Indennità di disoccupazione, assegno sociale, pensione sociale e di invalidità non sono revocabili per chi sconta la pena in regime alternativo alla detenzione

La decisione in esame è di notevole interesse in quanto, per effetto di questo pronunciamento, non sarà più possibile revocare l’indennità di disoccupazione, l’assegno sociale, la pensione sociale e la pensione per gli invalidi civili nei confronti di coloro che scontano la pena in regime alternativo alla detenzione in carcere.
Indice

Il fatto
Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
Le argomentazioni sostenute dalle parti
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte costituzionale
Conclusioni

Il fatto
In un procedimento di naturale previdenziale, pendente presso il Tribunale di Fermo, si dibatteva in ordine a dei provvedimenti di sospensione, prima, e di revoca, poi, delle prestazioni assistenziali concesse, adottati dall’INPS ai sensi dell’art. 2, comma 61, della legge n. 92 del 2012.
In un altro procedimento, pendente presso il Tribunale di Roma, la fattispecie riguardava una persona titolare di assegno sociale, revocato dall’INPS avendo egli riportato condanne per i reati di cui al comma 58 della medesima legge; con successiva nota del 28 giugno 2018 lo stesso era stato invitato a restituire la somma riscossa a questo titolo in quanto indebitamente corrisposta.
Nella specie, come da una informativa giunta dal Dipartimento della pubblica sicurezza, tale persona risultava essere un ex collaboratore di giustizia e, dal 18 ottobre 2012, in regime di detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter della legge n. 354 del 1975.
Ciò posto, esperito senza riscontro ricorso in via amministrativa, era stata dedotta la natura di sanzione accessoria della revoca e, pertanto, avendo riportato condanne passate in giudicato prima della entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, l’applicazione della sanzione sarebbe stata contraria al principio costituzionale di irretroattività della pena.
Inoltre, evidenziato che a suo beneficio era stata applicata la circostanza attenuante di cui all’art. 8 del d.l. n. 152 del 1991, come convertito, in quanto collaboratore di giustizia, la difesa della parte privata aveva sostenuto che, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata e in ossequio al principio di uguaglianza sostanziale, non avrebbe potuto applicarsi detta sanzione accessoria a chi, già appartenente ad associazione mafiosa, abbia rescisso ogni vincolo, indebolendo con le sue dichiarazioni l’associazione.
Tenuto conto altresì che stava scontando la pena in regime di detenzione domiciliare, persistendo i presupposti intrinseci per la corresponsione del diritto al mantenimento e all’assistenza sociale ai sensi dell’art. 38 Cost., veniva quindi chiesta la condanna dell’INPS a ripristinare il trattamento pensionistico-assistenziale e alla corresponsione delle mensilità sospese e non erogate.
Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
Per quanto concerne il Tribunale di Fermo, questo organo giudicante sollevava, in riferimento agli artt. 3, 25 e 38 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 61, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita).
Le questioni sarebbero state, ad avviso del giudice a quo, senz’altro rilevanti in quanto l’eventuale illegittimità costituzionale delle norme censurate avrebbe comportato il venir meno del presupposto dei suddetti provvedimenti di sospensione e revoca assunti dall’INPS riconoscendo al ricorrente il diritto al ripristino delle prestazioni previdenziali revocategli, indipendentemente dalla dimostrazione in capo allo stesso dell’insussistenza dei mezzi di sostentamento, presupposto non oggetto di specifica contestazione da parte dell’INPS.
Le questioni sarebbero poi state non manifestamente infondate.
In primo luogo, vi sarebbe stata una lesione dell’art. 38 Cost. in quanto, nell’applicarsi a tutti i condannati, senza distinguere tra detenuti e soggetti ammessi a scontare la pena in regime alternativo (come la detenzione domiciliare), la disposizione censurata avrebbe inciso sul diritto al mantenimento e all’assistenza sociale riconosciuto in favore di ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere.
Il soggetto già ammesso al regime di detenzione domiciliare sarebbe stato così privato dell’unico mezzo di assistenza riconosciutogli dall’ordinamento senza nemmeno la possibilità di ripresentare apposita domanda all’INPS per la rivalutazione dei presupposti, atteso che l’art. 2, comma 59, della legge n. 92 del 2012 concede ai soggetti a cui le prestazioni sono state revocate di beneficiare nuovamente delle stesse, previa presentazione di apposita domanda, soltanto dopo che la pena sia stata completamente eseguita.
In secondo luogo, le norme oggetto di censura sarebbero state in contrasto con l’art. 25 Cost. poiché stabilendo la revoca delle prestazioni previdenziali anche nei confronti dei soggetti già condannati con sentenza passata in giudicato, avrebbero violato il principio di irretroattività della legge penale, dovendo essere riconosciuta a tale sanzione, in base a una lettura sostanzialistica, natura penale.
Infine, sarebbe stato leso anche l’art. 3 Cost. in quanto, se applicata senza alcuna distinzione ai collaboratori di giustizia, la disposizione censurata sarebbe risultata irragionevole nel trattare in maniera uniforme ipotesi differenti.
Ciò posto, per quanto attiene invece il Tribunale, tale organo di giustizia sollevava, in riferimento agli artt. 2, 3 e 38, primo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 61, della legge n. 92 del 2012.
Questo giudice a quo riteneva manifestamente infondata la questione in riferimento all’art. 25 Cost. dovendosi escludere che la revoca abbia natura di sanzione penale accessoria, bensì configurandosi come un mero effetto extra-penale della condanna (si richiamava la citata sentenza della Corte di cassazione n. 11581 del 2019).
Non sarebbe stato possibile, invece, procedere a un’interpretazione della norma censurata nel senso di escludere l’applicazione della misura ai collaboratori di giustizia in assenza di qualsiasi indicazione in tal senso da parte della disciplina in questione.
L’esigenza d’incentivare la collaborazione con la giustizia da parte di soggetti coinvolti nelle organizzazioni criminali di stampo mafioso, d’altronde, sarebbe già soddisfatta, oltre che dalla previsione di una specifica circostanza attenuante, da una serie di benefici espressamente contemplati dal legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità nell’individuare i limiti delle misure premiali (art. 9 del d.l. n. 8 del 1991, come convertito).
La questione, però, sarebbe stata rilevante e non manifestamente infondata in riferimento all’art. 38, primo comma, Cost., nonché agli artt. 2 e 3 Cost. atteso che se è vero che il legislatore ha istituito uno speciale statuto di indegnità connesso alla commissione di reati di particolare gravità tali da giustificare, durante l’esecuzione della pena, il venir meno di trattamenti assistenziali che trovano il loro fondamento nel generale dovere di solidarietà dell’intera collettività nei confronti dei soggetti svantaggiati tenuto conto altresì del fatto che la ratio della norma si rinverrebbe anche nella considerazione che ai reati ostativi alla fruizione dei benefici faccia da sfondo l’accumulazione, o comunque il possesso, di capitali illeciti, con quei benefici incompatibili, tuttavia, se la revoca dei benefici, per coloro che scontano la pena in istituto, non comporta il rischio di non poter neppure disporre dei mezzi minimi per alimentarsi e per avere un ricovero, chi versi in regime di detenzione domiciliare correrebbe il concreto rischio di non poter disporre – a causa della condizione di età e della connessa incapacità, presunta ex lege, di svolgere qualsiasi proficuo lavoro – di alcun mezzo di sussistenza il che determinerebbe un pregiudizio per i diritti inviolabili della persona, quali quello all’alimentazione e, in definitiva, alla vita; diritti che sono insuscettibili di patire deroghe o compressioni, non potendo lo statuto d’indegnità giungere fino a porre in pericolo la sopravvivenza del condannato, né la collettività tollerare che al proprio interno vi siano (in forza di legge e non già per mere contingenze di fatto) persone che debbano restare prive del minimo vitale.
Da qui il dubbio di illegittimità costituzionale sull’art. 2, comma 61, della legge n. 92 del 2012, nella parte in cui impone all’INPS la revoca dell’assegno sociale senza possibilità di valutazione delle condizioni personali ed economiche del condannato in regime di detenzione domiciliare.
 Consigliamo

