L’attività di indagine del Pubblico Ministero a favore dell’indagato: analisi dei pro et contra per una modifica
Di Alessandro Continiello e Ludovica D’Alberti
Risulta ancora attuale la formula scolpita nell’articolo 358 del nostro codice di procedura penale, laddove venga omessa la previsione di sanzioni processuali nel caso di inottemperanza, da parte del Pubblico Ministero, di svolgere “altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini”? Questa è la vexata quaestio che ruoterà attorno alla presente analisi.
Art. 358 c.p.p., orientamenti giurisprudenziali e proposte di modifica
Per sgombrare il campo da prodromici equivoci si anticipa che, la Corte Costituzionale, si era già pronunciata nel 1997, dichiarando la questione manifestamente infondata. Nel 1996, nelle more del procedimento penale dinanzi ad un Pretore, la difesa sollevò un’eccezione di incostituzionalità, con essa deducendo il contrasto dell’art. 358 c.p.p. con norme costituzionali, in quanto “non si prevedevano sanzioni processuali per l’inosservanza, da parte del pubblico ministero, dell’obbligo di acquisire elementi anche a favore dell’indagato”. Il primo Giudice ritenne, però, non infondata l’eccezione sollevata dalla difesa, “rilevato che la stessa è pregiudiziale al fine di decidere il presente processo, perché dall’eventuale dichiarazione di incostituzionalità potrebbe discendere l’inutilizzabilità di atti di risolutiva rilevanza probatoria”, trasmettendo così gli atti alla Consulta. Nel 1997, però, con ordinanza numero 96 dell’undici aprile, la Corte si pronunciò negativamente affermando che “in realtà, nella logica dell’attuale processo penale, l’obbligo del pubblico ministero di svolgere indagini anche a favore della persona sottoposta ad indagini non mira né a realizzare il principio di eguaglianza tra accusa e difesa, né a dare attuazione al diritto di difesa, ma si innesta sulla natura di parte pubblica dell’organo dell’accusa e sui compiti che il pubblico ministero è chiamato ad assolvere nell’ambito delle determinazioni che, a norma del combinato disposto degli artt. 358 e 326 cod. proc. pen., deve assumere in ordine all’esercizio dell’azione penale”. Sostanzialmente i Giudici costituzionali hanno precisato che, il compimento di indagini anche a favore della persona indagata, servirebbe unicamente ad “evitare l’instaurazione di un processo superfluo”, stante il fatto che “il principio di obbligatorietà dell’azione penale non comporta l’obbligo di esercitare l’azione ogni qualvolta il pubblico ministero sia stato raggiunto da una notizia di reato, ma va razionalmente contemperato con il fine –appunto- di evitare l’instaurazione di un processo superfluo” (vedasi, anche, sent. nr. 88 del 1991). Non vi è dubbio alcuno che l’estensione del raggio investigativo ad elementi anche pro inquisito risponda, almeno sotto un primo profilo, all’esigenza di garantire il corretto esercizio dell’impulso/azione penale. Alla luce di queste prime valutazioni, la congiunzione “anche” (rectius: altresì), contenuta nella norma citata, risulterebbe quasi pleonastica. Ma è necessario procedere per ulteriori gradi, compiendo un passo indietro.
L’articolo 358 del codice di procedura penale prevede che il titolare dell’azione penale svolga – e diriga – ogni attività d’indagine necessaria per le “determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale” (a. 405 c.p.p.), disponendo direttamente della Polizia Giudiziaria (a. 55 c.p.p.), nell’ambito delle rispettive funzioni (a. 326/327 c.p.p.) e “svolgendo altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”. Per la dottrina e (la poca) giurisprudenza sul punto risulta pacifico il fatto che tali accertamenti siano un “dovere/obbligo” da espletare, seppur la norma non lo espliciti con la dovuta chiarezza.
Con due sentenze la Corte di Cassazione ha (nuovamente) confermato che quest’obbligo non risulta, in caso di non ottemperanza, “presidiato da alcuna sanzione processuale” (cfr. Cass. pen., nr. 10061/2013) ed “il mancato svolgimento non determina nullità” (cfr. Cass. pen., nr. 34615/2010).
