La responsabilità civile dei magistrati

La responsabilità civile dei magistrati nell’ambito dell’esercizio delle funzioni giudiziarie è disciplinata dalla legge 117/1988, n. 117 (c.d. “legge Vassalli”), approvata a seguito del referendum abrogativo della previgente normativa (d.p.r. n. 497/1987) considerata molto limitativa in relazione alla responsabilità civilistica dei giudici.
La legge ha cercato di contemperare i due principi della responsabilità civile dei giudici con l’esigenza di salvaguardarne l’indipendenza e l’autonomia, e ha in parte corrisposto agli obiettivi originari fissati con il referendum, realizzando una responsabilità più virtuale che reale, da portare, a seguito di un lungo dibattito, alimentato anche dalle sollecitazioni della Corte di Giustizia Europea, alla riforma con la l. n. 18 del 27 febbraio 2015, entrata n vigore il 19 marzo 2015.
Di fronte ai risultati prodotti dalla legge Vassalli, giudicati da più parti non rispondenti agli obiettivi originari posti con l’esito referendario, sono stati presentati nel tempo svariati progetti di legge, volti ad introdurre modifiche sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello procedurale, al fine di contemperare, da un lato, l’esigenza di una reale applicabilità della responsabilità civile dei magistrati, dall’altro di non comprometterne le necessarie autonomia ed indipendenza.
I vari disegni di legge si sono mossi nell’ottica di un’ introduzione di forme dirette di responsabilità del magistrato, almeno in caso di dolo, di una semplificazione del procedimento per la responsabilità in caso di colpa grave, di una garanzia di terzietà con la previsione di una composizione mista (anche di cittadini), e della revoca del limite della posta risarcitoria.
Nel difficile dibattito sul tema si è inserita anche la Corte di Giustizia dell’Unione europea, che si è pronunciata in più occasioni sulla mancata rispondenza della legge Vassalli alle norme del diritto comunitario, soprattutto in merito all’esclusione della responsabilità del magistrato nei casi di interpretazione di norme di diritto o della valutazione di fatti e prove e all’imposizione di requisiti poco rigorosi (nelle ipotesi di responsabilità ammesse) nei confronti della violazione palese del diritto vigente.
Questo ha comportato l’avvio di una procedura di infrazione, conclusa con una sentenza di condanna per l’Italia (Commissione c. Italia 24.11.2011) per violazione degli obblighi di adeguamento del proprio ordinamento al principio di responsabilità degli Stati membri, di fronte alle ipotesi di violazione del diritto dell’Unione Europea da parte degli organi giurisdizionali di primo grado.
La legge n. 18/2015, nell’ottica di adeguare l’ordinamento italiano alle indicazioni fornite dalla Corte di Giustizia Europea, modifica molto la l. n. 117/1988, mantenendo lo stesso  inalterato il principio della responsabilità indiretta dei magistrati, invocato da più parti, e agendo sotto il profilo della limitazione della c.d. “clausola di salvaguardia”, della ridefinizione in senso più ampio delle fattispecie di colpa grave, eliminando anche il filtro di ammissibilità della domanda e rendendo obbligatoria e più stringente la disciplina della rivalsa dello Stato verso il magistrato responsabile.
La legge n. 117/1988 prevede, all’art. 2, che chiunque abbia subito un danno ingiusto, a causa di un comportamento, atto o provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali” (ex art. 2, comma 1).
A seguito della riforma viene ampliato lo spettro delle ipotesi del risarcimento dei danni, patrimoniali e non, attraverso l’eliminazione della norma di chiusura “che derivino da privazione della libertà personale”, in precedenza prevista dal comma 1 dell’articolo 2.
Resta invariato il principio di responsabilità indiretta, secondo il quale il cittadino che ha subito un danno ingiusto a causa del magistrato dovrà agire, attraverso l’apposita azione, esclusivamente nei confronti dello Stato, che si rifarà in un secondo momento sul giudice responsabile, fatta salva l’ipotesi della quale all’articolo 13, comma 1, della l. n. 117/1988, che prevede che il cittadino, se il danno causato dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni consegua a un fatto che costituisce reato, possa esperire l’azione civile per il risarcimento nei confronti del magistrato e dello Stato secondo le norme ordinarie.
