L’accordo tra debitore e creditore ai fini della messa a perdita del credito e detrazione d’imposta
Sommario:
1. L’oggettività quale parametro di riferimento per l’individuazione degli elementi della precisione e certezza; 2. La remissione ai fini della deducibilità del credito; 3. L’accordo tra debitore e creditore nel recupero dell’imposta.
L’oggettività quale parametro di riferimento per l’individuazione degli elementi della precisione e certezza
La messa a perdita del credito – più propriamente deducibilità perdite su crediti – rappresenta un’operazione di natura contabile / di bilancio che implica rilevanti ed importanti aspetti civilistici e si differenzia dalla “similare” operazione di natura bilancistica della cd “svalutazione dei crediti” sia in ragione dei presupposti (più stringenti per la messa a perdita) e sia per l’assenza – in ipotesi di svalutazione – dell’elemento della certezza circa il mancato incasso del credito. Seppur in maniera estremamente sintetica e semplicistica, si può affermare che la messa a perdita del credito annulla un componente positivo precedentemente imputato a bilancio.
Il quadro normativo che disciplina le ipotesi di deducibilità del credito è parecchio scarno, rinvenendo nel solo 5° comma dell’art. 101 del Tuir la relativa normativa regolamentatrice (da coordinarsi con le varie circolari dell’Agenzia delle Entrate).
Recita testualmente la norma di riferimento che le perdite di beni sono deducibili se “risultano da elementi certi e precisi”. Essi devono – necessariamente – essere temporalmente coevi ed il relativo onere dimostrativo è a carico del contribuente.
In accordo con un principio oramai consolidato in ambito fiscale, la precisione e la certezza vanno intesi nella loro accezione più rigorosa del termine e vanno inquadrati in un contesto di lettura interpretativa avente i caratteri della oggettività. Ricorre la “precisione” quando il credito è già stato pre-determinato nel suo ammontare ed è quindi certo e liquido [1]. Si rinviene la “certezza” quando vengono in essere circostanze fattuali tali da far presumere – secondo un’opinione scevra da qualsivoglia presupposto / interpretazione soggettiva – la probabile (rasente la certezza) definitiva mancata recuperabilità del credito ovvero che rendano l’attività di recupero medesima antieconomica (o inutile, qualora il credito ad esempio sia prescritto). Temporalmente, l’analisi circa la sussistenza dell’elemento della precisione e della certezza va fatta nel momento storico in cui si intraprende l’attività di recupero del credito.
Si ha antieconomicità non solo quando i costi della procedura di recupero credito ammontano ad un importo uguale o addirittura superiore al credito (o comunque ad una importo prossimo alla somma da recuperare), ma anche qualora l’arco temporale per il recupero sia lungo, tortuoso e comunque difficilmente collocabile temporalmente [2].
Si esclude, di conseguenza, la possibilità della deduzione del credito in ipotesi in cui la ratio, sottesa alla decisione di procedere alla messa a perdita del credito, sia da ricondurre nell’ambito meramente e puramente volitivo / potestativo del creditore (tipico è il caso dello spiritus donandi) ovvero in ipotesi in cui il creditore si trovi in una situazione economica di temporanea illiquidità: ciò in ragione del fatto che la temporanea mancanza di liquidità esclude, pacificamente, l’esistenza dell’elemento della certezza.
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L’accertamento della temporanea illiquidità va fatta principalmente sulla scorta della documentazione di cui il creditore può entrare in possesso (visure, informazioni finanziarie, lavorative, ecc..) ma anche in accordo con gli indici economici / produttivi del periodo storico economico di riferimento. Il concetto di temporanea illiquidità va inteso nel senso proprio del termine: ricorre tale ipotesi ogni qual volta il debitore, nel momento della richiesta di pagamento, non disponga di liquidità tale per soddisfare le pretese creditorie ma si presume che potrà disporne in futuro entro un ragionevole e di facile individuazione arco temporale. Sussiste – ad esempio – l’ipotesi della temporanea illiquidità nella situazione in cui il debitore non disponga di liquidità finanziarie ma possiede strumenti di borsa facilmente collocabili sul mercato in poco tempo. Va esclusa, per contro, la temporanea illiquidità qualora il debitore sia proprietario di un bene immobile difficilmente vendibile entro un breve lasso di tempo oppure nella frequentissima situazione in cui venga aggredito un bene immobile del debitore che, a seguito di procedura esecutiva, non si riesca a vendere all’asta nonostante molteplici tentativi di vendita.