Nel settembre del 2008 venne presentata, su impulso di alcuni parlamentari, una proposta di legge (non approvata) con delle modifiche che si volevano apportare all’articolo 358 c.p.p. finalizzate, in via preliminare, a “confermare, rafforzare e rendere concreti i diritti della difesa già contenuti nella normativa vigente”. Veniva richiesto, dunque, un “obbligo in capo al pubblico ministero di svolgere accertamenti anche a favore della persona indagata, a pena di inutilizzabilità di tutta l’attività svolta nel corso delle indagini preliminari e di darne successiva notizia alla persona sottoposta alle indagini e al suo difensore, tramite inserimento nel fascicolo, anteriormente alla presentazione della richiesta di archiviazione, ex art. 408 c.p.p. o della richiesta di notificazione della conclusione delle indagini”, ai sensi dell’art. 415 bis c.p.p. Si proponeva, in tal guisa, l’introduzione di un comma secondo all’articolo 358, con la seguente dicitura: “A pena di inutilizzabilità di tutti gli atti già compiuti a seguito dell’attività di cui al comma 1, nonché di quelli risultanti da ogni altra attività anche successiva, il pubblico ministero svolge idonei accertamenti sui fatti e sulle circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”. Questo comma avrebbe palesemente e processualmente sancito, a detta dei proponenti, un obbligo/dovere vincolante per la pubblica accusa, con la conseguenza giuridica, in caso di omissione, della inutilizzabilità di tutti gli atti d’indagine svolti.
Ma quali sarebbero gli ulteriori motivi ostativi all’introduzione di una “sanzione processuale”? In primis il fatto che, come sancito da una successiva sentenza della Suprema Corte, “l’inattività della pubblica accusa può esser sopperita dallo svolgimento delle attività di investigazione difensive previste dagli articoli 391 bis e segg. del codice di procedura penale” (vedasi sent. del 2010 cit.). È necessario un ulteriore passo indietro nell’analisi affrontata.
Com’è noto la legge nr. 397 del 2000 (a. 11) ha inserito nel nostro codice di procedura il titolo VI bis (“investigazioni difensive”), ovvero la cosiddetta “attività investigativa del difensore” (vedasi l’art. 327 bis intr. dall’art. 7 della L. n. 397/2000). Con la summenzionata pronuncia della Cassazione si sarebbe, quindi, sostenuto che, se è vero che da un lato il Pubblico Ministero deve svolgere accertamenti (anche) a favore della persona indagata, la mancanza di tali accertamenti deve (non può) sempre esser colmata dalla difesa con proprie indagini. Ma questa, ad avviso di chi scrive, non era la ratio sottesa alla norma introdotta, peraltro prevista dall’articolo 111 della Costituzione. Il principio cardine secondo cui “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità..” è chiaramente giusto e corretto, ma stride nella pratica se si va a ricordare che il Pubblico Ministero, per svolgere le indagini, ha come longa manus la Polizia Giudiziaria; mentre il difensore non gode di garanzie e poteri paritetici nello svolgimento delle sue indagini difensive.
Ma vi è di più. Volendo sorvolare su argomentazioni di carattere meramente economico, non di poca importanza, deve anche considerarsi che le indagini difensive non solo hanno in re ipsa una portata limitata ma, in alcune occasioni, richiedono necessariamente l’intervento dello stesso Pubblico Ministero. Basti richiamare, ad esempio, la differente disciplina in tema di “assunzione di informazioni” da parte del difensore e dell’organo inquirente, rispettivamente previste dagli artt. 391 bis e 362 del cod. proc. pen. In tale contesto solo al difensore spetta l’onere di avvertire le persone, in grado di riferire circostanze utili ai fini dell’attività investigativa, della facoltà di non rispondere o di non rendere dichiarazioni: disposizione questa, non solo non prevista dall’art. 362 c.p.p., ma che parrebbe ricalcare il differente diritto affidato unicamente all’imputato. A suffragio della diversità dei poteri investigativi affidati al difensore fa eco ulteriormente l’art. 391 bis co. 10 c.p.p.: infatti, nell’ipotesi in cui la persona in grado di riferire circostanze utili ai fini dell’attività investigativa abbia esercitato la facoltà di non rispondere o di non rendere dichiarazioni, l’unico strumento affidato al difensore è quello di richiedere al Pubblico Ministero di disporne l’audizione.
Risulta di interesse quanto rilevato dal professor Spangher, in una sua recente intervista, su un caso giudiziario di grande eco pubblica: “..Secondo l’articolo 358 del codice di procedura penale, il pubblico ministero svolge l’attività d’indagine anche a favore dell’imputato. Insomma, il suo ruolo istituzionale è quello di vigilare sulla corretta osservanza della legge, a prescindere dal fatto che poi, nella pratica, ogni singolo PM raccolga prove in favore dell’imputato o meno. L’articolo 63 della legge sull’ordinamento giudiziario stabilisce che il PM veglia sulla regolare amministrazione della giustizia e la corretta applicazione della legge, per questo raccoglie tutte le prove, anche quelle favorevoli all’imputato, e le valuta per ciò che esse rappresentano nell’indagine…E’ indubitabile che, istituzionalmente, il PM non abbia il ruolo di accusatore, tanto è vero che il Procuratore Generale ha la facoltà di chiedere la revisione del processo nei confronti del condannato” (tratto da un articolo su “Il Dubbio” del 19/01/18 “Spangher: la PM del caso Cappato cercava la verità e non un colpevole”).