Compendio di Diritto Penale
Fabio Piccioni, 2021, Maggioli Editore
Il testo è aggiornato a: D.Lgs. 75/2020 (lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione); D.L. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni); L. 113/2020 (Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle…

22,00 € 20,90 €
Acquista

su www.maggiolieditore.it –>
Guarda il prezzo su Amazon

Le argomentazioni sostenute dalle parti
Per quanto riguarda il procedimento pendente innanzi al Tribunale di Fermo, si costituiva in giudizio il tutore del ricorrente affermando innanzitutto come quest’ultimo fosse un ex collaboratore di giustizia, condannato per reati commessi dal 1995 al 2003 e attualmente in regime di detenzione domiciliare, nonché portatore di handicap e invalido totale e permanente con conseguente inabilità lavorativa; in virtù delle condizioni di assoluta indigenza economica, inoltre, allo stesso era stato riconosciuto il diritto a percepire la pensione d’invalidità civile.
A decorrere dal mese di maggio 2017 gli era stata revocata detta prestazione con la richiesta di restituzione delle mensilità versate dal 1° marzo 2017.
Di qui l’indiscutibile rilevanza della questione per la decisione nel giudizio a quo sotto il profilo dell’art. 38 Cost. in quanto la pensione d’invalidità civile costituirebbe la sua unica fonte di reddito e non vi sarebbero ulteriori redditi in capo agli altri componenti il nucleo familiare.
Allo stesso modo la questione sarebbe stata rilevante sotto il profilo dell’art. 25 Cost. poiché la normativa censurata istituirebbe una vera e propria sanzione amministrativa accessoria alla condanna penale che non potrebbe essere applicata retroattivamente in considerazione del principio di irretroattività della legge penale.
La normativa in esame, infine, nella parte in cui dispone la revoca dei benefici assistenziali e previdenziali per i condannati per reati di particolare gravità e allarme sociale, non opererebbe alcuna distinzione con riferimento ai collaboratori di giustizia, né alcuna deroga e o esenzione per tale categoria di soggetti, con rilevanza della questione anche sotto il profilo dell’art. 3 Cost..
In punto di non manifesta infondatezza, premetteva la difesa della parte privata che l’art. 2, comma 58, della legge n. 92 del 2012 prevede la revoca dell’indennità di disoccupazione, dell’assegno sociale, della pensione sociale e della pensione per gli invalidi civili, quale sanzione accessoria alla condanna per i reati di cui agli artt. 270-bis, 280, 289-bis, 416-bis, 416-ter e 422 del codice penale, nonché per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo.
Il successivo comma 61, invece, dispone la revoca delle medesime prestazioni e per i medesimi reati nei confronti dei soggetti già condannati con sentenza passata in giudicato all’entrata in vigore della stessa disposizione.
Ciò premesso, in riferimento all’art. 25 Cost., la revoca delle prestazioni rappresenterebbe certamente una sanzione accessoria alla condanna penale posto che sarebbe evidente la natura afflittiva della revoca, anche in termini di sacrificio che il condannato è tenuto a sopportare, privando lo stesso, in assenza di altre forme di assistenza, dei mezzi di sussistenza e mantenimento. La sanzione in oggetto, inoltre, non avrebbe alcuna attinenza o connessione con il reato o i reati commessi, con la conseguenza che la privazione imposta al reo risponderebbe a una finalità di carattere puramente punitivo e non preventivo.
Riconosciuta la natura penale alla sanzione accessoria della revoca delle prestazioni assistenziali, pertanto, troverebbe necessariamente applicazione il principio d’irretroattività della legge penale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., che si applica anche alle pene accessorie (si richiamava la sentenza della Corte di cassazione, sezione quarta penale, 23 novembre 2010 – 27 dicembre, n. 45355) rilevandosi al contempo che siffatto principio, alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, a partire dalla sentenza della grande camera 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi, è comunque applicabile anche alle sanzioni amministrative riconducibili a una sfera lato sensu penale (erano richiamate le sentenze della Consulta n. 276 del 2016, n. 104 del 2014 e n. 196 del 2010).
La disposizione censurata, laddove interpretata nel senso di consentire l’esclusione dall’erogazione del contributo assistenziale anche a soggetti che non versano in stato di detenzione in carcere, sarebbe stata altresì costituzionalmente illegittima per evidente violazione dell’art. 38 Cost., in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., a maggior ragione nei confronti di coloro che scontano la pena in regime alternativo a causa delle gravissime patologie da cui sono affetti e dell’incompatibilità del loro stato di salute con la detenzione in carcere dato che l’art. 38 Cost. prevede che ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale, dettando un principio assoluto che non ammetterebbe deroghe o eccezioni, in stretto collegamento con l’art. 2 Cost., che tutela e garantisce i diritti inviolabili della persona, imponendo un dovere di solidarietà economica e sociale non solo agli individui, ma anche e soprattutto allo Stato.
Il riconoscimento del diritto all’assistenza, secondo la difesa della parte privata, prescinderebbe da qualunque altra valutazione se non il bisogno, convenzionalmente individuato nel mancato possesso di redditi propri superiori ai limiti previsti dalla legge (si richiamavano le sentenze della Corte costituzionale n. 22 del 1969, n. 29 del 1968 e n. 27 del 1965) ed esso si configurerebbe, quindi, come diritto inviolabile, nonché quale strumento di garanzia per la liberazione dal bisogno e per il pieno sviluppo della persona umana (era richiamata la sentenza della Consulta n. 286 del 1987).
In quanto interesse della collettività e compito dello Stato, la sicurezza sociale non potrebbe essere ridotta a mera aspirazione programmatica ma sarebbe un precetto immediatamente applicabile, atto a creare veri e propri diritti di prestazione, operante nell’ordinamento, sia come parametro di legittimità costituzionale, sia come norma di principio esplicante effetti sull’interpretazione dell’ordinamento legislativo (si richiamavano le sentenze della Consulta n. 160 del 1974, n. 80 del 1971 e n. 22 del 1969).
Il legislatore, pertanto, non potrebbe frustrare la protezione prevista dalla Costituzione prevedendo l’attribuzione di benefici insignificanti o l’erogazione di prestazioni irrisorie (era richiamata la sentenza costituzionale n. 497 del 1988), né fissando requisiti troppo gravosi o condizioni vessatorie ai fini del godimento delle prestazioni in oggetto (sono richiamate le sentenze della Corte costituzionale n. 345 del 1999, n. 1143 e n. 206 del 1988).
Pertanto, il diritto alla pensione o all’assegno d’invalidità civile, in quanto misura volta a garantire i mezzi di mantenimento a chi è inabile al lavoro, non potrebbe essere negato tout court sulla base di una qualificazione soggettiva (quella di essere stati condannati per determinati reati) degli aventi diritto, in quanto sarebbe la terminologia stessa della norma «[o]gni cittadino» (estesa, peraltro, anche oltre questo apparente limite dalla sentenza della Consulta n. 432 del 2005) a escludere una tale discriminazione.
Altresì frustrati sarebbero stati i principi di ragionevolezza, proporzionalità e certezza del diritto (venivano richiamate sul punto le sentenze della Corte costituzionale n. 70 del 2015, n. 316 del 2010 e n. 349 del 1985) atteso che il legislatore non potrebbe limitare le prestazioni per determinate categorie di soggetti, ad esempio prevedendo un discrimine fra cittadini e stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato (erano richiamate le sentenze della Consulta n. 22 del 2015 e n. 40 del 2013).
D’altronde, già con la sentenza n. 3 del 1966 il giudice delle leggi aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 28, comma 2, numero 5), cod. pen. ove si prevedeva, per i soggetti nei confronti dei quali fosse disposta l’interdizione perpetua dai pubblici uffici a seguito di sentenza penale di condanna, la perdita di stipendi, pensioni e assegni a carico dello Stato o di un altro ente pubblico.
A tale pronuncia (i cui principi avrebbero trovato conferma nelle sentenze n. 288 del 1983 e n. 83 del 1979), non a caso, ha fatto seguito la legge 8 giugno 1966, n. 424 (Abrogazione di norme che prevedono la perdita, la riduzione o la sospensione delle pensioni a carico dello Stato o di altro Ente pubblico), con cui sono state abrogate tutte quelle disposizioni che prevedevano, a seguito di condanna penale o di provvedimento disciplinare, la riduzione o la sospensione del diritto del dipendente al conseguimento e al godimento della pensione e di ogni altro assegno o indennità da liquidarsi in conseguenza della cessazione del rapporto di dipendenza.
Ove applicata indistintamente anche ai collaboratori di giustizia, la normativa in esame contrasterebbe poi con l’art. 3 Cost. dal momento che detta equiparazione giuridica e normativa non sarebbe giustificata da esigenze di ordine punitivo ed economico e si porrebbe in netto contrasto con tutta la disciplina attinente i collaboratori di giustizia, di cui in particolare al decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8 (Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonché per la protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia), convertito, con modificazioni, in legge 15 marzo 1991, n. 82.
 Consigliamo