In tale ottica, ben si comprende la scelta del legislatore di presumere – in maniera automatica, aprioristica e senza alcun onere a carico del contribuente – la presenza degli elementi della precisione e certezza al verificarsi di tutti quegli episodi fattuali che rendano “manifestamente evidente” la certezza circa la forte improbabilità (secondo il noto brocardo del id quod plerumque accidit) di recupero del credito [3], ovvero che rendano antieconomica la relativa procedura di recupero stante l’importo molto basso dello stesso [4] ovvero – infine – che rendano inutile la procedura di recupero (come nel caso di prescrizione del credito ovvero qualora siano stati cancellati da bilancio). Seppur la normativa non lo preveda, è pacificamente contemplabile l’ipotesi della deducibilità del credito a seguito di falcidia dovuta a procedure da sovra indebitamento.
Tale automatismo, va pur tuttavia posto in evidenza, è stato mitigato dall’Amministrazione Finanziaria che con circolare del 26/E/2013 ha escluso l’automatica deducibilità del credito nel caso di intervenuta prescrizione. Più nello specifico: in accordo con il principio reso dall’Amministrazione Finanziaria è da escludere la possibilità di mettere a perdita il credito in ipotesi in cui la decisione del creditore di non interrompere la prescrizione sia sorretta da un mero animus liberandi. Qualora, per contro, essa volontà si sia fondata su una base di solido raziocinio (il cui onere dimostrativo è a carico del contribuente), potrebbe ben ricorrere un’ipotesi di deduzione del credito. Si pensi all’ipotesi in cui il creditore – società di factoring – decida di mandare volontariamente in prescrizione il credito infruttuoso pur di non sostenere le spese di gestione.
La certezza / definitività della irrecuperabilità del credito si raggiunge – precipuamente – qualora vengano esperiti tutti i passaggi della filiera giudiziaria (che di norma termina con il pignoramento) tesa a recuperare il credito. Va pur tuttavia precisato che – affinchè ricorra l’elemento della “certezza“ – il pignoramento non deve essere “mancato” ma deve essere un pignoramento con esito “negativo”. Per raggiungere la prova della certezza in ipotesi di ditte individuali o società semplici, non è sufficiente eseguire il pignoramento c/o la sede della società, dovendo necessariamente rivolgere l’azione esecutiva anche verso i soci personalmente e verso il titolare della ditta. Per importi elevati, va sposata la teoria secondo la quale si raggiunge la certezza con il pignoramento anche bancario ovvero, in assenza di conti, con il deposito dell’istanza di fallimento. Non è data, inoltre, la possibilità di mettere a perdita in via automatica il credito (come soventemente nella prassi viene erroneamente fatto) in ipotesi in cui il giudizio venga estinto per mancato deposito dei documenti nel termine richiesto dal Giudice.
Va infine posto in evidenza come sia possibile procedere alla deduciblità anche senza esperire alcuna azione giudiziaria ma solo con l’invio di una semplice richiesta scritta di pagamento qualora – previa attenta e profonda analisi della consistenza patrimoniale del debitore ed attraverso una successiva ponderazione degli interessi coinvolti (costi / benefici) – le circostanze fattuali esaminate portino a ritenere – secondo una communis opinio – non conveniente ed anzi antieconomico intraprendere qualsivoglia azione giudiziaria. Si pensi al caso di recupero credito rivolto nei confronti di soggetto titolare di ditta individuale, verso il quale è stata inviata in precedenza una diffida di pagamento c/o la residenza indicata nel certificato comunale, tornata indietro per irreperibilità. Oppure si pensi al caso di società di capitali che ha chiuso i locali operativi ed è di fatto inattiva da anni (un’analisi del bilancio / modello unico è indispensabile): in tal caso è opportuno procedere alla notifica di diffida a mezzo di ufficiali giudiziari che attesti in maniera ufficiale la chiusura / inattività dell’impresa.
Nella prassi, la scelta di procedere alla messa a perdita del credito deve risultare da un documento chiamato lettera di messa a perdita. Essa rappresenta un documento di sintesi di tutta l’attività svolta per il recupero del credito, deve essere analitica e deve indicare in maniera precisa e rigorosa la normativa di legge nonché la ratio sottesa alla decisione di portare a perdita il credito (talvolta è opportuno richiamare in essa statuizioni giurisprudenziali o circolari). La redazione di tale documento va affidata – di concerto – al legale (per quanto attiene la descrizione della parte inerente le azioni giudiziarie eseguite) ed all’ufficio interno (che dovrà esplicare le ragioni della messa a perdita, precisando la relativa fonte normativa). Va conservata per il tempo previsto per legge unitamente agli atti originali richiamati nella medesima. La lettera di messa a perdita potrebbe essere utilizzata dal contribuente per fornire i “chiarimenti” richiesti dall’Amministrazione Finanziaria in caso di accertamento ex art. 36 ter comma 3 dpr 600/73. Si ricorda che, in assenza di chiarimenti e di successiva notifica della cartella esattoriale, il contribuente potrà fondare l’opposizione solo ed esclusivamente su vizi inerenti la stessa e non anche sulle ragioni che hanno portato l’Amministrazione Finanziaria ad escludere le deduzioni.
