Le società di comodo: la nozione d’impossibilità va intesa non in termini assoluti ma economici

di Maurizio Villani e Lucia Marciano
Evoluzione normativa della disciplina delle società di comodo
(art. 30 della legge n. 724/94 e successive modificazioni)
Ratio della norma
La disciplina sulle società di comodo o cd. “non operative” è sorta nel 1994 (art. 30 della legge n. 724/94) per “penalizzare”, sul piano tributario, le società “senza impresa”, quelle cioè che, al di là dell’oggetto sociale dichiarato, sono costituite al solo fine di amministrare i patrimoni personali dei soci, “anziché per esercitare un’effettiva attività commerciale”.
La funzione principale della normativa in questione  è quella di disincentivare l’adozione di una struttura societaria non adeguata rispetto all’attività effettivamente esercitata, attraverso la presunzione di un reddito minimo riconducibile agli assetti patrimoniali di tale struttura societaria e la previsione di agevolazioni per lo scioglimento o la trasformazione delle società commerciali “non operative” in società semplici (che rappresentano la forma giuridica “naturale” per l’esercizio collettivo di un’attività economica di tipo non commerciale).
Nell’ottica legislativa, la qualifica di “non operatività” allude appunto al fenomeno costituito dall’utilizzo dello schermo societario per l’intestazione/separazione di cespiti patrimoniali e per l’ottenimento della responsabilità limitata: società “non operativa” significa dunque società “senza impresa” o di “mero godimento” e, dunque, sostanzialmente “di comodo”.
Appare opportuno precisare che,  dal punto di vista teorico, non vi è assoluta sovrapposizione e coincidenza tra i concetti di “società di comodo” e “società non operativa”, potendo sussistere la seconda fattispecie anche laddove difetti la prima: le due nozioni andrebbero, a rigore, tenute distinte, così come andrebbero tenuti distinti, tra loro, i fenomeni di mero godimento in assenza di impresa e di interposizione soggettiva. Tuttavia,  dal punto di vista legislativo, sussiste una tendenziale convergenza/coincidenza tra le due nozioni, considerate appunto come espressione di un medesimo fenomeno reale.
La prima riforma (art. 3, comma 37, legge 23 dicembre 1996, n. 662), collegando in modo strutturale la presunzione di produzione di ricavi e di reddito minimo all’entità di alcuni investimenti di capitale dell’impresa,ha di fatto ampliato l’ambito di efficacia soggettiva della disciplina sulle società di comodo, rendendola potenzialmente applicabile a tutte le società commerciali (indipendentemente dalle dimensioni) che non avessero conseguito risultati economici coerenti rispetto all’entità degli investimenti patrimoniali effettuati.
Vi sono stati, più recentemente, interventi plurimi sulla disciplina in questione da parte del legislatore: prima con D.L. 4 luglio 2006, n. 223, poi con la legge finanziaria per il 2007 (legge 27 dicembre 2006, n. 296) ed infine con la legge finanziaria per il 2008 (legge 24 dicembre 2007, n. 244).
Nell’impianto di fondo si tratta, come detto di una “legislazione di contrasto e deterrenza, che almeno nelle intenzioni dichiarate dal legislatore, dovrebbe perseguire uno scopo antielusivo”: la ratio della disciplina, infatti, emerge chiaramente, dalle relazioni dei lavori parlamentari ed è quella di “fungere da antidoto al dilagare di società anomale utilizzate come involucro per il perseguimento di finalità estranee alla causa contrattuale, spesso prive di un vero e proprio scopo lucrativo, talvolta strutturalmente in perdita non di rado per eludere la disciplina tributaria”.
Del resto, fin dall’inizio, parte della dottrina ha ricostruito la finalità antielusiva della normativa sulle società di comodo come, in un certo senso, convergente con la sua obiettiva funzione di rendere controproducente la costituzione ed il mantenimento delle società in questione.
Per società “di comodo” (o, secondo la terminologia utilizzata dal legislatore tributario, “non operative”), si intendono quelle società, di persone o capitali, “formalmente” commerciali (costituite cioè nelle forme tipiche delle società in nome collettivo, a responsabilità limitata, per azioni o in accomandita per azioni), che, a prescindere dell’oggetto sociale dichiarato, vengono utilizzate al fine esclusivo di realizzare una “mera gestione” del patrimonio dei soci, non esercitando in realtà alcuna effettiva attività imprenditoriale/commerciale: si tratta quindi di società che, in concreto, non svolgono attività di impresa, limitandosi a una pura e semplice gestione “statica” di immobili, di partecipazioni sociali o altri beni patrimoniali.
Questi soggetti presentano notevoli  punti d’interesse sul piano della normativa tributaria che, nel corso del tempo, è stata emanata per ostacolare il fenomeno; tale disciplina si è evoluta in funzione dell’obiettivo prioritario di disincentivare il ricorso all’utilizzo dello strumento societario come “schermo” per nascondere l’effettivo proprietario di beni patrimoniali, avvalendosi delle più favorevoli norme dettate per la tassazione delle società (in particolare, per quanto riguarda l’imposizione sul reddito con aliquota proporzionale anziché progressiva e la deduzione analitica di determinate spese, pur in assenza di un’adeguata attività d’impresa).