Seguendo sempre la tesi contraria ad una riforma dell’articolo 358 c.p.p., si potrebbe altresì aggiungere che, in fondo, l’eventuale mancata ottemperanza all’obbligo previsto dalla norma in esame, sarebbe ulteriormente superata e colmata, non solo dalla possibilità di esperire indagini difensive, ma dalla stessa struttura del processo penale, secondo l’attuale sistema accusatorio (o, meglio, secondo un modello c.d. misto o sistema accusatorio all’europea). Infatti vi sarebbe sempre la possibilità per il Giudice, in alcuni casi residuali e stabiliti dalla legge, della cosiddetta “iniziativa probatoria”. A rendere quest’ultima effettiva vi è un controllo dell’organo giudicante sui presupposti di una eventuale c.d. inazione, ex art. 409 c.p.p. (cosi come, nelle singole fasi processuali, l’ulteriore possibilità del Giudice di introdurre prove ex officio nella udienza preliminare, ai sensi dell’art. 421 bis e 422 c.p.p.; nel dibattimento, ex art. 506 e 507 c.p.p. o in sede di appello, ai sensi dell’art. 603 c.p.p). Ma, ad avviso di chi scrive, anche questa ulteriore “garanzia” non risolverebbe la questione poiché, oltre a trattarsi di poteri probatori “residuali”, sarebbero applicabili in fasi successive alle indagini preliminari, cioè in sede “processuale”.
Un ultimo argomento a favore della impossibilità di “sanzionare processualmente” il Pubblico Ministero, riguarderebbe la differenza tra l’ipotesi di “inerzia” o “ritardo” nello svolgimento tout court delle indagini – il cui parametro normativo si concentrerebbe sui termini di durata massima delle indagini – e le modalità “concrete” (rectius: finalità) di svolgimento delle indagini preliminari stesse, cosi come previsto dal combinato disposto degli articoli 326 e 358 cod. proc. pen. Nel primo caso, infatti, il fascicolo (rectius: le indagini preliminari) potrebbe esser avocato dalla Procura Generale presso la Corte d’Appello; nel secondo caso, invece, le norme richiamate si riconducono ad un ambito del tutto discrezionale nello svolgimento delle attività investigative da parte del Pubblico Ministero, e non suscettibili – allo stato – di un apprezzamento e valutazione di altri giudici. Sul punto è opportuno ricordare come la legge 23 giugno 2017, n. 103 sia intervenuta sugli articoli 407 e 412 c.p.p. in tema di durata massima delle indagini preliminari e di avocazione da parte della Procura Generale presso la Corte d’Appello. L’esigenza “acceleratoria” sentita dal nostro Legislatore ha introdotto l’obbligo, in capo al Pubblico Ministero, di decidere in via generale entro tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini, se esercitare l’azione penale o richiedere l’archiviazione: ed il mancato rispetto di tali termini non risulta più privo di “sanzioni processuali”, ma viene, invece, sanzionato dall’art. 412 co. 1 c.p.p., proprio con l’istituto della avocazione. E se si decidesse, ad esempio, di paragonare in un certo senso la “inerzia” con la “omissione” di investigazioni espletate a favore della persona sottoposta alle indagini?
Ruolo del Pubblico Ministero nel nostro sistema processuale
Ci si domanda, dunque, qual è il reale ruolo del Pubblico Ministero nel nostro attuale sistema processuale: mera accusa o con una posizione “super partes” (nello stadio delle indagini preliminari)?