Sul requisito dell’ingiustizia, il danno deve rappresentare l’effetto di un comportamento, atto o provvedimento giudiziario posto in essere da un magistrato con “dolo” o “colpa grave” nell’esercizio delle sue funzioni oppure conseguente “a diniego di giustizia”.
Sino all’entrata in vigore della legge. n. 19/2015, l’articolo 2, comma 3, della legge Vassalli includeva nella colpa grave:
la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile, l’affermazione e la negazione, determinate da negligenza inescusabile, di un fatto la quale esistenza è esclusa dagli atti del procedimento. l’emissione di provvedimento sulla libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge o senza motivazione.
Con la riforma, il Legislatore ha provveduto a ridisegnare le fattispecie di colpa grave, novellando l’intero comma 3 e aggiungendo un comma 3-bis all’art. 2 della legge Vassalli.
In particolare, prendendo spunto dalle indicazioni emerse dalla giurisprudenza, secondo la quale, la colpa grave si concretizza in una violazione “grossolana e macroscopica della norma, in una lettura contrastante con ogni criterio logico, che comporta l’adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore, la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo e lo sconfinamento dell’interpretazione nel diritto libero”, il legislatore del 2015 ha soppresso innanzitutto sulla “negligenza inescusabile” prima previsto, stabilendo che i comportamenti dei magistrati che rientrano nelle ipotesi di colpa grave sono tali ope legis.
Le ipotesi di colpa grave previste dal novellato comma 3 dell’articolo 2 sono le seguenti:
La violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione Europea (in luogo della grave violazione di legge precedentemente prevista)
Il  travisamento del fatto o delle prove
L’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento, o, viceversa, la negazione di un fatto incontrastabilmente esistente
L’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge o senza motivazione.
Nel nuovo comma 3-bis, inoltre, la legge precisa i presupposti di cui tenere conto ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge e del diritto dell’Unione Europea, per la quale deve tenersi conto “del grado di chiarezza e precisione delle norme violate; dell’inescusabilità e della gravità dell’inosservanza”, oltre che, con riferimento solamente alla violazione manifesta del diritto dell’Ue, “della mancata  osservanza  dell’obbligo  di  rinvio pregiudiziale  ai  sensi  dell’articolo  267,  terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonché del contrasto dell’atto o del provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea”.
Il diniego di giustizia
L’art. 3 disciplina, invece, il “diniego di giustizia” che dà luogo alla responsabilità civile del magistrato.
Secondo il comma 1, lasciato inalterato dalla riforma, esso si configura nei casi di ritardi, rifiuti oppure omissioni del magistrato nel compimento di uno o più atti di ufficio, quando “trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria”.
Se il ritardo o l’omissione, immotivati e ingiustificati, riguardino direttamente la libertà personale dell’imputato, la scadenza è diminuita improrogabilmente a cinque giorni, a partire dal deposito dell’istanza, o è coincidente con lo stesso giorno in cui si è verificata una situazione (o è decorso un termine) che renda incompatibile la permanenza della misura restrittiva della libertà personale.
La legge Vassalli prevede l’applicazione della cosiddetta “clausola di salvaguardia” della quale all’articolo 2, comma 2, stabilendo che “non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”. In questa ipotesi, la tutela delle parti si può attuare attraverso l’impugnazione del provvedimento giurisdizionale che si sostiene essere viziato.
Nonostante si conferisca il giudice non può essere chiamato a rispondere per l’esercizio dell’attività interpretativa della legge e valutativa del fatto e delle prove, la riforma ha delimitato l’ambito di applicazione della clausola in questione, escludendo dalle ipotesi di irresponsabilità del magistrato, i casi di dolo e colpa grave (ex l. n. 18/2015).
L’articolo 1, comma 1, della l. n. 117/1998 delinea il campo di applicazione della responsabilità civile dei magistrati, stabilisce che le disposizioni legislative “si applicano agli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali, che esercitano l’attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni, nonché agli estranei che partecipano all’esercizio della funzione giudiziaria”.