Emergono, dunque, in ordine al fenomeno oggettivo delle società di comodo e alla sua disciplina fiscale, consistenti profili di rilievo pratico (concernenti, soprattutto, le esigenze di gettito erariale e la connessa efficacia funzionale dell’attività di controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria), ma anche spunti di riflessione teorica. Questi ultimi convergono sulla necessaria e stretta correlazione esistente tra la condizione di “non operatività” delle società di comodo, la presunzione legislativa di una loro redditività minima e la natura della manifestazione di capacità contributiva che ne giustificherebbe (sul piano della legittimità e della coerenza giuridico-costituzionale) la tassazione sulla base, appunto, di un reddito minimo presunto.
L’art. 30 della legge n. 724 del 1994 (rimasto inalterato nella sua struttura fondamentale) considera di comodo, salvo prova contraria, le società commerciali che conseguono un volume di ricavi, risultanti dal conto economico, inferiore alla somma degli importi risultanti dall’applicazione di una serie di percentuali al valore di determinati elementi iscritti nello stato patrimoniale del bilancio (ossia al valore di determinate articolazioni del capitale investito).
Alle società considerate di comodo, viene attribuito presuntivamente un reddito non inferiore alla somma degli importi derivanti dall’applicazione, al valore dei beni posseduti nell’esercizio, di appositi “coefficienti di redditività”. Viene delineata, in sostanza, una disciplina “antielusiva/antievasiva”, fondata sul presupposto che determinati beni del patrimonio societario (partecipazioni ed altre attività finanziarie, beni immobili e mobili registrati, crediti etc.) sono “oggettivamente” in grado di produrre “frutti”, ossia reddito, e l’inserimento dei medesimi all’interno di un assetto societario rafforza la presunzione relativa di un loro impiego a scopi reddituali .
L’ipotesi è più che plausibile, considerato che il capitale è, in genere, fattore oggettivamente e potenzialmente fruttifero in virtù dei meccanismi complessivi del processo economico di circolazione/accumulazione, che ne determinano tendenzialmente l’incremento di valore nel tempo (a prescindere dall’effettivo svolgimento di un’attività di impresa da parte del singolo soggetto che ne detiene una quota particolare). Ciò è tanto più vero nel caso degli immobili, tendenzialmente produttivi di “rendita” e che rappresentano la parte del capitale fisso meno soggetta a deperimento fisico ed anzi normalmente oggetto di fenomeni di costante rivalutazione (anche, ma non solo, per effetto dell’attività di mantenimento/preservazione e miglioramento); ma è sicuramente vero anche in relazione al possesso di partecipazioni sociali (potenzialmente produttive di dividendi) ed ai crediti (produttivi di interessi).
E’ evidente che, su tali premesse, il conferimento di capitale (immobiliare e mobiliare-finanziario) in una struttura giuridico-societaria necessariamente funzionale all’esercizio di un’attività commerciale, costituisce l’elemento presuntivo cardine di una utilizzazione del capitale in questione a scopo di lucro, aumentandone le “naturali” potenzialità di produzione reddituale.
Ciò posto, appare ragionevole che la legge fissi una presunzione di reddito minimo fondata su coefficienti “medi” di redditività degli elementi patrimoniali di bilancio, al di sotto della quale è onere del contribuente fornire la “prova contraria”, ossia dimostrare le circostanze che, nello specifico, hanno impedito il raggiungimento della soglia di operatività e di reddito minimo presunto normativamente .
Ne discende che la possibilità di “prova contraria” alla presunzione di ricavi e di reddito, è strettamente connessa a specifiche e concrete cause di inidoneità reddituale dei relativi elementi dell’attivo patrimoniale .
Nell’ambito di tale  tratto distintivo economico-sociale, si inserisce un’ulteriore  fattore genetico della disciplina in esame : l’obiettivo del legislatore è quello di scoraggiare/ostacolare l’utilizzo incongruo e anomalo dello schermo societario, ossia non per il naturale svolgimento di un’attività economica (di tipo “commerciale”) in comune secondo quanto previsto dall’art. 2247 c.c., ma al fine di attuare uno spossessamento formale tra i beni ed i loro proprietari, sottraendo i cespiti patrimoniali fruttiferi (immobili, attività finanziarie etc.) al loro regime fiscale naturale (redditi fondiari, redditi di capitale etc.) e inserendoli impropriamente nel regime del reddito d’impresa, attribuito in base ad un criterio formale (la natura giuridica del soggetto), senza alcuna corrispondenza con l’attività imprenditoriale .
Precisamente, è stata costruita una legislazione di contrasto/deterrenza che, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbe perseguire eminentemente uno scopo di tipo antielusivo.
Il fenomeno, viene giustamente notato in dottrina, riguarda sotto molteplici aspetti le cd. “società immobiliari” utilizzate per “spersonalizzare la capacità economica immobiliare, ed evaderne la fiscalità meramente patrimoniale prevista per tali beni”. Esso è strettamente collegato alla più generale fattispecie civilistica dell’ abuso (nel senso di uso anormale e “distorsivo”) della personalità giuridica societaria: in altri termini, si costituisce una società e si conferiscono in essa i propri beni, ma la si costituisce al solo scopo di trarre vantaggio dalla condizione giuridica dei beni conferiti quale patrimonio autonomo e separato, sottratto alle pretese dei creditori (tra cui il Fisco) dei singoli conferenti. La pretesa società, in realtà, non svolge alcuna attività economica ed i beni conferiti non sono effettivamente esposti ad alcun rischio di impresa; essa si limita ad amministrare e gestire le proprietà immobiliari dei singoli soci ed a distribuire loro, in forma di utile, le rendite.
Requisiti per l’applicazione della normativa delle società di comodo e cause di esclusione
Requisiti soggettivi