Una sentenza della Suprema Corte chiarisce che: “Nel vigente sistema processuale il pubblico ministero ha qualità di parte, sia pure pubblica, in quanto ha il compito di sostenere l’accusa e di adottare le scelte strategiche processuali che questo ruolo comporta. Ne deriva che la parzialità del P.M., anche quando si manifesta in comportamenti ispirati a conflittualità eccessiva, è destinata a rimanere estranea alle possibili turbative al corretto esercizio della giurisdizione. Ed invero, se durante le indagini preliminari, nel corso delle quali il P.M. è tenuto a ricercare tutti gli elementi di prova rilevanti per una giusta decisione, ivi compresi gli elementi favorevoli all’imputato, riemerge a tratti l’impostazione tendente ad attribuirgli veste di parte c.d. imparziale, una volta iniziata l’azione penale e, con essa, la fase processuale, il rappresentante della pubblica accusa riacquista in toto la sua esclusiva veste di parte in senso tecnico, spinta dall’unico interesse di veder comprovata l’impostazione accusatoria” (cfr. Cass. pen., sez. I, nr. 1125, 04/03/1998). A ben vedere, però, nelle fase delle indagini preliminari, il Pubblico Ministero non potrebbe esser considerato una “parte” pura poiché, prima dell’esercizio dell’azione penale, non risulterebbe ancora insorto alcun “conflitto” (rectius: processo) tra l’ordinamento e un determinato individuo; parimenti neppure l’indagato risulterebbe esso stesso una “parte” poiché, in tale fase, mancherebbe il presupposto essenziale per l’esistenza stessa delle “parti”: il processo penale, appunto. In questo stadio il Pubblico Ministero sarebbe soltanto titolare esclusivo – e legittimo, naturalmente – delle indagini; e, in quanto tale, spetterebbe ad esso canalizzare ogni elemento pro et contra indagato nella eventualità che si instauri un processo. Ma se – come già esposto – non venissero espletate, in modo esaustivo, tutte le indagini? Si potrebbe sempre controbattere che la funzione dell’avvocato consiste proprio in questo, ossia nel poter compensare o sopperire a “vuoti investigativi” o avanzare una antitesi più aderente ai fatti e contraria alla tesi accusatoria. Una tale interpretazione porterebbe però alla conseguenza, ad avviso di chi scrive, che gli accertamenti pro inquisito – che dovrebbe compiere il Pubblico Ministero – verrebbero a coincidere con quelli richiesti al Pubblico Ministero direttamente dalla persona sottoposta alle indagini o dal suo difensore: di fatto svuotando, in un certo senso, il contenuto della norma stessa e marginalizzando quell’ “obbligo” in termini di un mero adeguamento a quegli impulsi difensivi diretti al Pubblico Ministero. Peraltro, insistendo con una siffatta visione, verrebbe caricata la funzione difensiva di un ruolo non che le spetta del tutto (anche perché è onere del Pubblico Ministero provare l’accusa, non dell’accusato e del difensore dimostrare la sua estraneità, con un inevitabile inversione dell’onere della prova). Il ruolo della difesa, come infatti affermò in uno dei suo scritti Calamandrei, “è utile ai giudici per aiutarli a decidere secondo giustizia, utile al cliente per aiutarlo a far valere le proprie ragioni”. E, secondo il dettato dell’articolo 1 del Codice Deontologico Forense, “l’avvocato tutela, in ogni sede, il diritto alla libertà, l’inviolabilità e l’effettività della difesa, assicurando, nel processo, la regolarità del giudizio e del contraddittorio”.
Indagini a favore della difesa, come renderle obbligatorie?
Alla luce delle suindicate osservazioni si ritiene che, rebus sic stantibus, si dovrebbe provvedere – o quantomeno ripensare – ad una modifica della norma in questione, vincolando il Pubblico Ministero al compimento più cogente nello svolgimento di indagini anche a favore della persona indagata. In primis con l’indicazione palese, nello stesso articolo 358 c.p.p., del “dovere” e/o “obbligo” di svolgere tali accertamenti; in seconda istanza collegando ad un siffatto “dovere” e/o “obbligo” una conseguente “sanzione processuale”, nel caso di mancato rispetto. Senza pretesa di esaustività chi scrive ritiene vi siano diverse possibili sanzioni, la cui previsione potrebbe (rectius: dovrebbe) stimolare l’impulso dell’accusa nella ricerca “altresì” di elementi a discarico. A tal riguardo non può non considerarsi come la proposta del progetto di modifica di legge del 2008 sopra richiamata, mirasse a sanzionare tout court l’omessa raccolta, da parte del Pubblico Ministero, di elementi di prova a favore dell’indagato, con l’inutilizzabilità di tutti gli atti, precedentemente e successivamente, compiuti. A ben vedere una siffatta soluzione – che si porrebbe in linea con la sanzione processuale ricollegata all’attività di indagine svolta dal Pubblico Ministero oltre i termini stabiliti (o in assenza di un’apposita autorizzazione del giudice) – appare condivisibile astrattamente, pur con il rischio di risultare di difficile applicazione.
Sarebbe, infatti, difficile eccepire l’inutilizzabilità in parola, quando dell’attività investigativa non risulti prova di alcuna omissione. Un’ulteriore – o alternativa – “sanzione” che, almeno astrattamente, risulterebbe coerente con il sistema (specie dopo la modifica recentemente introdotta), sarebbe quella dell’intervento avocativo da parte del Procuratore Generale (calibrandolo su un eventuale impulso della difesa). Tale istituto, per quanto non sovente utilizzato nella prassi, è stato rinforzato dalla recente novella proprio con l’intento di controllare eventuali “inazioni” da parte del Pubblico Ministero. A parere di chi scrive, non vi sarebbero motivi che osterebbero all’estensione della sanzione avocatoria in tali casi, non solo per sopperire a “stasi” delle/nelle indagini, ma altresì nelle ipotesi di “inattività” del Pubblico Ministero nello svolgimento di indagini pro inquisito.
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