L’abuso del processo alla luce delle recenti pronunce della Corte di Cassazione

a cura di dr. Davide Mustari
(Omissis). Il creditore che introduca un giudizio di cognizione o inizi una procedura esecutiva senza altro scopo che quello di far lievitare il credito, attraverso la moltiplicazione di spese di esazione esose ed evitabili, viola l’obbligo di correttezza di cui all’art. 1175 c.c. che gli impone di cooperare con il debitore per facilitarne l’adempimento, di non aggravarne la posizione e di tollerare quelle minime inesattezze della prestazione che siano insuscettibili di recargli un apprezzabile sacrificio; ne consegue l’inammissibilità della domanda che presenti tali caratteristiche, integrando la detta condotta abuso del processo. (1)
Considerazioni relative al c.d. «abuso del processo».

– La pronuncia in commento permette di riflettere su una tematica molto interessante, quella del c.d. abuso del processo.

Il caso da cui origina la sentenza che si annota è il seguente: l’attore propose dinanzi al Giudice di Pace di Roma opposizione a sanzione amministrativa, irrogata per violazioni al Codice della Strada. Il Giudice di Pace accordò la tutela richiesta dall’attore e gli liquidò a titolo di spese legali la somma di € 60,00 (oltre accessori): sentenza notificata alla parte soccombente (Comune di Roma) in data 01.07.2009. Il Comune di Roma informò l’attore che a partire del 03.08.2009 avrebbe messo a sua disposizione la somma di € 82,62. Dopo un anno e mezzo da questi fatti, l’attore – che non riscosse tale credito – decise di iniziare l’azione esecutiva nei confronti del Comune di Roma, intimando precetto per l’importo di € 622,32 (determinato dal creditore aggiungendo al credito indicato nel titolo esecutivo, le spese successive di esecuzione). Il Comune di Roma propose opposizione all’esecuzione, deducendo di aver già adempiuto la propria obbligazione emettendo il mandato di pagamento sopra indicato nel termine di 120 giorni dalla notifica della sentenza, ai sensi del D.L. n. 669 del 1996, art. 4, conv. dalla L. n. 30 del 1997. Il Giudice di Pace di Roma accolse l’opposizione del Comune di Roma, accertando che quest’ultimo aveva pagato quanto dovuto nel termine di 120 giorni dalla notifica della sentenza.
La parte soccombente ha quindi impugnato la sentenza del Giudice di Pace, tuttavia, il Tribunale di Roma ha rigettato il gravame affermando che «il giudice di primo grado deve liquidare le spese di lite tenendo conto anche delle attività consequenziali necessarie svolte successivamente alla sentenza di primo grado, e pertanto tali importi non possono essere liquidati autonomamente, salva la possibilità di impugnare il capo della sentenza relativo alle spese di lite qualora l’importo fosse considerato insufficiente» e ritenendo, dunque, l’insussistenza del diritto dell’esecutante a procedere ad esecuzione forzata.
Avverso la sentenza d’appello è stato proposto ricorso in Cassazione, rilevando, nella sostanza, come il pagamento proposto dal Comune di Roma fosse stato rifiutato legittimamente, dovendo ritenersi parziale, avendo omesso quest’ultimo di includere nella somma proposta a copertura del credito un importo pari a € 5,30 spettanti.

Preliminarmente, si reputa utile una premessa introduttiva relativa al concetto di abuso del processo[1].