Compendio di Diritto Penale
Fabio Piccioni, 2021, Maggioli Editore
Il testo è aggiornato a: D.Lgs. 75/2020 (lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione); D.L. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni); L. 113/2020 (Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle…

22,00 € 20,90 €
Acquista

su www.maggiolieditore.it –>
Guarda il prezzo su Amazon

Tale normativa, infatti, si muoverebbe nella direzione inversa, con una netta distinzione, anche e soprattutto di carattere punitivo, tra coloro che si dissociano dalla criminalità organizzata e coloro che, invece, restano legati dal vincolo di affiliazione col sodalizio criminale organizzato.
Sarebbe dunque irragionevole che lo Stato, per un verso, appresti in favore del collaboratore di giustizia e del suo nucleo familiare sussidi economici per il reinserimento sociale (durante il periodo di collaborazione) e, per altro verso, i medesimi soggetti possano essere esclusi dalle forme di assistenza sociale (all’esito del periodo di collaborazione).
L’applicazione indiscriminata della pena accessoria in esame, imposta senza alcuna considerazione della specificità dei casi concreti, sembrerebbe in definitiva ledere il principio di uguaglianza che impone trattamenti differenziati per situazioni diverse, confliggendo anche con gli artt. 27, terzo comma, e 1 Cost. giacché non consentirebbe, in ordine a detta pena accessoria, l’individualizzazione della sanzione tale da farle assolvere alla sua funzione.
In data 15 settembre 2020 questa difesa presentava inoltre una istanza di riunione del giudizio con quello di cui all’ordinanza iscritta al n. 68 del registro ordinanze 2020 censurando quest’ultima la medesima disposizione e per motivi in buona parte sovrapponibili.
Ciò posto, si costituiva in giudizio anche l’INPS argomentando l’inammissibilità e l’infondatezza delle questioni.
In via preliminare la difesa dell’INPS eccepiva plurime ragioni d’inammissibilità.
In primo luogo, difetterebbe nell’ordinanza di rimessione la ricostruzione completa e sistematica del fatto, non venendo evidenziati i motivi della disposta revoca della prestazione richiesta, né tantomeno se alcune circostanze fattuali, quali la detenzione domiciliare o l’effettiva e comprovata qualità di collaboratore di giustizia, fossero state rilevanti in punto di manifesta infondatezza della questione, in quanto elementi idonei e sufficienti a giustificare un diverso trattamento.
Tali elementi non potrebbero essere desunti, secondo la giurisprudenza costituzionale, dagli atti del giudizio a quo (si richiamavano le sentenze n. 79 del 1996 e n. 451 del 1989, nonché le ordinanze n. 119 del 2002 e n. 300 del 1999, della Consulta), in virtù del principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione (erano richiamate le sentenze n. 310 del 2000 e n. 242 del 1999 e l’ordinanza n. 98 del 1999 della Corte costituzionale).
In secondo luogo, le questioni sarebbero state inammissibili per difetto di rilevanza nel giudizio a quo (si richiamava l’ordinanza n. 282 del 1998 della Consulta) dato che l’eventuale accoglimento non avrebbe potuto condurre alla pronuncia di condanna alla prestazione richiesta nel giudizio a quo non essendo state ivi esaminate dal giudice rimettente le preliminari eccezioni dell’INPS in punto di inammissibilità della domanda giudiziale per mancanza di preventiva domanda amministrativa e assenza di produzione documentale in merito alla qualità di collaboratore di giustizia o di ex collaboratore.
Infine, il giudice a quo avrebbe omesso di effettuare, anche solo in via ipotetica, una possibile interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata, in assenza di ogni pronuncia della Corte di cassazione in sede civile (erano richiamate le ordinanze della Consulta n. 198 del 2013, n. 15 del 2011, n. 322, n. 192 e n. 110 del 2010, n. 310 del 2009 e n. 226 del 2008).
In ogni caso, il comma 61 dell’art 2 della legge n. 92 del 2012 sarebbe stato esente dai dubbi di legittimità costituzionale avanzati dal giudice rimettente.
I commi da 58 a 63 della medesima legge istituiscono uno speciale statuto d’indegnità, connesso alla commissione di taluni reati di particolare allarme sociale.
Alla sua ratio non sarebbe estraneo il rilievo criminologico che ai medesimi reati faccia da sfondo l’accumulazione o comunque il possesso di capitali illeciti incompatibili con i predetti trattamenti (era richiamata Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 15 marzo 2019, n. 11581).
La normativa sopra citata introdurrebbe un distinto regime applicativo del medesimo istituto: quello ai sensi del comma 58, diretto ai soggetti condannati dopo l’entrata in vigore della legge, necessiterebbe inderogabilmente di un previo provvedimento giudiziale; quello di cui al comma 61, rivolto ai soggetti già condannati, prima dell’entrata in vigore della legge, con sentenza passata in giudicato, ne prescinderebbe.
Nel primo caso, si avrebbe una sanzione accessoria, conseguente alla sentenza di condanna per i reati ivi indicati e applicata dal giudice; nel secondo caso una misura, di natura civile, comportante la revoca di una prestazione assistenziale precedentemente erogata, con effetto ex nunc.
Del resto, una diversa interpretazione porrebbe in una situazione di maggior favore taluni condannati rispetto ad altri e, quindi, un’ingiusta disparità, atteso che la ratio della norma del 2012 sarebbe diretta a escludere la prosecuzione dei pagamenti a carico della collettività, in favore di soggetti che siano stati riconosciuti responsabili di reati di particolare allarme sociale.
Non mancherebbero, del resto, interventi di natura civilistica con connotati simili, come l’esclusione dal diritto alla pensione di reversibilità o indiretta ovvero alla liquidazione dell’una tantum per i familiari superstiti condannati con sentenza passato in giudicato, per i delitti di cui agli artt. 575, 584 e 586 cod. pen., in danno dell’iscritto o del pensionato, prevista dall’art. 1, comma 1, della legge 27 luglio 2011, n. 125 (Esclusione dei familiari superstiti condannati per omicidio del pensionato o dell’iscritto a un ente di previdenza dal diritto alla pensione di reversibilità o indiretta), la cui efficacia decorre dall’entrata in vigore della legge.
La disposizione censurata non esigerebbe di essere giustificata sul piano della retroattività poiché essa non regolerebbe in modo nuovo fatti del passato ma disporrebbe per il futuro, attribuendo rilievo di requisito negativo o di condizione ostativa, per i soggetti già condannati con sentenza irrevocabile, all’accesso alle prestazioni assistenziali, il che non implicherebbe altro che l’operatività della legge una volta avvenuta la trasmissione degli elenchi all’ente previdenziale e non una retroattività in senso tecnico (si richiamavano Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 19 dicembre 2018, n. 32781 e la sentenza della Corte costituzionale n. 118 del 1994).
