificato del tutto) il principio che impone di individuare l’anno fiscale al verificarsi dei presupposti di precisione e certezza e verrebbe – conseguentemente – concesso al creditore l’opportunità di scegliere il momento fiscale a lui più opportuno e consono per imputare a perdita il credito (si pensi all’ipotesi in cui il creditore accordi il piano di pagamento che scade in un successivo anno fiscale ben sapendo – a priori – della impossibilità per il debitore di onorare il piano al solo fine di dedurre i costi nel seguente anno fiscale così da allentare la pressione fiscale).
Nell’assenza pressoché totale di scritti dottrinali in tale ambito, lo scrivente autore suggerisce – al fine di superare l’impasse – che la soluzione sia da ricercarsi nei principi generali che regolano il procedimento di messa a perdita del credito nei limiti e termini come di seguito esposti.
Il principio cardine rimane pur sempre quello che impone di mettere a perdita il credito nell’anno fiscale in cui si concretizzano e manifestano – in maniera oggettiva – gli elementi della precisione e certezza circa il mancato incasso del credito. Se però il creditore decide di concedere al debitore un piano di pagamento dilazionato e tale decisione sia sorretta da solide basi di raziocinio e sia altresì conseguente ad una attenta valutazione della fattibilità circa la possibilità, in capo al debitore, di onorare il piano di pagamento, allora il principio trova una mitigazione e va concessa la facoltà al creditore di mettere a perdita il credito anche nell’anno fiscale successivo (esempio concreto: fu concesso un piano di rientro di massimo 12 mesi in quanto il debitore era proprietario di strumenti finanziari la cui collocazione sul mercato – come suggerito dall’esperto bancario – richiedeva un lasso di tempo di almeno 4/5 mesi).
Altrimenti, se si accordasse sic et simpliciter un piano di pagamento dilazionato ad ogni richiesta del debitore, ciò potrebbe portare l’Amministrazione Finanziara a sindacare l’operato del creditore contestandogli una potenziale condotta elusiva ed annullare i componenti a bilancio dedotti fiscalmente.
E’ opportuno (anche al fine di opporsi ad eventuali contestazioni dell’Amministrazione Finanziaria) che nella stesura della lettera di messa a perdita (che come è noto rappresenta una sorta di resoconto finale legittimante la deduzione a perdita del credito) vengano indicate le scelte razionali sottese alla decisione di concedere la dilazione di pagamento.
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Note
[1] In tale decisione la Suprema Corte affronta la problematica della corretta individuazione dell’anno fiscale entro cui imputare le perdite su crediti, affermando il seguente importante principio “l’anno di competenza per operare la deduzione stessa deve coincidere con quello in cui si acquista certezza che il credito non può più essere soddisfatto, perché in quel momento si materializzano gli elementi “certi e precisi” della sua irrecuperabilità”.
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