Proprio in relazione ai poteri di controllo spettanti all’Amministrazione Finanziaria, quest’ultima ha la possibilità di escludere un credito portato a deduzione, sostenendo sia l’elusività dell’operazione (tipico è rimettere il credito a favore di società facente parte dello stesso gruppo della società creditrice) e sia sostenendo l’assenza di valide ragioni alla base della decisione di mettere a perdita il credito (in buona sostanza viene dissimulato un atto di liberalità). Purtuttavia, una volta assolto l’onere dimostrativo a carico del contribuente circa la presenza di una solida base di logicità, nessuna censura potrà essere mossa al creditore.
La remissione di debito ai fini della deducibilità del credito
Con la circolare 26/E/2013 l’Agenzia delle Entrate ha annoverato tra gli atti realizzativi che possono dar luogo alla messa a perdita del credito la remissione di debito [5] (art. 1236 cc).
Essa rappresenta un tipico caso di estinzione dell’obbligazione diversa dall’adempimento e si realizza quando il creditore dispone volontariamente del proprio diritto di credito. Si differenzia dalla transazione in quanto in quest’ultima è presente l’elemento della “reciproca concessione”, non presente nel negozio di remissione di debito. Deriva che ogni qual volta il creditore decida di accontentarsi di una somma inferiore senza che il debitore faccia, a suo volta, alcuna concessione, il negozio intercorso va inquadrato nella remissione di debito e non nella transazione.
La remissione di debito, ai fini della sua efficacia, va accettata dal debitore in un congruo tempo (problema che nella prassi non si verifica in quanto la scrittura privata di norma riporta la firma di ambo le parti per accettazione) e, seppur non sia prevista alcuna forma sacramentale (civilisticamente la remissione di debito potrebbe concludersi anche per facta concludentia), di norma viene utilizzata la forma scritta.
Se si aderisce alla tesi secondo la quale la remissione di debito è eseguita con la mera ed esclusiva intenzione di beneficiare il debitore, essa andrebbe ricompresa tra le donazioni indirette e quindi non potrebbe dare luogo alla deducibilità del credito. Si tratterebbe infatti di un atto che, pur non avendo la forma della donazione, sarebbe comunque sorretto da un animus liberandi avendo, come mero ed esclusivo fine, quello di beneficiare il destinatario liberandolo dalla propria obbligazione.
Ed infatti affinchè la remissione di debito possa dar luogo al procedimento di deducibilità del credito, è indispensabile che la scelta del creditore di rimettere il debito sia stata dettata da specifiche scelte che si innestano nel contesto di più articolate e variegate operazioni di natura imprenditoriale. Più genericamente va data la possibilità di dedurre il credito ogni qual volta il creditore abbia fatto una scelta imprenditoriale che – seppur rivestita dalla anti economicità – sia sorretta da scelte imprenditoriali finalizzate a complessivi benefici economici futuri. (Cass. 10643/2018).
La Suprema corte – in contrasto con l’orientamento della Amministrazione Finanziaria – ha ad esempio ammesso la possibilità di dedurre il credito, nell’ipotesi in cui l’imprenditore rinunci ad una parte del proprio credito, pur di mantenere vivo il rapporto commerciale con il debitore; oppure – ancora – nel caso in cui il creditore abbia esperito tutti i mezzi giuridici per recuperare il credito e – stante l’impossibilità di recuperarlo in toto – abbia deciso di rimettere una parte del credito; oppure – infine – nell’ipotesi in cui l’imprenditore si “accontenta” di una parte di credito, purchè venga pagata nell’immediatezza, perché necessita di liquidità da investire in futuri progetti imprenditoriali.
Dubbi interpretativi sorgono in relazione dell’esatto inquadramento del disposto di cui all’art. 1239 cc con i principi di natura fiscale dettati in tema di deducibilità. E’ ben noto che – in forza di detta norma – la remissione di debito accordata al debitore libera i fideiussori. Ci si è chiesti, più analiticamente, se l’accordo preso con il creditore principale – avente ad oggetto la remissione di debito – sia di per sé un’operazione sufficiente a mettere a perdita il credito, ovvero occorre valutare se sussistano i presupposti di certezza e di precisione anche in riferimento alla posizione del fideiussore [6].