Quand’anche la revoca assumesse natura sanzionatoria, il principio d’irretroattività non sarebbe predicabile nei confronti della disposizione censurata per la sua natura non punitiva, essendo destinata ad assolvere una funzione riparatoria, volta a operare solo in ambito civile.
Ciò troverebbe conferma anche nelle disposizioni di cui al comma 63 dell’art. 2 della legge n. 92 del 2012, che destina le somme dei provvedimenti di revoca al Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura e agli interventi in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata.
Tanto più che il patrimonio netto di tale fondo sarebbe progressivamente diminuito a causa di prelievi delle sue disponibilità per soddisfare le più diverse esigenze del bilancio dello Stato.
La questione risulterebbe inammissibile e infondata anche con riferimento all’art. 38 Cost. visto che la disposizione censurata non attribuirebbe rilievo alcuno alla circostanza che il beneficiario del trattamento assistenziale sconti la pena della reclusione attraverso la misura alternativa della detenzione domiciliare, rilevando sotto tale profilo esclusivamente – ai sensi del comma 59 dell’art 2 della legge n. 92 del 2012 – che la pena sia stata completamente eseguita.
Il rimettente, quindi, non avrebbe correttamente individuato la disposizione censurata posto che lo scrutinio avrebbe dovuto estendersi necessariamente anche al comma 59 del medesimo articolo, con evidenti e susseguenti profili di inammissibilità, giacché sarebbe tale norma a consentire il ripristino del trattamento assistenziale all’effettiva espiazione della pena, sia pure prevedendo la presentazione di nuova domanda amministrativa e il permanere degli elementi costitutivi del diritto.
Escludere l’applicabilità della revoca alla detenzione domiciliare, poi, per l’I.N.P.S., finirebbe per urtare con il medesimo principio di ragionevolezza, creando trattamenti differenziati fra soggetti reclusi e soggetti sottoposti a misure alternative.
La presunta lesione ai principi di solidarietà sociale e di assistenza economica nell’ipotesi della detenzione domiciliare andrebbe valutata, inoltre, pur sempre alla stregua di altrettanti valori aventi pari se non superiore dignità costituzionale, che il legislatore avrebbe inteso salvaguardare in via prevalente (disvalore sociale dell’azione commessa, tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico, esborso economico eccessivo a carico della collettività).
Le finalità di assistenza e solidarietà sociale in favore di tali soggetti che versano in condizioni di bisogno sottese alle prestazioni assistenziali, pertanto, arretrerebbero di fronte al particolare disvalore di condotte gravemente antisociali commesse da quei soggetti, lasciando prevalere altre finalità solidaristiche maggiormente degne di tutela, che non muterebbero nel caso di detenzione domiciliare.
In riferimento all’art 3 Cost, la qualità di ex collaboratore di giustizia non potrebbe mai rilevare e assumere una valenza ai fini del riacquisto di un requisito di meritevolezza se non al prezzo di conferire un’ultrattività alle disposizioni di natura speciale che regolano la collaborazione prestata con lo Stato.
La revoca apparirebbe tutt’altro che irragionevole essendo la finalità della legge censurata proprio quella di una generale riduzione della spesa pubblica anche per mezzo di risparmi diretti nei confronti di soggetti che, per aver commesso reati di particolare allarme sociale, non sarebbero meritevoli del sostegno previsto per chi, invece, non abbia commesso reati di tal genere.
In questa prospettiva la norma si armonizzerebbe con il quadro di valori disegnato dalla Costituzione e con il principio dell’equilibrio di bilancio previsto dall’art. 81 Cost..
Precisato ciò interveniva nel giudizio anche il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni fossero dichiarate inammissibili o comunque infondate.
L’ordinanza di rimessione, in primo luogo, non conterrebbe la descrizione della fattispecie concreta sottoposta al giudizio con conseguente inammissibilità delle questioni alla stregua del costante orientamento della giurisprudenza costituzionale (tra tutte, era richiamata l’ordinanza n. 71 del 2019 della Consulta).
In secondo luogo, le censure sarebbero state comunque infondate nel merito essendo erroneo l’assunto secondo cui la norma censurata violerebbe il divieto di retroattività della legge penale sancito dall’art. 25 Cost., prevedendo, invece, un mero effetto extra-penale della condanna, conseguente al sopravvenuto difetto di un requisito soggettivo per il mantenimento dell’attribuzione patrimoniale di durata, piuttosto che a una pena in senso sostanziale (era richiamata la già citata sentenza della Corte di cassazione n. 11581 del 2019).
Altrettanto infondati sarebbero stati gli altri profili di illegittimità costituzionale prospettati dal rimettente.
Inconferente sarebbe il richiamo all’art. 38 Cost., in relazione all’ipotesi di soggetti ammessi al regime di detenzione domiciliare sol che si consideri che il legislatore avrebbe inteso ricollegare la sospensione dei trattamenti di assistenza sociale eventualmente spettanti alla commissione di reati di consueto caratterizzati dall’accumulazione, o comunque dalla disponibilità, d’ingenti capitali illeciti.
Inoltre, l’istituto della detenzione domiciliare per i collaboratori di giustizia, di cui all’art. 16-nonies del d.l. n. 8 del 1991, come convertito, introdotto dall’art. 14, comma 1, della legge 13 febbraio 2001, n. 45 (Modifica della disciplina della protezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia nonché disposizioni a favore delle persone che prestano testimonianza), rappresenterebbe di per sé un beneficio penitenziario e potrebbe essere discriminatorio trasformarlo in occasione o presupposto per il sorgere o il mantenimento del diritto ad altro tipo di trattamento.
Infine, la citata sentenza della Consulta n. 3 del 1966, pur dichiarando l’illegittimità della privazione degli stipendi, delle pensioni e degli assegni in caso d’interdizione dai pubblici uffici, aveva comunque precisato che «non intende escludere in via assoluta la possibilità di misure del genere di quella in esame a carico di trattamenti economici traenti titolo da un rapporto di lavoro».
In prossimità dell’udienza la difesa del ricorrente e l’INPS avevano presentato memorie ribadendo e integrando le conclusioni rassegnate negli atti di costituzione.