Nel nostro ordinamento giuridico manca una definizione di abuso del processo. Dottrina e giurisprudenza lo considerano come una proiezione dell’abuso del diritto che è stato – ed è tuttora – oggetto di studio da parte della Corte di Cassazione, la quale ritiene che sia ravvisabile quando un soggetto sfrutta un potere conferitogli per perseguire obiettivi ulteriori e/o differenti rispetto a quelli oggettivamente riconosciuti a quel determinato atto da parte del legislatore ([2]).
Si tratta di una ricostruzione che trova conferma anche nell’ordinamento europeo, ove il divieto di abusare del diritto è annoverato tra i principi generali dell’ordinamento comunitario ai sensi dell’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea ([3]).
Peraltro, a riguardo, non si può non considerare la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza) che, all’art. 54, sancisce il divieto di abuso del diritto affermando che: «nessuna disposizione della presente Corte deve essere interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare una attività o compiere un atto che miri alla distruzione di diritti e delle libertà riconosciuti nella presente carta o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente carta».
È poi pacifico, nel nostro ordinamento giuridico, che le libertà e i diritti riconosciuti dalla nostra Carta Fondamentale – che rappresentano conquiste irrinunciabili – non sono esercitabili in assoluto, ma devono equilibrarsi con altri presidi costituzionalmente garantiti di eguale importanza. Emerge immediatamente, dunque, la necessità di un bilanciamento tra il diritto di azione di cui all’art. 24 Cost., il principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., e il principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost., dal quale discendono canoni comportamentali delle parti, quali l’obbligo di correttezza e di agire secondo buona fede.
 

In particolare, bisogna focalizzare l’attenzione sul principio del «giusto processo regolato dalla legge» sancito dall’art. 111 Cost.

La costituzionalizzazione del principio del giusto processo ha portato con sé due corollari fondamentali: in primo luogo, l’emersione di una componente deontologica del giusto processo che vada oltre l’idoneità tecnica e l’efficienza dei mezzi e delle strutture del giudizio e che riguardi la correttezza dei comportamenti dei protagonisti processuali, vincolandoli all’inderogabile rispetto di un’etica che rappresenta l’anima interna del processo; in secondo luogo, l’accezione di un nuovo approccio garantista che permette di rendere controllabili, in ogni situazione, la correttezza e la lealtà dei comportamenti di chi esercita o meno i diritti, i poteri e gli oneri di cui è titolare. È il caso di rilevare che nel nostro ordinamento manca, in primis, una codificazione dei casi, delle forme e dei limiti in cui l’esercizio di un diritto, di un potere o di un onere processuale possa convertirsi da uso legittimo in abuso e, in secundis, un efficiente apparato di rimedi sanzionatori a cui sottoporre chiunque si renda responsabile dell’abuso del processo. Dal concetto di «giusto processo» è possibile sostenere che il processo non viene più definito giusto esclusivamente in termini oggettivi ma anche in termini soggettivi e comportamentali in quanto retto da principi etici e deontologici (di lealtà, di buona fede e di probità) che impongono a tutti gli individui istituzionalmente coinvolti, precisi doveri di condotta e di comportamento nel processo, la cui violazione è suscettibile di controllo e di accertamento. Rileva, dunque, l’elemento soggettivo che il formalismo degli atti tende perlopiù a negare ([4]).

L’abuso del processo può essere analizzato tanto da un punto di vista privatistico, sostanziandosi in una violazione dei principi di correttezza e buona fede ad opera di una parte processuale, quanto da un punto di vista pubblicisto, ponendosi in contrasto con il principio del giusto processo e della sua ragionevole durata.

È possibile affermare che con la formula «abuso del processo» si indica il fenomeno per il quale un determinato atto o comportamento, pur sembrando astrattamente rispettoso del contenuto di un diritto, viene in concreto avvertito per un qualche verso iniquo ([5]): più specificamente, si caratterizza per la presenza di un atto o comportamento che, pur rispettando i limiti formali di un certo diritto, tenuto conto delle circostanze concrete, viene percepito come illecito basandosi su criteri non formali di valutazione ([6]). Dunque, l’abuso del processo si sostanzia nello sfruttamento da parte di un soggetto di strumenti processuali affinchè derivi all’interlocutore un sacrificio non giustificato dal perseguimento di un interesse lecito ([7])
In dottrina sono disponibili due approcci differenti alla questione: in chiave dogmatica e riassuntiva, riconducendo alla formula in esame esclusivamente ipotesi tipiche già note nell’ordinamento (come la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo correttezza e buona fede); in chiave di concreta incidenza sulla disciplina dei rapporti giuridici, riconducendo alla formula in esame ipotesi atipiche, valutando gli atti e i comportamenti dei soggetti coinvolti sulla base di criteri di adeguatezza, proporzionalità, meritevolezza, eticità e socialità (valori esogeni rispetto all’ordinamento) ([8]). In questo secondo caso, la categoria dell’abuso del processo, oltre ad incidere sull’assetto dei diritti e degli obblighi delle parti, assume una rilevanza innovativa del modo di concepire l’ordinamento giuridico in quanto gli atti e i comportamenti che, secondo un complesso di norme, appaiono espressioni di un determinato diritto, potranno essere di fatto valutati come illeciti ([9]).