società per azioni;
società in accomandita per azioni;
società a responsabilità limitata;
società in nome collettivo;
società in accomandita semplice;
nonché delle società ed enti di ogni tipo non residenti, con stabile organizzazione in Italia.

Cause di esclusione
Sono comunque escluse dalla disciplina delle società di comodo:

le società “neocostituite” per il primo periodo d’imposta;
le società con almeno 50 soci;
le società con almeno 10 dipendenti nei due esercizi precedenti;
le società che risultano congrue e coerenti ai fini degli studi di settore;
le società soggette a procedure concorsuali (amministrazione controllata o straordinaria,fallimento, liquidazione giudiziaria, liquidazione coatta amministrativa e concordato preventivo);
i soggetti ai quali, per la particolare attività svolta, è fatto obbligo di costituirsi sotto forma disocietà di capitali;
le società ed enti che controllano società ed enti i cui titoli sono negoziati in mercatiregolamentati italiani ed esteri, nonché alle stesse società ed enti quotati ed alle società da essi controllate, anche indirettamente;
le società esercenti pubblici servizi di trasporto;
le società che presentano un ammontare complessivo del valore della produzione (raggruppamento A del conto economico) superiore al totale attivo dello stato patrimoniale;
le società partecipate da enti pubblici almeno nella misura del 20% del capitale sociale.