La parte privata, in particolare, oltre a integrare i profili di merito, contestava le eccezioni d’inammissibilità sollevate dall’INPS.
Per quanto sintetica fosse stata l’esposizione dei fatti da parte del giudice a quo, infatti, l’ordinanza di rimessione avrebbe avuto i caratteri di autosufficienza richiesti ai fini dell’esame nel merito e a sostegno dei dubbi di legittimità costituzionale.
Come più volte ribadito dalla Corte costituzionale, del resto, sarebbe sufficiente che il giudice rimettente proponga una motivazione plausibile con riguardo alla rilevanza della questione riconoscendosi finanche forme implicite di motivazione sempreché, dalla descrizione della fattispecie, il carattere pregiudiziale della questione emerga con immediatezza ed evidenza (erano richiamate le sentenze n. 120 del 2015, n. 201 del 2014 e n. 369 del 1996).
Con specifico riferimento all’eccezione d’irrilevanza, il ricorrente nel giudizio a quo avrebbe promosso senza riscontro il preventivo ricorso amministrativo non potendo, peraltro, attestare l’estinzione della pena, condizione richiesta dalla norma in questione per il ripristino della misura assistenziale e, proprio per questo, si sarebbe trovato costretto a ricorrere alla competente autorità giudiziaria.
Quanto alla presunta carenza dei presupposti socio-economici, il ricorrente prudenzialmente avrebbe prodotto in giudizio tutta la documentazione anagrafica e reddituale attestante la sussistenza delle condizioni per il mantenimento del beneficio assistenziale.
In riferimento alla mancata prova ad opera della parte privata nel giudizio a quo sulla qualità di collaboratore di giustizia e sulla cessazione di tale status, tale qualità sarebbe emersa per tabulas dall’esame del cumulo giuridico in atti dal quale si evincerebbe che l’interessato aveva più volte beneficiato dell’attenuante a effetto speciale di cui all’art. 8 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, in legge 12 luglio 1991, n. 203, prevista unicamente per i collaboratori di giustizia ammessi allo speciale programma di protezione, a differenza di altre attenuanti a effetto speciale.
Inoltre, dall’esame del provvedimento di cumulo in atti, si evincerebbe che il soggetto, pur essendo stato condannato a una pena complessiva di oltre 22 anni di reclusione, era stato ammesso a scontare la pena in regime alternativo della detenzione domiciliare ex art. 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) e la qual cosa sarebbe stata possibile unicamente grazie all’operatività della speciale normativa prevista per i collaboratori di giustizia.
Quanto alla cessazione di tale status, fermo restando che nel corso del giudizio a quo il ricorrente avrebbe dedotto e comprovato di aver richiesto invano al Servizio centrale di protezione del Ministero della giustizia di attestare tale circostanza, tanti e tali sarebbero gli elementi presenti negli atti del giudizio a quo da non potersene dubitare.
Nel merito, in riferimento alla violazione dell’art. 25 Cost., la fattispecie in esame non sarebbe stata qualificabile come un mero effetto extra-penale della condanna ma come una vera e propria pena accessoria (era richiamata la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, 20 marzo 2018, in causa C-524/15).
In riferimento alle censure relative agli artt. 38, nonché 2 e 3 Cost., nel caso dei collaboratori di giustizia, non sarebbe vero che la ratio della norma possa rinvenirsi anche nella considerazione che ai reati ostativi alla fruizione dei benefici faccia da sfondo l’accumulazione, o comunque il possesso, di capitali illeciti, con quei benefici incompatibili posto che, per poter essere ammessi al programma di protezione, è necessario versare il danaro frutto di attività illecite, specificando dettagliatamente tutti i beni posseduti o controllati e le altre utilità, i quali sono soggetti all’immediato sequestro da parte dell’autorità giudiziaria.
Ciò posto, venendo alla memoria dell’INPS, la stessa si soffermava in particolare sulle ragioni di non fondatezza delle questioni.
In primo luogo, l’Istituto precisava come la revoca della prestazione assistenziale non abbia effetto retroattivo e vi sia la possibilità, una volta espiata la pena, di accedere nuovamente al beneficio, laddove soccorrano gli altri presupposti voluti dalla legge.
Tale scelta terrebbe conto del fine rieducativo della pena ossia del completamento del percorso di risocializzazione volto al recupero e al reinserimento del reo nella società.
In secondo luogo, la disposizione in esame non si sarebbe posta in contrasto con l’art. 38 Cost. visto che la scelta del legislatore sarebbe stata il frutto di un bilanciamento fra diversi principi costituzionali in primis quelli volti all’attuazione degli inderogabili doveri di solidarietà della comunità statale (art. 2 Cost.) nei confronti di chi, a causa delle azioni di associazioni terroristiche e mafiose, abbia sofferto pregiudizio o abbia sacrificato la vita; il che sarebbe comprovato dal vincolo di destinazione delle somme all’apposito fondo delle vittime.
D’altronde, tutte le prestazioni assistenziali sarebbero frutto di un corrispettivo solidaristico, per quanto doverosamente offerto al progresso materiale o spirituale del Paese da parte di ciascun soggetto, e rappresenterebbero pur sempre un riconoscimento e una valorizzazione del concorso dell’assistito al progresso della società attraverso la sua partecipazione sociale (art. 4 Cost.), circostanza questa certamente non ricorrente in soggetti ritenuti colpevoli di siffatti gravi reati.
Né potrebbe rilevare il fatto che il condannato fosse stato ammesso alla misura alternativa della detenzione domiciliare.
Trattandosi di un beneficio a istanza di parte, infatti, l’interessato avrebbe dovuto astrattamente prevedere che, in ragione del crimine commesso, non avrebbe potuto fare affidamento sulla prestazione assistenziale tenuto conto altresì del fatto che, ai sensi dell’art. 47-ter, comma 5, della legge n. 354 del 1975, «[n]essun onere grava sull’amministrazione penitenziaria per il mantenimento, la cura e l’assistenza medica del condannato che trovasi in detenzione domiciliare».
Con riferimento alla condizione di collaboratore di giustizia, infine, la stessa rileverebbe solo ed esclusivamente nell’ambito del processo penale e nei limiti dell’accordo tra l’imputato e lo Stato e non, invece, in ambito civile, avendo il legislatore subordinato la corresponsione della provvidenza all’effettiva espiazione della pena.
Un’eventuale diversità di trattamento, inoltre, si presterebbe alle medesime censure d’illegittimità costituzionale introducendo un ulteriore beneficio, non previsto dalla legislazione emergenziale, discriminatorio nei confronti di chi tale collaborazione non abbia prestato.