Dalla casistica giurisprudenziale – sia di legittimità sia di merito – è emersa chiaramente la possibilità di suddividere i casi di abuso del processo in due grandi categorie ([10]):
a) parcellizzazione della domanda: in questa categoria vi rientrano i casi di c.d. frazionamento del credito che si verifica quando una parte, allorché la fonte dei suoi diritti trovi origine in un unico rapporto giuridico, per vari motivi, introduce plurimi procedimenti, anziché un unico processo ([11]). Si tratta di una situazione non consentita, essendo tale scissione in contrasto tanto con i principi di correttezza e buona fede, quanto con il principio di ragionevole durata del processo ([12]);
b) utilizzo di strumenti processuali a fini dilatori o manifestamente infondati: in questa categoria rientrano i casi in cui una parte utilizzi il processo allo scopo di ottenere un effetto ultroneo (diverso dal mero aumento di volume del contenzioso) rispetto a quello naturale dello strumento (si pensi, ad esempio, all’instaurazione di giudizi al solo fine di allungare i tempi tesi a pervenire alla regolazione della situazione controversa) ([13]).

 

La sentenza che qui si annota sembra fare riferimento ad un caso di abuso del processo che non trova esatta collocazione nelle categorie sopra indicate.

La motivazione della sentenza si apre con una breve premessa generale circa il concetto di abuso del processo. In particolare, i giudici di legittimità, richiamando giurisprudenza da tempo consolidata, affermano che l’abuso del processo si sostanzia in una condotta che si caratterizza per un requisito oggettivo ed uno soggettivo. Il primo consiste nel fatto che  lo strumento processuale viene utilizzato per fini differenti rispetto a quelli suoi propri e, cioè, non per tutelare i diritti dedotti in giudizio, ma per perseguire finalità ultronee arrecando conseguentemente un danno alla controparte. Il requisito soggettivo postula che la condotta di cui sopra venga tenuta in violazione del generale dovere di correttezza sancito dall’art. 1175 c.c. e buona fede sancito dall’art. 1375 c.c.
In definitiva, dunque, i giudici di legittimità affermano che costituisce abuso del processo qualsiasi iniziativa processuale volta a conseguire un ingiusto vantaggio, distorcendo i fini naturali del processo civile.
Nel caso di specie, secondo la Corte, il ricorrente, contestando all’amministrazione comunale di avere indebitamente trattenuto € 5,30, ha rifiutato l’adempimento offerto dal Comune di Roma, per pretendere successivamente il pagamento di un importo pari a € 633,00. Viene ravvisato, dunque, tanto l’elemento oggettivo, consistente nell’intenzione del ricorrente di far lievitare il proprio credito, quanto l’elemento soggettivo, potendo una qualunque persona, con l’ordinaria diligenza, avvedersi della insostenibilità di una simile censurabile tecnica moltiplicatoria dei crediti.
La Corte di Cassazione, dunque, ritiene che, se il debitore ha l’obbligo di adempiere puntualmente la propria obbligazione, il creditore ha quello di collaborare con il debitore al fine di facilitarne l’adempimento e di non aggravarne inutilmente la posizione. I minimi scostamenti nell’esecuzione della prestazione dovuta, insuscettibili di arrecare un apprezzabile sacrificio al creditore, dovranno essere tollerati da quest’ultimo. Di conseguenza, qualora il creditore introduca un qualsiasi giudizio in violazione di tali precetti, al solo scopo di far lievitare il proprio credito, compie un abuso del processo.
Note
[1] E.M. Catalano, L’abuso del processo, Milano, 2004; L.P. Comoglio, Abuso del processo e garanzie costituzionali, in Riv. dir. proc., 2008, p. 319 ss.; F. Cordopatri, L’abuso del processo, II, Diritto positivo, Padova, 2000; M. F. Ghirga, La meritevolezza della tutela richiesta. Contributo allo studio sull’abuso della domanda giudiziale, Milano, 2004; Id., Abuso del processo e sanzioni, Milano, 2012.