Anche in questo caso, la soluzione della problematica va data in riferimento ai principi generali: occorre valutare l’oggettiva convenienza dell’accordo nella complessità dei rapporti intercorrenti tra le parti e valutare la sussistenza dei requisiti di precisione e certezza in relazione anche al rapporto con il fideiussore. Si pensi all’ipotesi in cui il creditore – previa verifica degli elementi di certezza e precisione sussistenti in relazione a ciascun rapporto – concluda un accordo di remissione di debito col debitore principale: tale accordo potrà portare alla deduzione del credito. Se, per contro, il creditore principale non verifica anche la posizione col fideiussore, l’accordo potrà essere oggetto di sindacato dall’Amministrazione Finanziaria se il credito viene posto in deduzione.
Ad analoghe conclusioni si giunge nel caso di accordo tra creditore principale e fideiussore e, maggiormente, in ipotesi di co-obbligati (si pensi alla frequentissima ipotesi in cui la cambiale viene girata e successivamente si mette a perdita il credito). Anche nell’ipotesi di datio in solutum (si pensi al caso del creditore che si accontenta della consegna di un oggetto dal valore inferiore del debito), dovranno coesistere non soltanto gli elementi della precisione e certezza, ma anche la dimostrazione della convenienza economica nella scelta di concludere il nuovo negozio
Ulteriori spunti di riflessione sorgono in relazione alla remissione di credito successivo alla cessione del contratto – dal lato del debitore – nella specifica ipotesi in cui al debitore capiente, le parti si accordino nel sostituire un soggetto rivelatosi successivamente inadempiente (esula dalla problematica ovviamente la successione mortis causa). Ai fini della deduzione del credito, il creditore, sarà ulteriormente onerato di dimostrare anche la convenienza imprenditoriale sottesa alla decisione di cedere il contratto (ciò al fine di evitare eventuali contestazioni di elusione fiscale: si pensi al caso in cui, volutamente, si cede il contratto ad un soggetto già identificato come inadempiente al solo fine di dedurre il credito).
Resta – da ultimo – da chiarire l’aspetto inerente la tassazione della remissione di debito. Prevede l’art. 6 tariffa parte I Dpr 131/86 che la remissione di debito va registrata in termine fisso. L’art. 1 della parte seconda mitiga questo principio, disponendo la registrazione solo in caso d’uso [7], qualora l’atto si sia formato tramite corrispondenza (entrambe le firme non devono comparire sullo stesso foglio).
L’accordo tra debitore e creditore nel recupero dell’imposta
E’ ben nota la differenza tra deduzione di credito e detrazione di imposta regolata dall’art. art. 26 Dpr 633/72 che disciplina, appunto, i casi in cui è possibile detrarre l’iva al verificarsi dei tassativi presupposti ivi previsti.
E’ altresì noto il principio (comma 2 e 3) secondo il quale il sopravvenuto accordo tra creditore e debitore (su qualsiasi base e ragione), formalizzatosi dopo l’emissione e registrazione della fattura, avente ad oggetto la diminuzione in tutto o in parte dell’imponibile, comporta la possibilità, in via proporzionale, di portare in detrazione l’imposta versata. Ciò è reso possibile purchè l’accordo tra le parti intervenga entro un anno (trattasi di termine rigorosissimo) dall’effettuazione dell’operazione imponibile. Decorso tale termine, le parti possono sempre accordarsi circa la diminuzione dell’importo imponibile; ma tale accordo non riverbera effetto alcuno sulla determinazione dell’imposta.
Ulteriormente, il dettato legislativo prevede, senza alcun vincolo temporale, che se viene meno in tutto o in parte o se riduce l’ammontare imponibile, “in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione …. Il cedente del bene o prestatore di servizio ha diritto di portare in detrazione … l’imposta corrispondente alla variazione”.
L’art. 26 individua, quindi, tra le ipotesi che consentono la diminuzione dell’imponibile anche la risoluzione contrattuale, senza pur tuttavia porre distinzione alcuna tra risoluzione giudiziale e di diritto.
Deriva che il verificarsi della condizione oggetto di una clausola risolutiva espressa inserita nel contratto e concordata tra le parti (tipico è il mancato pagamento entro il termine stabilito dalle parti come essenziale), può ben costituire il presupposto per portare in detrazione l’imposta in precedenza versata [8]. Tale principio vale – in ragione dell’inserimento del comma 9 – anche in casi di contratti a prestazione continuativa e periodica per i corrispettivi non pagati, nonostante il proponente abbia adempiuto la sua obbligazione. Ai fini pratici, è necessario che il creditore dichiari di avvalersi della clausola così intendendo risolvere il contratto. In ipotesi di verifica da parte della P.A., tale dichiarazione dovrebbe essere sufficiente ad annullare ogni pretesa del fisco.