Chiarite le argomentazioni sostenute in questo procedimento dalle parti, per quanto attiene l’altro, ossia quello pendente innanzi al Tribunale di Roma, si costituiva in giudizio l’INPS sostenendo l’inammissibilità e l’infondatezza delle questioni, con argomentazioni per buona parte analoghe a quelle di cui all’atto di costituzione nel giudizio relativo all’ordinanza n. 234 del 2019.
In primo luogo, la difesa dell’INPS eccepiva l’inammissibilità della questione per contraddittorietà della motivazione atteso che il rimettente, da un lato, affermerebbe che la disposizione in esame abbia inciso nella materia dell’assistenza, introducendo un nuovo requisito negativo per l’insorgenza del diritto alla percezione dell’assegno sociale, dall’altro, riterrebbe irrilevante tale requisito.
In secondo luogo, la questione risulterebbe essere infondata.
D’altronde, anche per il reddito di cittadinanza, regolato dal decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26, la cui ratio sarebbe pressoché identica a quella dell’assegno sociale, il beneficio è da sospendersi non solo in caso di condanna penale per particolari reati, ma anche nell’ipotesi di custodia cautelare.
Sul punto la Consulta, con la sentenza n. 122 del 2020, muovendo dal presupposto che il provvedimento di sospensione altro non è che la conseguenza del venir meno di un requisito necessario alla concessione del beneficio, ha affermato che esso rientra per ciò stesso tra i casi in cui la giurisprudenza costituzionale riconosce la legittimità di sospensione, revoca o decadenza, anche attraverso meccanismi automatici.
La sospensione è così espressione di una scelta discrezionale del legislatore nel determinare i destinatari di un beneficio economico che non si presenta affetta da quella irrazionalità «manifesta e irrefutabile» che impone la declaratoria d’illegittimità costituzionale.
Ciò posto, interveniva nel giudizio anche il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e infondate.
Nel richiamarsi alle osservazioni di cui all’atto d’intervento relativo al giudizio sull’ordinanza n. 234 del 2019, l’Avvocatura premetteva che l’assegno sociale è una prestazione assistenziale che ha sostituito la precedente pensione sociale prevista a tutela dei cittadini anziani e bisognosi alla assistenza, in attuazione del primo comma dell’art. 38 Cost. (si richiama la sentenza di questa Corte n. 157 del 1980).
L’assegno sociale costituisce così una nuova prestazione assistenziale, erogata agli ultrasessantacinquenni per far fronte al particolare stato di bisogno derivante dall’indigenza, risultando altre prestazioni – assistenza sanitaria, indennità di accompagnamento – preordinate a soccorrere lo stato di bisogno derivante da grave invalidità o non autosufficienza, insorte in un momento nel quale non vi è più ragione per annettere significato alla riduzione della capacità lavorativa, elemento che, per contro, caratterizza le prestazioni assistenziali in favore dei soggetti infrasessantacinquenni (era richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 12 del 2019).
Nondimeno, il legislatore può legittimamente prevedere specifiche condizioni per il godimento delle prestazioni assistenziali eccedenti i bisogni primari della persona, purché tali condizioni non siano manifestamente irragionevoli né intrinsecamente discriminatorie.
Così, ad esempio, non sarebbe manifestamente irragionevole che il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo sia il presupposto per godere dell’assegno sociale (così la sentenza di questa Corte n. 50 del 2019).
Ciò premesso, la legge n. 92 del 2012 non indica il limite temporale entro il quale individuare il passaggio in giudicato della sentenza ai fini della revoca dell’assegno sociale; tuttavia, sarebbe evidente che il legislatore abbia inteso far riferimento ai soggetti condannati con sentenza passata in giudicato alla entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, o al massimo con sentenza passata in giudicato nei successivi tre mesi (si richiama Tribunale di Catania, sezione lavoro, sentenza 15 gennaio 2020).
Con riferimento al caso di specie, il soggetto in questione risultava in regime di detenzione domiciliare dal 18 ottobre 2012, data successiva all’entrata in vigore della legge in esame (18 luglio 2012).
Al momento di presentare l’istanza diretta a ottenere il beneficio della detenzione domiciliare, quindi, l’interessato avrebbe dovuto almeno astrattamente sapere che tale scelta non sarebbe stata accompagnata dal supporto assistenziale dell’assegno INPS in ragione del tipo di crimine per il quale era stato condannato.
Peraltro, la revoca dell’assegno sociale è correlata alla durata della pena da scontare.
Nell’ordinanza di rimessione, invece, non sarebbe dato conoscere il periodo residuo di pena da scontare, potendosi solo evincere che nelle condizioni in cui versa il ricorrente, sarebbe precluso l’accesso a qualsivoglia misura assistenziale.
Infine, non sarebbe stata valutata la possibilità (contemplata dall’art. 47-ter della legge n. 354 del 1975) di espiare la pena presso un istituto pubblico (alternativo alla propria abitazione) idoneo all’esecuzione della pena.
Dal complesso degli argomenti, pertanto, avrebbe dovuto dedursi l’inammissibilità della questione.
La pronuncia invocata del giudice a quo, inoltre, mirando al mantenimento di una prestazione a carico dello Stato in favore del condannato in regime di detenzione domiciliare, dovrebbe assimilarsi a quelle additive di prestazione, con inevitabili ricadute sul sistema finanziario (art. 81 Cost.).
Il minor risparmio, in particolare, andrebbe a incidere sul Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso.
Aspetti la cui regolazione rientrerebbe nella discrezionalità del legislatore.
In prossimità dell’udienza l’INPS aveva depositato una memoria in buona parte analoga a quella presentata nel giudizio di cui al n. 234 del registro ordinanze 2019.
Con particolare riferimento all’assegno sociale, benché si tratti di una prestazione a carattere assistenziale, finalizzata a sovvenire ai bisogni essenziali di vita di chi si trovi in uno stato di disagio economico, essa sarebbe pur sempre condizionata dalla percezione di redditi non ostativi – non solo dell’aspirante, ma anche del coniuge – e subordinata all’assolvimento dell’obbligo di comunicazione dei dati reddituali.
Inoltre, l’art. 47-ter della legge n. 354 del 1975 consentirebbe al condannato ultrasettantenne, che versi in stato di bisogno, di accedere al beneficio della detenzione domiciliare in un luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza.
 Consigliamo