Test di operatività
Sono definite “non operative” quelle società che presentino un valore “medio” di ricavi ed incrementidi rimanenze (calcolato con riferimento al periodo d’imposta interessato ed ai due precedenti)inferiore alla somma degli importi derivanti dall’applicazione, al “valore medio dei beni e delle immobilizzazioni, delle seguenti percentuali:

2% sul valore delle azioni, quote di partecipazione, obbligazioni (di cui all’art.85, comma 1,lett. c, d ed e, del TUIR – D.P.R. 917/1986);
6% sul valore delle immobilizzazioni costituite da beni immobili e navi (di cui all’art.8-bis,comma 1, lett.a, del D.P.R. 633/1972). Per alcune categorie di immobili, la percentuale è ridotta al:

– 5% per gli immobili classificati nella categoria A/10,
– 4% per gli immobili a destinazione abitativa acquisiti o rivalutati nell’esercizio e nei
due precedenti,
– 1% per tutti gli immobili situati in Comuni con popolazione inferiore a 1.000
abitanti;
Disapplicazione automatica della disciplina(Provv. Dir. AdE 14 febbraio 2008 e CM 9/E/2008)
In presenza di alcune circostanze stabilite da apposito provvedimento ministeriale, la disciplina viene disapplicata automaticamente (ossia senza necessità di presentare apposito interpello all’AdE), anche se l’impresa non abbia superato il “test di operatività”. Si tratta dei seguenti casi:

a) società in stato di liquidazione che, con impegno assunto in dichiarazione dei redditi, richiedono la cancellazione dal registro delle imprese entro il termine di presentazione della dichiarazionedei redditi successiva;
b) società assoggettate ad una delle procedure concorsuali ovvero ad una procedura di liquidazione giudiziaria;
c) società sottoposte a sequestro penale o a confisca o in altre fattispecie analoghe in cui il Tribunale in sede civile abbia disposto la nomina di un amministratore giudiziario;
d) società che dispongono di immobilizzazioni costituite da immobili concessi in locazione ad entipubblici ovvero locati a canone vincolato in base alla legge 431/1998 o ad altre leggi regionali ostatali (la disapplicazione opera limitatamente ai predetti immobili);
e) società che detengono partecipazioni in: 1) società considerate non di comodo; 2) società escluse dall’applicazione della disciplina delle società di comodo, anche in conseguenza di accoglimento dell’istanza di disapplicazione; 3) società collegate residenti all’estero (la disapplicazione opera limitatamente alle predette partecipazioni);
f) società che hanno ottenuto l’accoglimento dell’istanza di disapplicazione in relazione ad un precedente periodo di imposta sulla base di circostanze oggettive puntualmente indicate nell’istanza che non hanno subito modificazioni nei periodi di imposta successivi (ladisapplicazione opera limitatamente alle predette circostanze oggettive).

Estensione della disciplina delle società di comodo alle “società in perdita sistematica” (DL 138/2011, convertito dalla legge n. 148/2011)
Il DL 138/2011, convertito dalla legge 148/2011, ha introdotto, a partire dal periodo d’imposta 2012, delle novità che hanno integrato la normativa delle società non operative, cd. “società di comodo”, rendendone più gravoso il regime fiscale e ampliando il ventaglio dei soggetti coinvolti.
In particolare, per le società considerate non operative, tali novità hanno previsto:

una maggiorazione del 10,5% dell’aliquota IRES, per un prelievo

complessivo pari al 38%;

un’ estensione della disciplina delle “società di comodo” anche alle imprese in “perdita sistematica”, ossia alle società che, per 5 periodi d’imposta consecutivi (arco temporale quinquennale), alternativamente:
risultino sempre in perdita fiscale;
siano in perdita per 4 periodi d’imposta, e nell’altro periodo d’imposta abbiano dichiarato un reddito inferiore a quello determinato in base ai meccanismi di calcolo di cui all’art. 30 dellalegge 794/1994 (cd. “reddito minimo”).

In questa ipotesi, la disciplina si applica a partire dal periodo d’imposta successivo al quinquennio (si applicherà, quindi, dal 2014 per le imprese in perdita nel quinquennio 2009-2013), ferme restando le cause di esclusione previste, in generale per le societàdi comodo, dall’art.30, co.11, ultimo periodo, della legge 724/1994.
La qualificazione come “società di comodo” comporta, in sostanza, la necessità di dichiarare un reddito imponibile minimo presunto, ai fini delle imposte sul reddito (IRES “maggiorata”, con aliquota del 38%, anziché del 27,5%) e dell’Irap, e l’impossibilità di ottenere il rimborso e di effettuare la compensazione dell’eccedenza di credito IVA risultante dalla dichiarazione.
L’estensione di tale disciplina alle “società in perdita sistematica” rischia, pertanto, di coinvolgere e penalizzare un’ampia platea di imprese, alla luce della pesante crisi che,dal 2008, colpisce il settore.
Sul tema, è intervenuta l’Amministrazione con il Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate dell’11 giugno 2012, accompagnato dalla C.M.23/E/2012, con i quali sono state individuate 11 cause di disapplicazione della disciplina, che operano solo per le “società in perdita sistematica”.
Al riguardo, si ritiene che i medesimi chiarimenti si rendano applicabili anche alla luce dell’allungamento, da 3 a 5 periodi d’imposta, del “periodo di osservazione”.
In sostanza, si ritiene che le ipotesi di disapplicazione debbano essere verificate nel quinquennio precedente al periodo d’imposta interessato, con la conseguenza che la ricorrenza in almeno 1 dei 5 “periodi d’imposta di osservazione” farebbe venir meno l’applicazione della disciplina senza necessità di presentare l’istanza di interpello.
In ogni caso, alla luce delle citate modifiche normative, sarebbe opportuno un chiarimento ministeriale relativo all’intera disciplina fiscale applicabile alle “società in perdita sistematica”.
Queste, in particolare, le cause di disapplicazione elencate nel suddetto provvedimento dell’11 giugno 2012:

a) società in stato di liquidazione che con impegno assunto in dichiarazione dei redditi richiedono la cancellazione dal registro delle imprese entro il termine di presentazione della dichiarazione dei redditi successiva;
b) società assoggettate ad una delle procedure concorsuali ovvero ad unaprocedura di liquidazione giudiziaria;
c) società sottoposte a sequestro penale o a confisca o in altre fattispecie analoghe in cui il Tribunale in sede civile abbia disposto la nomina di un amministratore giudiziario;