[2] Cass., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106: «L’abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l’utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. È ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell’atto rispetto al potere che lo prevede». Recentemente, la Corte di Cassazione ha affermato che, al fine di accertare la sussistenza di un abuso del diritto, sia necessario verificare la presenza sia dell’elemento oggettivo, consistente nel mancato raggiungimento dell’obiettivo perseguito dalla normativa, sia dell’elemento soggettivo, dovendo risultare che lo scopo essenziale delle operazioni poste in essere sia differente rispetto a quello perseguito dalla normativa stessa. In particolare, relativamente ad una questione di diritto tributario, Cass., sez. trib., 02 aprile 2021, n. 9135 ha affermato che: «In tema di abuso del diritto, per la configurazione di una pratica elusiva, secondo l’ordinamento dell’Unione europea e la giurisprudenza della Corte di Giustizia, è necessaria, oltre alla sussistenza dell’elemento oggettivo del mancato raggiungimento dell’obiettivo perseguito dalla normativa unionale (pur nel formale rispetto delle condizioni da essa previste), quella di un elemento soggettivo, dovendo risultare, da un insieme di circostanze, che lo scopo essenziale delle operazioni controverse è conseguire un risparmio di imposta, il quale è sempre illecito quando rappresenti la parte preponderante e comunque prevalente dell’oggetto del contratto o degli accordi nel loro complesso, in quanto le ragioni economiche dell’operazione negoziale, valutata secondo la sua essenza, appaiano meramente marginali o teoriche e tali, quindi, da considerarsi manifestamente inattendibili o comunque irrilevanti rispetto alla finalità di ottenere un (indebito) vantaggio fiscale».
[3] C.G.U.E., 05 luglio 2007, causa C-321/05: «l’art. 11, n. 1, lett. a), della direttiva 90/434 riflette il principio generale di diritto comunitario secondo il quale l’abuso del diritto è vietato. I singoli non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme di diritto comunitario». In tal senso anche, C.G.U.E., 21 febbraio 2006, causa C-255/02; C.G.U.E., 9 marzo 1999, causa C-212/97.
[4] L.P. Comgolio, L’abuso del processo e garanzie costituzionali, op. cit., pp. 329-331.
[5] M. Fornaciari, Note critiche in tema di abuso del diritto e del processo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2, 2016, pp. 592 ss.
[6] C. Salvi, voce Abuso del diritto. I) Diritto civile, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1988, p. 1; F Cordopatri, L’abuso del processo, op. cit., p. 89 ss.; S. Patti, voce Abuso del diritto, in Dig., disc. Priv., sez. civ., I, Torino, 1987, pp. 22 ss.
[7] Fondamentale, a riguardo, Cass., sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726. M. F. Ghirga, La meritevolezza della tutela richiesta, op. cit., passim.
[8] M. F. Ghirga, Abuso del processo, op. cit., p. 17.
[9] M. Fornaciari, Note critiche in tema di abuso del diritto e del processo, op. cit., passim.
[10] Così anche, A. Arseni, L’abuso del processo, op. cit.
[11] Cass., sez. II, 24 maggio 2021, n. 14143: «Le domande relative a diritti di credito, analoghi per oggetto e per titolo, in quanto fondati su fatti costituitivi assimilabili, non possono essere proposte in giudizi diversi, quando i relativi fatti costitutivi si inscrivano nell’ambito di una relazione unitaria tra le parti, anche di mero fatto, caratterizzante la concreta vicenda da cui deriva la controversia»; Cass., sez. III, 17 marzo 2021, n. 7409: «Se il debitore ha l’obbligo di adempiere puntualmente la propria obbligazione (imposto dall’art. 1176 c.c.), il creditore ha quello non meno cogente (imposto dall’art. 1175 c.c.) di collaborare col creditore per facilitarne l’adempimento; di non aggravare inutilmente la sua posizione; di tollerare quei minimi scostamenti nell’esecuzione della