Compendio di Diritto Penale
Fabio Piccioni, 2021, Maggioli Editore
Il testo è aggiornato a: D.Lgs. 75/2020 (lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione); D.L. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni); L. 113/2020 (Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle…

22,00 € 20,90 €
Acquista

su www.maggiolieditore.it –>
Guarda il prezzo su Amazon

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte costituzionale
Per quanto attiene l’ordinanza di rimessione emessa dal Tribunale di Fermo, in riferimento alle eccezioni sollevate avverso di essa dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), costituito in giudizio, e del Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio e rappresentato per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, per incompleta ricostruzione del fatto – non emergendo dall’ordinanza di rimessione i motivi della revoca della prestazione richiesta, né la rilevanza di talune circostanze fattuali – e per difetto di rilevanza, non essendo state esaminate nel giudizio a quo le preliminari eccezioni in punto di inammissibilità della domanda giudiziale per mancanza di preventiva domanda amministrativa e dei presupposti socio-economici del beneficio, esse venivano stimate fondate atteso che – una volta fatto presente che l’ordinanza di rimessione risultava essere molto concisa e lacunosa rinviando alle questioni di legittimità costituzionale come indicate dalla parte ricorrente nel ricorso introduttivo del giudizio a quo con particolar riguardo, quanto ai provvedimenti di sospensione e revoca della pensione d’invalidità civile da parte dell’INPS, alla circostanza che agli stessi era fatto un mero cenno senza tra l’altro precisare neppure quale sia la prestazione assistenziale revocata – non erano state specificate le ragioni alla base del provvedimento dell’INPS quali gli estremi della condanna irrevocabile antecedente all’entrata in vigore della disposizione impugnata – per uno dei reati ivi previsti – né le modalità con cui è stato applicato il provvedimento di revoca, né la sua decorrenza temporale.
Oltre a ciò, veniva inoltre fatto presente come non fosse stato fatto un espresso riferimento alla qualità di ex collaboratore di giustizia della parte privata, parimenti costituitasi in giudizio per mezzo del suo tutore, né all’espiazione della pena in regime di detenzione domiciliare.
Quanto alle condizioni economiche del ricorrente nel giudizio principale, anche per queste, ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, non vi era alcuna specificazione dal momento che l’ordinanza in questione nulla diceva riguardo alla previa domanda amministrativa da parte del ricorrente nel giudizio a quo, nonché al possesso da parte dello stesso dei presupposti socio-economici del beneficio economico oggetto di revoca.
Com’è noto, invero, gli elementi essenziali, ai fini della rilevanza della questione, non possono essere desunti dagli atti del giudizio a quo (sentenze n. 79 del 1996 e n. 451 del 1989; ordinanze n. 119 del 2002 e n. 300 del 1999) dovendo la motivazione della stessa ordinanza risultare autosufficiente a individuare i presupposti del giudizio di legittimità costituzionale (sentenza n. 310 del 2000; ordinanze n. 242 e n. 98 del 1999).
Nel caso di specie, come sottolineato, tali elementi non si trovavano nell’ordinanza di rimessione ma, al più, potevano essere desunti, e solo in parte, dagli ulteriori atti di causa.
Tali lacune, di conseguenza, per il giudice delle leggi, comportavano l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Fermo.
Premesso ciò, per quanto concerne l’ordinanza emessa dal Tribunale di Roma, in via preliminare, era rigettata l’eccezione d’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevata dalla difesa dell’INPS costituito in giudizio per contraddittorietà della motivazione poiché il rimettente, da un lato, avrebbe affermato l’incidenza della disposizione censurata sulla materia dell’assistenza, introducendo un nuovo requisito negativo per l’insorgenza del diritto alla percezione dell’assegno sociale, dall’altro, avrebbe ritenuto irrilevante tale requisito e ciò in ragione del fatto che il giudice a quo aveva riconosciuto alla disposizione impugnata la natura di nuovo requisito ostativo al mantenimento della provvidenza economica ma aveva ritenuto tale previsione – se applicata indistintamente e senza poter tener conto di specifiche situazioni personali dei soggetti interessati, specie quelli in stato di detenzione domiciliare – idonea a determinare una violazione dell’art. 38 Cost..
Non si ravvisavano, pertanto, per la Consulta, elementi di contraddittorietà nella motivazione dell’ordinanza di rimessione.
Precisato ciò, parimenti non fondate erano considerate le eccezioni d’inammissibilità sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri intervenuto in giudizio e rappresentato per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato – tra l’altro formulate in stretta correlazione con le argomentazioni di merito – in quanto non sarebbe stata valutata la possibilità per il condannato di scontare la detenzione domiciliare in un istituto pubblico ex art. 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), né verrebbe indicato dal rimettente il quantum della pena residua da scontare.
Da una parte, infatti, la possibilità di scontare la detenzione domiciliare in istituti pubblici non rileva nel giudizio a quo atteso che tale previsione legislativa, al più, potrebbe costituire motivo di non fondatezza delle questioni e non d’inammissibilità delle stesse.
Dall’altra parte, il fatto che l’ordinanza di rimessione non indichi la parte residua della pena da scontare non risulta rilevante potendosi comunque desumere che il condannato si trova in regime di detenzione domiciliare e, dunque, in una modalità di espiazione della pena incompatibile ai sensi della disposizione censurata, con l’erogazione dell’assegno sociale.
Nel merito le questioni erano stimate fondate per le seguenti ragioni.
Al fine di poter meglio inquadrare la natura del provvedimento di revoca di cui alla disposizione censurata, la Corte costituzionale riteneva innanzitutto opportuno ricostruire la disciplina complessivamente prevista dall’art. 2, commi da 58 a 61, della legge n. 92 del 2012 nei seguenti termini: “Il comma 58 dispone che, nel pronunciare condanna per taluni reati di particolare allarme sociale – quali i reati di associazione terroristica, attentato per finalità terroristiche o di eversione, sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, associazione di stampo mafioso, scambio elettorale, strage e delitti commessi per agevolare le associazioni di stampo mafioso – il giudice applichi, in sentenza, la sanzione accessoria della revoca di una serie determinata di prestazioni assistenziali, ossia l’indennità di disoccupazione, l’assegno sociale, la pensione sociale e la pensione per gli invalidi civili. Il comma 59 stabilisce che l’erogazione di tali provvidenze possa essere ripristinata, a domanda dell’interessato e ove ne sussistano i presupposti previsti dalla normativa di riferimento, una volta espiata la pena. Il comma 60 impone l’obbligo di tempestiva comunicazione all’ente previdenziale competente dei provvedimenti adottati ai sensi del comma 58, ai fini della loro immediata esecuzione. Il comma 61, oggetto di censura, infine, prevede che, entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, il Ministro della giustizia, d’intesa con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, trasmetta agli enti titolari dei relativi rapporti l’elenco dei soggetti già condannati con sentenza passata in giudicato per i reati di cui al comma 58, ai fini della revoca, con effetto non retroattivo, delle prestazioni previste dal medesimo comma 58, primo periodo”.