Il comma successivo estende il campo di applicazione anche ai magistrati che esercitano le proprie funzioni in organi collegiali.
Sull’azione in giudizio, chi ha subito il danno ingiusto non può agire direttamente nei confronti del magistrato, ma contro lo Stato, nella persona del Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 4).
La competenza spetta al tribunale del capoluogo del distretto della Corte d’appello, da determinarsi a norma dell’art. 11 c.p.p. e dell’art. 1 delle disp. att. c.p.p.
L’azione può essere esercitata soltanto quando siano stati già esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e in ogni caso quando non è più possibile modificare o revocare il procedimento, ovvero se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell’ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno.
A proposito delle tempistiche, l’azione, a seguito della riforma del comma 2 dell’articolo 4 della l. n. 117/1988, va proposta entro tre anni (in luogo dei precedenti due), a pena di decadenza, a partire da quando sia  possibile esperirla, cioè dopo tre anni dalla data in cui il fatto è avvenuto ( se il grado del procedimento in cui si è verificato il fatto non sia ancora concluso), o, nei casi previsti dall’articolo 3 entro tre anni (in luogo dei precedenti due), dalla scadenza del termine entro il quale il magistrato avrebbe dovuto provvedere sull’istanza.
In nessun caso il termine può decorrere nei confronti della parte che, a causa del segreto  istruttorio,  non  abbia  avuto  conoscenza  del fatto.
La l. n. 18/2015 è intervenuta anche sul c.d. “filtro di ammissibilità”, ovvero la previsione contenuta nell’art. 5 della l. n. 117/1988, oggi abrogato, secondo la quale, il tribunale del distretto di corte d’appello, sentite le parti, doveva dichiarare l’ammissibilità o meno della domanda e disporre per la prosecuzione del processo.
Per effetto dell’abrogazione, dunque, viene cancellata la delibazione preliminare di ammissibilità (consistente in un controllo dei presupposti, del rispetto dei termini e della valutazione della fondatezza) dell’azione di risarcimento verso lo Stato.
La rivalsa dello Stato
A seguito dell’accertamento della responsabilità del magistrato, ed entro due anni (in luogo di un anno, come previsto dalla precedente normativa) dal risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale, lo Stato esercita obbligatoriamente l’azione di rivalsa nei confronti dello stesso, ex art. 7, comma 1, l. n. 117/1988, novellato dalla l. n. 18/2015, nel caso di diniego di giustizia, ovvero per violazione manifesta della legge o del diritto dell’Unione Europea nonché per travisamento del fatto o delle prove quando determinati da dolo o negligenza inescusabile.
Viene confermata dalla riforma la sola responsabilità per dolo dei giudici popolari ed estesa quella dei cittadini estranei alla magistratura, che formano o concorrono a formare organi giudiziari collegiali, prima prevista per dolo e colpa grave (solo per l’ipotesi di affermazione o negazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa o meno dagli atti del procedimento), anche all’ipotesi di travisamento del fatto o delle prove.
L’azione è promossa dal Presidente del Consiglio dei Ministri davanti al Tribunale del capoluogo del distretto della Corte d’appello, da determinarsi a norma dell’art. 11 c.p.p. e dell’art. 1 delle norme di attuazione del codice di procedura penale (art. 8 l. n. 117/1988).
Quanto alla misura della rivalsa, il comma 3 come modificato dall’articolo 5 della l. n. 18/2015, eleva la soglia di un terzo precedentemente prevista, disponendo che la stessa “non può superare una somma pari alla metà di una annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l’azione di risarcimento è proposta, anche se dal fatto è derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità”. Tale limite è escluso, tuttavia, se il fatto è stato commesso con dolo.
Analoghe disposizioni si applicano anche agli estranei che partecipano all’esercizio delle funzioni giudiziarie.
Per costoro, la misura della rivalsa è calcolata in rapporto allo stipendio iniziale annuo, al netto delle trattenute fiscali, che compete al magistrato di tribunale, cioè, se l’estraneo percepisce uno stipendio (o un reddito di lavoro autonomo) inferiore, è calcolata in rapporto allo stesso al tempo della proposizione dell’azione di risarcimento.
 
 
 
 
 
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