prestazione dovuta che siano insuscettibili di arrecargli un apprezzabile sacrificio. Il creditore il quale, violando tali precetti, introduca un giudizio vuoi di cognizione, vuoi di esecuzione, il quale altro scopo non abbia che far lievitare il credito attraverso la moltiplicazione di spese di esazione esose ed evitabili, compie un abuso del processo, il quale comporta l’inammissibilità della domanda sia in sede di cognizione, sia in sede di esecuzione, sia in sede di impugnazione»; Cass., sez. trib., 17 aprile 2019, n. 10668: « In materia di esecuzione forzata tributaria, la disciplina sul cumulo dei mezzi di espropriazione di cui all’art. 483 c.p.c. opera, in virtù della clausola generale di buona fede e dei principi in tema di abuso del processo, anche nella fase anteriore all’inizio dell’esecuzione, nella quale il contribuente può pertanto far valere, impugnando la cartella di pagamento (o gli altri atti prodromici alla riscossione coattiva), le condotte abusive dell’agente di riscossione, che manifesti l’intenzione di avviare ulteriori processi esecutivi, pur avendo già impiegato fruttuosamente gli strumenti processuali volti alla soddisfazione coattiva del credito».
[12] Cass., sez. III, 17 marzo 2021, n. 7409, cit.: «Il creditore che introduca un giudizio di cognizione o inizi una procedura esecutiva senza altro scopo che quello di far lievitare il credito, attraverso la moltiplicazione di spese di esazione esose ed evitabili, viola l’obbligo di correttezza di cui all’art. 1175 c.c. che gli impone di cooperare con il debitore per facilitarne l’adempimento, di non aggravarne la posizione e di tollerare quelle minime inesattezze della prestazione che siano insuscettibili di recargli un apprezzabile sacrificio; ne consegue l’inammissibilità della domanda che presenti tali caratteristiche, integrando la detta condotta abuso del processo»; Cass., sez. II, 29 novembre 2019, n. 31308: «Non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in virtù di un unico rapporto obbligatorio, frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, poiché tale scissione del contenuto dell’obbligazione si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, sia con il principio costituzionale del giusto processo (nella specie, un avvocato, dopo essere stato revocato come legale, il cui mandato gli era stato conferito da una banca senza che gli venissero corrisposti i compensi spettanti, aveva proposto tanti gravami per ottenere vari decreti ingiuntivi relativi ai distinti crediti riguardanti le diverse prestazioni professionali svolte nell’interesse della banca)»
[13] Cass., sez. un., 3 novembre 1986, n. 6420: «Va condannata al risarcimento dei danni per responsabilità processuale aggravata la parte che chieda il regolamento di giurisdizione a fini dilatori, omettendo altresì di notificare il ricorso a talune delle altre parti e d’integrare il contraddittorio nel termine fissato dalla Cassazione, sì da conseguire la dichiarazione di inammissibilità dell’istanza e la conseguente possibilità di riproporla»; Cass., sez. III, 21 maggio 1999, n. 4957: «È da ritenersi incontrovertibile che nel caso in cui, con procedimento sommario per convalida di licenza o di sfratto, venga dedotta in giudizio una controversia relativa all’affitto di fondi rustici, la competenza funzionale attribuita alle sezioni specializzate agrarie esclude totalmente quella del giudice ordinario, il quale difetta, quindi, anche del potere di emettere un provvedimento provvisorio ai sensi dell’art. 665 del c.p.c. e deve limitarsi a dichiarare con sentenza la propria incompetenza e rimettere la causa davanti al giudice specializzato, a meno che l’eccezione circa l’esistenza del contratto agrario appaia, a un esame sommario e in modo manifesto e certo, palesemente infondata e pretestuosa. Permane, in tal caso, la competenza del giudice ordinario».
 

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