1,5% per le azioni, quote di partecipazione, obbligazioni (di cui all’art.85, comma 1, lett.

c, d ed e, del TUIR – D.P.R. 917/1986);

4,75% per le immobilizzazioni costituite da beni immobili e navi (di cui all’art.8-bis,comma 1, lett.a, del D.P.R. 633/1972). La percentuale è ridotta al:

– 4% per gli immobili classificati nella categoria catastale A/10,
– 3% per gli immobili a destinazione abitativa acquisiti o rivalutati nell’esercizio e nei dueprecedenti.
Per tutti gli immobili situati in Comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, la percentuale è ridotta allo 0,9%;

12% per le altre immobilizzazioni.

d) società che detengono partecipazioni, iscritte esclusivamente tra le immobilizzazioni finanziarie, il cui valore economico è prevalentemente riconducibile a: 1) società considerate non in perdita sistematica, 2) società escluse dall’applicazione della disciplina anche in conseguenza di accoglimento dell’istanza di disapplicazione della disciplina delle società in perdita sistematica, 3) società collegate residenti all’estero;
e) società che hanno ottenuto l’accoglimento dell’istanza di disapplicazione della disciplina sulle società in perdita sistematica in relazione ad un precedente periodo di imposta sulla base di circostanze oggettive puntualmente indicatenell’istanza, che non hanno subito modificazioni nei periodi di imposta successivi;
f) società che conseguono un margine operativo lordo positivo. Per margine operativo lordo si intende la differenza tra il valore ed i costi della produzione di cui alla lettere A) e B) dell’articolo 2425 del codice civile. A tale fine i costi della produzione rilevano al netto delle voci relative ad ammortamenti, svalutazioni edaccantonamenti di cui ai numeri 10), 12) e 13) della citata lettera B). Per i soggetti che redigono il bilancio in base ai principi contabili internazionali si assumono le voci di conto economico corrispondenti;
g) società per le quali gli adempimenti e i versamenti tributari sono stati sospesi o differiti da disposizioni normative adottate in conseguenza della dichiarazionedello stato di emergenza;
h) società per le quali risulta positiva la somma algebrica della perdita fiscale di periodo e degli importi che non concorrono a formare il reddito imponibile pereffetto di proventi esenti, esclusi o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’impostao ad imposta sostitutiva, ovvero di disposizioni agevolative;
i) società che esercitano esclusivamente attività agricola ai sensi dell’articolo 2135 del codice civile;
l) società che risultano congrue e coerenti ai fini degli studi di settore;
m) società che si trovano nel primo periodo d’imposta.

Resta fermo, inoltre, che, anche qualora nel quinquennio precedente a quello interessato non dovessero ricorrere le suddette cause di disapplicazione, la “società in perdita sistematica” può evitare l’applicazione della disciplina in presenza di una delle cause di esclusione previste per le “società di comodo”, dall’art.30, della legge 724/1994.
Infine, in mancanza di cause di esclusione o di disapplicazione, l’impresa può dimostrare di non essere una “società di comodo”, mediante un interpello (istanza di disapplicazione ai sensi dell’art.37-bis, co.8, del D.P.R. 600/1973), nel quale occorre evidenziare :
– l’anno per cui si chiede l’esclusione della disciplina in esame,
– l’anno per il quale si intende dimostrare l’esistenza di motivi che giustificanola disapplicazione (tali circostanze si devono verificare in almeno uno dei 5 periodi di imposta compresi nel “periodo di osservazione”, es. 2009-2010-2011-2012-2013).
Inoltre, in tema di interpello, l’Agenzia (C.M. 23/E/2012), rinviando alle indicazioni contenute nella precedente C.M. 32/E/2010, sembrerebbe confermare la non impugnabilità del provvedimento di diniego.
Legge delega per la riforma del sistema  fiscale (Legge n. 23/2014)
L’ultimo intervento attuato dal legislatore sulla disciplina delle società di comodo, si colloca nel solco della legge delega per la riforma del sistema fiscale (legge n. 23 del 2014).
Proprio in ossequio alla disposizione recata dall’art. 12, comma 1, lett. d), della legge delega, che ha previsto la “revisione, razionalizzazione e coordinamento della disciplina delle società di comodo”, il legislatore, con il decreto legislativo 21 novembre 2014, n. 175 (cosiddetto “decreto semplificazioni”), è,infatti, intervenuto sul menzionato art. 2, commi da 36-quinquies a 36-duodecies del decreto legge n. 138del 2011, ampliando da 3 a 5 anni il “periodo di osservazione” delle perdite.
Più in dettaglio, per effetto di tale intervento modificativo, il presupposto applicativo della nuova disciplina è rappresentato dalla constatazione dell’esistenza di perdite fiscali in cinque (anziché tre) periodi d’imposta consecutivi o quattro periodi (anziché due) in perdita e uno con reddito imponibile inferiore a quello minimo presunto in base all’applicazione della stessa disciplina concernente le società di comodo.
Detta disposizione opera indipendentemente dal superamento o meno del “test di operatività” cioè anche se sono indicati nel conto economico ricavi e altri proventi di ammontare superiore a quello presunto in base alla disciplina delle società non operative.
Circolare Agenzia delle Entrate n.31/E del 30 dicembre 2014.
Importanti  precisazioni in ordine al periodo di osservazione per l’applicazione della disciplina sulle società in perdita sistematica sono state, da ultimo, fornite dall’Agenzia delle Entrate nella circolare n.31/E del 30 dicembre 2014.
In particolare, al capitolo 3 “Semplificazioni per le società”, punto 9 della stessa, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che la nuova disciplina trova applicazione a decorrere dal periodo d’imposta in corso all’entrata in vigore del decreto legislativo che la introduce, in deroga a quanto stabilito dall’art. 3,comma 1 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (“Statuto dei diritti del contribuente”).
Ne consegue che “per i soggetti con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare, la disciplina delle società in perdita sistematica troverà applicazione per il periodo d’imposta 2014, solo qualora il medesimo soggetto abbia conseguito perdite fiscali per i precedenti cinque periodi d’imposta (ossia peri periodi 2009, 2010, 2011, 2012 e 2013) ovvero sia, indifferentemente, in perdita fiscale per quattro periodi (ad esempio i periodi 2009, 2010, 2012 e 2013) e per uno con reddito imponibile inferiore al cosiddetto reddito minimo”.
Si può inoltre affermare che, per i soggetti costituiti da meno di sei anni, la disciplina non trova applicazione, per mancanza del relativo presupposto.
L’aggravio fiscale derivante dal riscontro dello status di “società di comodo”si produrrà, quindi, a partire dal sesto periodo d’imposta (periodo d’imposta successivo al suddetto quinquennio).
In estrema sintesi, pertanto, i soggetti con periodo d’imposta coincidenti con l’anno solare potranno
risultare “di comodo” nel 2014 (UNICO 2015) qualora:

