Interoperabilità dei dati: che cos’è e come ci migliora la vita

Secondo una ricerca ISTAT ogni anno passiamo circa 16 giorni, ovvero quasi 400 ore, in coda ad uno sportello pubblico per ottenere qualche tipo di servizio: il rinnovo della patente, la carta di identità elettronica, un certificato medico, il cedolino della pensione. In pratica più tempo di quanto qualche manager particolarmente occupato trascorra in vacanza.
Peraltro, l’ISTAT potrebbe sbagliarsi per difetto, se penso a quante ore (e quanta salute) ho speso per avere il passaporto per mio figlio minorenne, quest’estate: un vero smacco alla tanto sbandierata digitalizzazione della pubblica amministrazione, considerato che la gestione delle persone in coda come me, le fortunate che erano riuscite a prenotare un appuntamento con l’innovativo sistema dell’agenda passaporto digitale (l’innovazione consiste nel collegarsi con SPID al sito della questura e poi effettuare complicati voti religiosi per trovare uno spazio libero nei diciotto mesi successivi) veniva effettuata da un apposito signore, pensionato delle forze di polizia, che a mano distribuiva numeri scritti a pennarello su un pezzo di cartone ritagliato.
Una qualità di servizio così scadente e così farraginosa ci fa dubitare sull’efficienza e sulla reale utilità della nostra macchina pubblica, ma c’è una cosa che più di ogni altra ogni volta mi stupisce: il fatto che ogni volta, per ogni servizio, il servizio pubblico mi debba chiedere chi sono, dove sono nata, dove risiedo: come se lo Stato non avesse già tutte queste informazioni, come se i miei dati non fossero già trattati da sempre, come se ci fosse bisogno, ogni volta, di chiarire che io sono io.
Perché è tutto così bizantino?
Perché non è ancora attiva, e chissà se mai lo sarà, questa magia che si chiama interoperabilità dei dati della pubblica amministrazione, una specie di miraggio nel deserto, un traguardo irraggiungibile, un sogno che se realizzato si tradurrebbe nella capacità di sistemi e organizzazioni di cooperare per perseguire obiettivi comuni e nel settore pubblico in particolare nella capacità delle amministrazioni di cooperare, scambiare informazioni e rendere più efficiente l’erogazione dei servizi pubblici senza soluzione di continuità attraverso i confini, i settori e le organizzazioni.
Una strada che a vederla così sembra non solo di estremo buon senso, ma anche di facile realizzazione: abbiamo i dati, a tonnellate, abbiamo la tecnologia, a bizzeffe, abbiamo la volontà, non si parla d’altro ormai da anni di questa (benedetta) digitalizzazione della PA, abbiamo i fondi, quelli del PNRR, che cosa ci manca?
Eppure.
Eppure, nonostante l’Europa, cioè l’Unione Europea, spinga da anni verso questa direzione (l’Interoperable Europe Act è la nuova proposta di legge europea che mira creare la struttura e gli strumenti per l’interoperabilità all’interno delle pubbliche amministrazioni a livello di Unione e rimuovere gli ostacoli giuridici, organizzativi, semantici e tecnici che si frappongono alla sua piena realizzazione) è sotto gli occhi di tutti che in Italia questo traguardo è ancora ben lungi dall’essere non solo raggiunto, ma addirittura raggiungibile.
Bisogna superare decenni di “abbiamo sempre fatto così”, di mentalità restia e resistente al cambiamento, bisogna raccogliere una enorme quantità di informazioni, modificare i processi e le procedure, adeguarsi a nuovi modelli e stipulare accordi tra le varie amministrazioni in modo da permettere uno scambio di dati allineato ed una cooperazione strutturata sul lungo periodo per fornire ai cittadini un servizio diverso e migliore, creando un nuovo livello di interazione tra cittadini e Pubblica Amministrazione.
I vantaggi sono piuttosto evidenti: risparmio di tempo per i cittadini e le imprese, alta qualità del servizio fornito per le PA, maggiore accessibilità, efficienza, nuove opportunità di business per pubblico e privato.
Si stima che a livello economico sarebbe possibile risparmiare tra 5,5 e 6,3 milioni di euro per i cittadini e tra 5,7 e 19,2 miliardi di euro per le imprese, mentre in termini di tempo si potrebbero risparmiare fino a 24 milioni di ore per i privati e fino a 30 miliardi per le imprese: se è vero che il tempo è denaro, parliamo di una somma davvero molto elevata.
In quali campi l’interoperabilità dei dati avrebbe maggiori applicazioni?
Innanzi tutto la sanità (basti pensare al fascicolo sanitario elettronico ed alle emergenze che abbiamo dovuto affrontare in tempo di pandemia, che dovrebbero averci insegnato qualcosa in tema di gestione dei dati) e le telecomunicazioni (con sistemi di dialogo delle reti satellitare), ma anche i servizi più vicini ai cittadini come la giustizia, gli affari interni, la fiscalità e catasto, trasporti e dogane, ambiente e agricoltura, welfare.
In tutti questi ambiti l’interoperabilità rappresenta una sfida che va di pari passo con la digitalizzazione e con la maggiore efficienza dei servizi della PA, che renderanno il nostro Paese maggiormente competitivo e dunque anche maggiormente aperto ad eventuali investimenti di capitali stranieri.
Una sfida che non possiamo permetterci di perdere.
 

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