In più occasioni ci si è chiesti se sia possibile la detrazione dell’imposta nella eventualità di sopravvenuto accordo tra le parti oltre l’anno dall’esecuzione della prestazione avvenuto nel corso di un giudizio civile volto ad accertare una delle ipotesi contemplate nel comma 2.
Al riguardo la presa di posizione dell’Amministrazione Finanziaria (risposta 387/19), facendo proprio il dettato normativo in senso letterale, è chiara ed univoca (anche se non priva di aspetti di criticità): l’accordo tra creditore e debitore, seppur concluso dopo un anno, può determinare la detrazione iva soltanto ove vi sia stata una sentenza di accoglimento della domanda di una delle ipotesi previste dal comma 2. In ogni altra occasione (sentenza negativa, transazione conclusa in corso di giudizio dichiarato estinto, ecc…) l’accordo tra le parti non rileva mai ai fini della detrazione d’imposta.
Resta infine da chiarire la possibile rilevanza, ai fini della detrazione di imposta, dell’accordo tra debitore e creditore avente ad oggetto la risoluzione consensuale del contratto successivamente al verificarsi di inaspettati eventi costituenti patologie contrattuali tali da minare il sottostante rapporto sinallagmatico. Tipico è il caso della vendita di un prodotto successivamente rivelatosi non adatto allo scopo per vizi essenziali sopraggiunti e non conosciuti in precedenza.
Tale evenienza può pacificamente dar luogo al procedimento di detrazione di imposta al ricorrere dei presupposti di cui all’art. 23 comma 2 Dpr 633/72 (ossia nell’ipotesi in cui le parti percorrano la strada della dichiarazione di risoluzione giudiziale). In ogni altra occasione, l’A.F. potrà sindacare l’operato del contribuente.
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Note
[1] Un esempio chiarificatore: il credito è preciso in caso di contratto di somministrazione, con ivi indicato il costo della merce venduta. In ipotesi di consegna della stessa, il debitore accetta la merce già conoscendo il relativo costo da versare avendolo in precedenza pattuito. Se una società di noleggio auto, una volta riconsegnata la vettura, ritiene che la stessa sia danneggiata ed emette la fattura per il costo di riparazione, l’ammontare del credito non può reputarsi preciso.
[2] La ratio alla base di tale conclusione è di pronta soluzione: lo sforzo del creditore per recuperare il proprio credito, se di difficile realizzazione e pronosticato nel tempo in un arco temporale di non facile individuazione, rappresenterebbe un’attività imprenditoriale antieconomica, in ragione del fatto che il tempo ed i mezzi finanziari utilizzati dall’imprenditore per il recupero il proprio credito rappresenterebbero inutili costi che potrebbero essere utilizzati più proficuamente per altri fini imprenditoriali.
[3] In questo gruppo il legislatore inserisce l’ipotesi in cui il debitore è assoggettato a procedure concorsuali, ha concluso un accordo di ristrutturazione omologato o un piano attestato si sensi dell’art. 67 legge fallimentare.
[4] E’ possibile procedere alla messa a perdita del credito se l’importo è inferiore ad E.5000, ovvero E.2500 per imprese più piccole.
[5] Nella prassi è parecchio diffusa la pratica del creditore di concedere al debitore una “cancellazione” parziale del debito pur di ricevere quanto meno una parte del proprio credito.
[6] Un esempio chiarificatore potrà far meglio comprendere la problematica: A è debitore verso B della somma di 100 e C è fideiussore. Il creditore si accorda con A nel senso di rimettere una somma pari 50 e – un volta effettuato il pagamento – di liberarlo dall’obbligazione. Il quesito va posto nei seguenti termini: tale decisione è sufficiente per mettere a perdita il credito da un punto di vista fiscale, ovvero il creditore deve valutare anche la posizione con il fideiussore.
[7] Si ricorda nuovamente che d’uso il deposito di atti in occasione di azioni giudiziarie civili non rappresenta un caso d’uso
[8] Va però posto in evidenza che affinchè tale clausola possa esplicare i suoi effetti anche in ambito fiscale deve necessariamente rivestire, a pena di nullità, i connotati della specificità nell’individuare ed indicare la circostanza fattuale che dà luogo all’inadempimento contrattuale: come l’orientamento giurisprudenziale infatti insegna da anni non è valida la clausola che rimanda ad una serie di generici e multipli inadempimenti contrattuali.
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