i periodi d’imposta 2009, 2010, 2011, 2012 e 2013 risultino in perdita fiscale;
quattro tra i suddetti periodi risultino in perdita fiscale e il rimanente presenti un reddito imponibile inferiore al reddito minimo.

Per effetto dell’estensione temporale del periodo di osservazione, nel 2014 escono dal regime delle società di comodo le società che – pur avendo dichiarato perdite fiscali nel vecchio periodo di riferimento (triennio2011-2013) – hanno dichiarato un reddito superiore al minimo nel 2009 e/o nel 2010 ovvero, in tale biennio, abbiano presentato cause di disapplicazione, dovendo queste ultime essere verificate nel più lungo periodo di osservazione quinquennale e non più triennale.
L’estensione del limite temporale determina effetti anche sulle società di recente costituzione tenuto conto che, come visto, la disciplina in esame non si applica alle “società che si trovano nel primo periodo d’imposta”.
Considerato, quindi, che oggi si rende necessario monitorare il “quinquennio” precedente, la disciplina delle società in perdita sistematica non può che operare dal sesto periodo d’imposta successivo a quello d’inizio attività; conseguentemente, con riferimento al periodo d’imposta 2014 (da dichiarare in UNICO 2015) non saranno soggette alla disciplina in esame le società costituite a decorrere dal 2009.
È bene mettere in evidenza che, prima dell’emanazione dell’esaminata circolare, è stato sostenuto da alcuni commentatori che, essendo la norma in commento annoverabile tra quelle di carattere procedimentale, la stessa avrebbe potuto, rectius dovuto, trovare applicazione anche retroattivamente.
Tale posizione è stata efficacemente sintetizzata da chi ha osservato che “l’estensione da tre a cinque anni dei periodi d’imposta in perdita fiscale perché una società possa essere considerata “di comodo”deve avere effetto retroattivo e, quindi, riguardare anche le società che sono state ritenute non operative per aver dichiarato perdite in un triennio”.
Lo stesso commentatore ha anche rilevato che la normativa precedente (quella della rilevanza del triennio in perdita) è partita dal 2012 e considerava come primo triennio, quello 2009-2011. L’interrogativo che sorge è, quindi, se una società che nei precedenti trienni è stata ritenuta “di comodo”, perché ha dichiarato perdite, possa avvalersi della nuova previsione normativa in base alla quale si è “non operativi” soltanto dopo aver dichiarato perdite per cinque periodi d’imposta consecutivi (o se si dichiarano perdite in quattro periodi e nell’altro viene dichiarato un reddito inferiore a quello minimo).
Al riguardo, è stato osservato che la norma in commento è, senza dubbio, di carattere procedimentale in quanto relativa all’attività di accertamento, con la conseguenza che chi in passato è diventato “di comodo”per aver dichiarato perdite per tre periodi, potrà sostenere, in sede di difesa, che solo dopo cinque periodi poteva essere considerato tale.
In sostanza, nonostante l’espressa menzione della deroga allo Statuto del contribuente, la norma non dovrebbe poter essere considerata “sostanziale” bensì “procedimentale” in quanto, nei fatti, regola una presunzione di evasione e come tale, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale –condiviso, peraltro, anche dalla stessa Agenzia delle Entrate – dovrebbe trovare applicazione anche per il passato e non solo dal 2014.
Sebbene tale interpretazione restituisca coerenza e sistematicità all’intera disciplina, occorre, pur tuttavia,considerare, da un lato, la specifica decorrenza che il legislatore ha inteso attribuire alla norma e,dall’altro, la circostanza che tale provvedimento costituisce solo una prima tappa del processo di attuazione della revisione della materia prevista dalla legge delega per la riforma fiscale.
In caso di “crisi” non è applicabile la disciplina delle società di comodo
(Cass. n.12777/2016)
L’Amministrazione Finanziaria deve provare la non operatività. Il nuovo interpello
La Suprema Corte con sentenza del 21-06-2016, n. 12777 ha enunciato il seguente principio di diritto, ossia che a una società in “crisi” non è applicabile la disciplina delle società comodo e, tale considerazione, può essere sufficiente a motivare l’annullamento della cartella di pagamento relativa al controllo automatizzato della dichiarazione.
Secondo il Supremo Consesso, la cartella esattoriale, infatti,  può essere impugnata, ai sensi del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, non solo per vizi propri ma anche per motivi attinenti al merito della pretesa impositiva. Ciò posto, qualora il contribuente contesti la fondatezza della pretesa impositiva, l’amministrazione è gravata dell’onere di provare la sussistenza dei relativi presupposti.
Il caso
La vicenda è quella di una società  che non avendo «barrato la casella contenuta nel rigo RF 55 del modello di dichiarazione che le avrebbe consentito di dichiararsi operativa e di sottrarsi, sotto sua responsabilità, alla presunzione di non operatività», e avendo «compilato la sezione di cui al quadro RF denominata «verifica dell’operatività e determinazione del reddito imponibile minimo dei soggetti non operativi», si era vista notificare una cartella di pagamento, ex art. 36-bis del D.P.R. n. 600/1973, «emessa … a seguito di controllo automatizzato della dichiarazione» dei redditi.
La Commissione Tributaria provinciale di Napoli accoglieva le doglianze della ricorrente e per l’effetto decretava la nullità della cartella impugnata; analogo verdetto in secondo grado. A giudizio della CTR, infatti, la circostanza, affermata nell’atto d’appello, che il contribuente sarebbe stato “informato con largo anticipo della pretesa tributaria vantata nei suoi confronti” e soprattutto sarebbe stato “messo in condizione di poter esercitare il suo diritto di difesa” non basta ad integrare “il diverso adempimento richiesto dalla L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 3, comma 37, punto 4, a mente del quale l’accertamento “è effettuato, a pena di nullità, previa richiesta al contribuente, anche per lettera raccomandata, di chiarimenti da inviare per iscritto entro sessanta giorni dalla data di ricezione della richiesta”.
La stessa norma prevede che “se il reddito dichiarato dalle società o dagli enti che si presumono non operativi risulta inferiore a quello minimo di cui al comma 3, il reddito può essere determinato induttivamente in misura pari a quella presunta, anche mediante l’applicazione delle disposizioni di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 41 bis“, pertanto, concludono i giudici di merito, non ci sono le condizioni per il ricorso all’art. 36-bis cit. Da qui la prosecuzione del giudizio dinanzi alla Suprema Corte su ricorso dell’Agenzia delle Entrate.
La decisione
Appare opportuno richiamare brevemente la normativa sovraesposta sulle società di comodo per meglio comprendere il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione nel caso de quo.
L’ art. 30 della L. n. 724/1994, successivamente modificato negli anni, contiene la disciplina delle società non operative, intendendosi per tali quei soggetti, aventi la forma societaria (di capitali e/o di persone), che, salvo prova contraria, conseguono un ammontare di ricavi inferiore alla somma degli importi risultanti dall’applicazione dei coefficienti stabiliti dalla medesima disposizione.
Predetta norma è antielusiva, atta a disincentivare il ricorso all’utilizzo dello strumento societario come schermo per nascondere l’effettivo proprietario di beni, avvalendosi delle più favorevoli norme dettate per le società. La predetta disposizione intende cioè penalizzare quelle società che, al di là dell’oggetto sociale dichiarato, sono state costituite per gestire il patrimonio nell’interesse dei soci, anziché per esercitare un’effettiva attività commerciale.  Tali soggetti, quindi, al ricorrere dei presupposti previsti dalla norma, sono considerati “di comodo” e, di conseguenza, sono assoggettati alla disciplina delle società non operative ed ai relativi adempimenti, compresi la liquidazione e, qualora siano soggetti Ires, al versamento dell’imposta con aliquota maggiorata del 10,5%, passando dal 27,5% al 38% (cfr. circolare n. 7/E del 2013, paragrafo 6). Ai fini Iva, invece, la non operatività comporta l’impossibilità di chiedere a rimborso, utilizzare in compensazione o di cedere l’eccedenza di credito risultante dalla dichiarazione. (….)
È fatta salva la possibilità, per il contribuente – presentando istanza di disapplicazione ai sensi dell’ art. 37-bis, comma 8, del D.P.R. n. 600/1973 (cd. interpello disapplicativo), almeno 90 giorni prima della scadenza del termine ordinario per presentare la dichiarazione dei redditi (cfr. circolare n. 32/E del 2010) – di fornire prova contraria e di dimostrare all’Amministrazione finanziaria le situazioni oggettive che hanno impedito il raggiungimento della soglia di operatività ovvero le cause che hanno determinato il verificarsi di perdite fiscali sistematiche.
Al riguardo, la Cassazione ha ritenuto che il parere reso a seguito di istanza di interpello disapplicativo presentata dal contribuente costituisca un atto impugnabile di fronte alle Commissioni tributarie, in quanto trattasi, in sostanza, di un diniego di agevolazione (sentenza n. 8663 del 2011). Tuttavia, la stessa Corte Suprema ha precisato che il contribuente ha la facoltà, non l’onere, di impugnare il diniego dell’Amministrazione finanziaria di disapplicazione, atteso che lo stesso non è atto rientrante nelle tipologie elencate dall’ art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, ma un provvedimento con cui l’Amministrazione porta a conoscenza del contribuente, pur senza efficacia vincolante per questi, il proprio convincimento in ordine ad un determinato rapporto tributario (sentenza n. 6200 del 2015; n. 17010 del 2012).
Per l’Agenzia delle Entrate, invece, deve escludersi la possibilità di impugnare immediatamente il provvedimento di diniego emesso dal Direttore regionale in quanto lo stesso non rientra tra gli atti impugnabili di cui all’art. 19 (cfr. circolare n. 5/E del 2007).
Nella circolare n. 32/E del 2010, l’Amministrazione Finanziaria, discostandosi dai precedenti orientamenti (cfr. circolare n. 7/E del 2009), ha inoltre chiarito che avverso l’eventuale avviso di accertamento può essere proposto ricorso anche se il contribuente non ha presentato istanza di interpello disapplicativo. La circolare n. 32/E del 2010 ribadisce, inoltre, l’obbligatorietà dell’interpello disapplicativo laddove prevede, a carico di chi non lo presenta, l’irrogazione della sanzione amministrativa prevista dall’ art. 11, comma 1, lettera a), del D.Lgs. n. 471/1997 (da 258,00 a 2.065,00 euro), diversamente graduata dagli Uffici tenuto conto della situazione riscontrata.
In ordine a tali contrasti, giova ricordare che l’art. 7 del D.Lgs. n. 156/2015, di revisione della disciplina degli interpelli, modifica l’art. 30, comma 4-quater, della Legge n. 724/1994, disponendo che, in presenza di situazioni oggettive che hanno impedito di conseguire ricavi nell’ammontare minimo, le società di comodo possono disapplicare la norma anche senza l’interpello di cui al comma 4-bis (ovvero in presenza di risposta negativa all’interpello) segnalando la propria posizione nella dichiarazione dei redditi.
3.La nozione di impossibilità va intesa non in termini assoluti ma economici, relativi alle effettive condizioni di mercato(Cass.n.5080/2017).
La Suprema Corte nella sentenza 5080/2017 ha affermato il principio di diritto secondo il quale la nozione di “impossibilità” va intesa non in termini assoluti ma economici, relativi alle effettive condizioni di mercato.
Il caso
La Corte di Cassazione respinge il ricorso dell’Agenzia delle Entrate che aveva impugnato la decisione della CTR del Lazio, secondo cui doveva ritenersi infondato l’avviso di accertamento emesso a carico di una srl in liquidazione, che si occupava di acquisto, vendita, permuta e noleggio di macchinari ed attrezzature speciali per lavori edili nel settore pubblico, con cui il Fisco aveva valutato la società, come società di comodo costituita a fini elusivi, in quanto disponeva di un unico bene strumentale ed era risultata inattiva nell’anno in cui veniva compiuto l’accertamento.
In realtà la srl, aveva provato nel giudizio di merito che, pur essendo stata attiva nel triennio che precedeva l’accertamento, nell’anno successivo non era riuscita a stipulare alcun nuovo contratto di noleggio dell’unico macchinario che possedeva, per questo aveva deciso di venderlo, procedendo alla propria collocazione in liquidazione.
Di seguito sono esposte le ragioni che hanno condotto la Suprema Corte all’elaborazione di tale principio di diritto.
Secondo la disposizione in rubrica all’art. 30 della legge n.724/1994 , “in presenza  di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e di proventi nonché del reddito determinato all presenza del presente articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni  rilevanti ai fini dell’IVA di cui al comma 4, la società interessata può chiedere la disapplicazione dele relative disposizioni antielusive ai sensi dell’art. 37-bis, comma 8, D.P.R.n.600/1973”.
Nel caso sottoposto all’esame del Supremo Consesso, la società resistente, la cui attività aveva per oggetto l’acquisto, la vendita, la permuta e il noleggio  di macchinari e attrezzature speciali per lavori edili, aveva concretamente operato dal 2002 al 2005 attraverso l’impiego dell’unico bene strumentale: una fresa escavatrice da utilizzare per la realizzazione di opere pubbliche e, nello specifico, di un tratto di metropolitana.
La sopraggiunta mancanza delle condizioni economiche favorevoli, però, aveva impedito la stipula dei contratti per l’utilizzo del citato macchinario negli anni successivi e da ciò era conseguita la decisione di dismetterlo e porsi in liquidazione nel 2008.
Nell’istanza d’interpello propedeutica alla disapplicazione della normativa antielusiva, presentata per l’annualità 2006, la società aveva messo in evidenza la particolarità del macchinario in questione e la specificità del settore che aveva determinato, a suo parere, l’impossibilità di stipulare contratti adeguati per l’utilizzo del macchinario medesimo.
L’Amministrazione Finanziaria, dall’altra parte, sosteneva che la mancata stipula dei contratti di affitto della fresa non poteva ricondursi a cause oggettive essendo il frutto di una scelta imprenditoriale e, cioè soggettiva, che come tale non avrebbe in alcun modo potuto giustificare la disapplicazione della disciplina antielusiva.
Vistasi annullare la propria pretesa in primo e secondo grado, l’A.F. ha adito il giudice di ultima istanza che, invece, ha confermato le ragioni della società.
La Suprema Corte, richiamando la sentenza n.21358/2015 ha ritenuto che “la nozione d’impossibilità di cui alla disposizione in esame va intesa non in termini assoluti, quanto piuttosto in termini economici, aventi riguardo alle effettive condizioni di mercato”.
La Corte di Cassazione ha valutato positivamente le ragioni esposte dalla società ricorrente, segnalando che la situazione esposta, pur non integrando gli estremi di una vera e propria causa di forza maggiore,“ ostativa in senso assoluto al suo operare di mercato”, era un motivo ragionevole per escludere, “proprio per il mancato e motivato raggiungimento di un accordo sui termini economici del noleggio di una fresa”, il conseguimento dei ricavi accertati in via presuntiva dall’Ufficio finanziario.
In motivazione la Suprema Corte sottolinea che effettivamente la particolarità del macchinario( una fresa di dimensioni “enormi”), che poteva essere utilizzata solo in contesti circoscritti,  consente di giustificare il suo mancato utilizzo, che non può essere addebitato alle scelte economiche dell’imprenditore.
Da tale motivazione emerge che la Suprema Corte propone una lettura non meramente letterale della disposizione di cui all’art. 30 della legge n.724/1994, adeguandola alla particolarità dei casi concreti; in questo modo, anche nel caso de quo, che ha visto la società inattiva per la mancata stipula  dei contratti di affitto del macchinario, può rientrare “nelle oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi.. presunti”, dovendo l’espressione essere intesa non in senso assoluto ma rapportata alle effettive circostanze del mercato.
In conclusione, secondo la Suprema Corte, la disciplina della società non operative ha come fine quello di contrastare l’utilizzo delle cosiddette società di comodo, che sono costituite non per esercitare un’attività commerciale, bensì per la gestione di patrimoniale nell’interesse dei soci.
Nel caso di specie, la particolarità del bene strumentale è tale da fare ritenere che un tale rischio difficilmente potesse ricorrere, ciò ha trovato conferma nelle vicende successive che hanno visto la cessione del macchinario e la messa in liquidazione della società.
Onere della prova e presunzione di non operatività della società di comodo
( Cass. ordinanza n.8218/2017)
Il caso
Una SAS e i suoi soci proponevano ricorso avverso avviso di accertamento per l’anno 2006, emesso in virtù del mancato conseguimento del reddito minimo previsto per le c.d. “società di comodo”; la società eccepiva che in tale annualità aveva affittato la propria unica azienda e, pertanto, non poteva applicarsi la disposizione in esame.
Il ricorso veniva accolto in primo grado, ma l’Agenzia delle Entrate proponeva appello e la Commissione di secondo grado ribaltava l’esito.
La società e i soci ricorrono per Cassazione, la quale respinge il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese.
La decisione
La Cassazione nel merito richiama due precedenti pronunce sul tema, nelle quali si evidenzia l’inversione dell’onere della prova sul contribuente, il quale può fornire la prova contraria. La Suprema  Corte ribadisce che “…In materia di società di comodo, i parametri previsti dall’art. 30 della 1. n. 724 del 1994, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 35 del dl. n. 223 del 2006, conv. nella 1. n. 248 del 2006, sono fondati sulla correlazione tra il valore di determinati beni patrimoniali ed un livello minimo di ricavi e proventi, sicché la determinazione dell’imponibile è effettuata sulla base di precisi criteri di legge, che escludono qualsiasi discrezionalità deduttiva, imponendosi sia in sede di accertamento, sia di determinazione giudiziale, salva la prova contraria da parte del contribuente” (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13699 del 05/07/2016)
Il Supremo Consesso sottolinea, altresì, che “in materia di società di comodo, i parametri previsti dall’art. 30 della legge n. 724 del 1994, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 35 del d.l. n. 223 del 2006, convertito nella legge n. 248 del 2006, sono fondati sulla correlazione tra il valore di determinati beni patrimoniali ed un livello minimo di ricavi e proventi, il cui mancato raggiungimento costituisce elemento sintomatico della natura non operativa della società, spettando, poi, al contribuente fornire la prova contraria e dimostrare l’esistenza di situazioni oggettive e straordinarie, specifiche ed indipendenti dalla sua volontà, che abbiano impedito il raggiungimento della soglia di operatività e di reddito minimo presunto” (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 21358 del 21/10/2015).
Il Collegio ritiene che nel caso di specie il giudice di merito sia esente da censure affermando che “…la Commissione di secondo grado ha fatto corretta applicazione di tali principi -con giudizio che quanto al merito non può essere sindacato in questa sede- rilevando in fatto che nell’annualità fiscale de qua la società contribuente “.. è stata gestita in perdita senza obiettivi di profitto immediati e concreti, perché l’unico bene di proprietà, costituito da un albergo in Riva del Garda, è stato ceduto in locazione a terzi, ad un canone che correttamente è stato ritenuto incongruo rispetto alle condizioni di mercato e non remunerativo rispetto alle rilevanti spese di risanamento e ristrutturazione sostenute nel corso degli anni 2004 e 2005 registrate nel libro dei cespiti ammortizzabili nella misura complessiva di curo 365.833,36 e tanto basta per non superare il cosidetto “test di operatività”, senza bisogno di indagare e rivelare l’esistenza di intenzioni fraudolente od elusive”; inoltre, secondo la Corte, la società contribuente non aveva dato la prova contraria che le incombeva, in particolare a fronte della “plateale antieconomicità delle spese di ristrutturazione della struttura alberghiera..” e che, pertanto, non potevasi applicare la previsione di cui al comma 4 bis dell’art. 30, legge 724/1994, essendo a tal fine irrilevanti le scelte volontarie del contribuente, quali quella della società ricorrente, quanto piuttosto necessarie “oggettive situazioni” esimenti”.
La Suprema Corte rigetta quindi il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio.
Osservazioni
Nell’esaminata pronuncia la Suprema Corte non ha colto l’occasione per fissare principi di diritto importanti in tema di società di comodo.
Premesso che ciò che rileva ai fini delle imposte e del test di operatività non sono gli obiettivi di profitto, bensì i risultati economici effettivi  e non quelli che ci si ripropone di conseguire, non è dato capire come il Collegio abbia valutato il caso de quo: dapprima si evidenzia che la società ricorrente aveva affittato la propria azienda, mentre in motivazione si argomenta che la società ha “ceduto” in locazione a terzi “l’unico bene di proprietà, costituito da un albergo” a un canone incongruo rispetto alle condizioni di mercato. Sarebbe stato utile comprendere in base a quali criteri la Suprema Corte abbia individuato le “condizioni di mercato” per l’affitto dell’azienda alberghiera (cd. gestione”), ma purtroppo in materia di società di comodo non viene presa in considerazione l’assoluta  rilevanza della realtà specifica; sebbene il legislatore abbia previsto la possibilità di fornire la prova contraria, la giurisprudenza ha assunto un orientamento particolarmente restrittivo nel riconoscerne la ricorrenza, col risultato sostanziale di aggravare la previsione normativa in tema di società di comodo. Per la Suprema Corte, nel caso di specie, le scelte volontarie del contribuente che avrebbe dovuto fornire la prova contraria a fronte della evidente antieconomicità delle spese di ristrutturazione della struttura alberghiera, sono irrilevanti: ciò che occorre, a tal fine, sono “oggettive situazioni” esimenti.
In conclusione, l’Amministrazione Finanziaria non ammette inefficienze da parte delle imprese contribuenti, ma quello che purtroppo la giurisprudenza di legittimità non prende in considerazione è che le imprese sono soggette al cd. “rischio di impresa”.
 
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