Terminato questo excursus normativo, i giudici di legittimità costituzionale osservavano come l’intervento del legislatore avesse creato, in tal modo, uno “statuto d’indegnità” per la percezione di determinare provvidenze pubbliche da parte di chi sia risultato colpevole di peculiari delitti secondo un’impostazione rinvenibile anche in altre disposizioni legislative tra le quali, ad esempio, quelle sul reddito di cittadinanza previste dal decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26), già oggetto d’esame da parte di questa Corte (sentenze n. 126 del 2021 e n. 122 del 2020).
La devoluzione dei risparmi di spesa al Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura e agli interventi in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata, inoltre, per la Corte, pare configurare l’intervento legislativo anche quale concorso al finanziamento di tale fondo, considerato il progressivo depauperamento dello stesso (come ricordato dall’atto di costituzione dell’INPS).
Ciò precisato, l’art. 38, primo comma, Cost. prevede che ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale, configurando così un dovere di solidarietà economica e sociale in capo allo Stato e alla comunità complessivamente intesa.
Ebbene, veniva fatto presente come, sin dalle sue più risalenti pronunce, la Consulta abbia sottolineato che il primo comma dell’art. 38 Cost. configura un dovere di solidarietà che deve informare la normativa della pubblica assistenza e beneficenza a favore di chi versi in condizioni di indigenza per inabilità allo svolgimento di una attività remunerativa, prescindendosi da precorse qualità e situazioni personali e da servizi resi allo Stato.
Il secondo comma, invece, anch’esso ispirato a criteri di solidarietà sociale, ma con speciale riguardo ai lavoratori, impone che in caso di eventi, i quali incidono sfavorevolmente sulla loro attività lavorativa, siano a essi assicurate provvidenze atte a garantire la soddisfazione delle esigenze di vita (tra le tante, sentenze n. 22 del 1969 e n. 27 del 1965).
Il dovere di cui al primo comma, a sua volta, si esprime attraverso specifiche misure di assistenza economica basate principalmente sullo stato di bisogno del beneficiario.
Tra queste rientra senz’altro l’assegno sociale, oggetto del giudizio a quo, di cui all’art. 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare) trattandosi di una provvidenza che ha sostituito la pensione sociale, erogata a soggetti con età superiore a 65 anni (dal 1° gennaio 2019 superiore a 67 anni), in possesso di un reddito al di sotto delle soglie stabilite annualmente dalla legge.
Tale prestazione assistenziale è volta a far fronte a un particolare stato di bisogno derivante dall’indigenza, risultando invece altre prestazioni sociali – quali, ad esempio, l’assistenza sanitaria o l’indennità di accompagnamento − preordinate a soccorrere lo stato di bisogno derivante da grave invalidità o non autosufficienza (sentenze n. 12 del 2019 e n. 400 del 1999).
Proprio l’erogazione al solo scopo di far fronte allo stato di bisogno evidenzia la natura meramente assistenziale dell’assegno sociale che pertanto si differenzia da altre provvidenze, motivate anche da ulteriori finalità, come il già ricordato reddito di cittadinanza, che non ha natura meramente assistenziale ma anche di reinserimento lavorativo e per tali ragioni legato a più stringenti requisiti, obblighi e condizioni (sentenza n. 126 del 2021).
Vero è che il legislatore può legittimamente circoscrivere la platea dei beneficiari delle stesse prestazioni sociali purché le sue scelte rispettino rigorosamente il canone di ragionevolezza trattandosi di provvidenze a tutela di soggetti fragili dato che le eventuali limitazioni all’accesso devono esprimere un’esigenza chiara e razionale, senza determinare discriminazioni (sentenze n. 50 del 2019, n. 166 del 2018, n. 133 del 2013 e n. 432 del 2005).
Da quanto appena enunciato la Corte costituzionale giungeva alla conclusione secondo cui la possibilità di modulare la disciplina delle misure assistenziali non può pregiudicare quelle prestazioni che si configurano come misure di sostegno indispensabili per una vita dignitosa, come la pensione d’inabilità civile, diretta al sostentamento della persona nonché alla salvaguardia di condizioni di vita accettabili e alla tutela di bisogni primari della persona, al fine di garantire un minimo vitale di sussistenza a presidio del nucleo essenziale e indefettibile del diritto al mantenimento, garantito a ogni cittadino inabile al lavoro (sentenza n. 152 del 2020) così anche per le provvidenze destinate al soddisfacimento di bisogni primari e volte alla garanzia per la stessa sopravvivenza, come l’indennità di comunicazione o quella di accompagnamento, nonché la pensione per i ciechi o per i sordi, la cui attribuzione comporta il coinvolgimento di una serie di principi, tutti di rilievo costituzionale (tra cui l’art. 2 Cost.) (venivano richiamate le sentenze n. 230 e n. 22 del 2015, n. 40 del 2013 e n. 187 del 2010).
Per la percezione dell’assegno sociale, in particolare, il giudice delle leggi ha ritenuto ammissibile la fissazione di specifiche condizioni quale il possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo dell’Unione europea, condizione esclusa, invece, per le prestazioni sopra indicate (sentenza n. 50 del 2019) fermo restando che si trattava però di condizioni non irragionevoli in quanto espressive della necessità per lo straniero extra-comunitario di comprovare, ai fini dell’accesso a una provvidenza non legata allo stato di salute, un inserimento stabile nella nostra società.
Ciò premesso, ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, la revoca dei trattamenti assistenziali di cui alla disposizione oggetto di censura – ivi inclusa la specifica provvidenza in discussione nel giudizio a quo – può concretamente comportare il rischio che il condannato ammesso a scontare la pena in regime di detenzione domiciliare o in altro regime alternativo alla detenzione in carcere, poiché non a carico dell’istituto carcerario, non disponga di sufficienti mezzi per la propria sussistenza.
Lo “statuto d’indegnità” definito dal legislatore pone in pericolo, in tal modo, la stessa sopravvivenza dignitosa del condannato, privandolo del minimo vitale, in violazione dei principi costituzionali (artt. 2, 3 e 38 Cost.), su cui si fonda il diritto all’assistenza.
Invero, se è vero che i condannati per i reati di cui all’art. 2, comma 58, della legge n. 92 del 2012 hanno gravemente violato il patto di solidarietà sociale che è alla base della convivenza civile, tuttavia, per la Consulta, attiene a questa stessa convivenza civile che ad essi siano comunque assicurati i mezzi necessari per vivere mentre ciò non accade qualora la revoca riguardi il condannato ammesso a scontare la pena in regime alternativo al carcere che deve quindi sopportare le spese per il proprio mantenimento le quali, ove egli sia privo di mezzi adeguati, potrebbero essere garantite solo dalle ricordate provvidenze pubbliche.
Proprio tale diversità di effetti della revoca delle prestazioni sociali su chi si trova in stato di detenzione domiciliare (o in altra forma alternativa di espiazione della pena) rispetto a chi è detenuto in carcere, determina, per il giudice delle leggi, una violazione anche dell’art. 3 Cost. trattando allo stesso modo situazioni soggettive del tutto differenti.
Tener conto di tale diversità di situazioni, anzi, per la Corte, risulta presumibilmente coerente con la stessa volontà dell’intervento legislativo che ha stabilito l’incompatibilità tra determinate provvidenze pubbliche e l’essere stati condannati in via definitiva per reati giudicati particolarmente gravi poiché è ben possibile che per tali reati il legislatore abbia pensato alla sola detenzione in carcere come regime di espiazione della pena, senza quindi prevedere deroghe allorché ricorrano peculiari situazioni, legate all’età avanzata del condannato, alla presenza di precarie condizioni di salute, nonché, per particolari reati quali quelli di cui al giudizio a quo, anche alla collaborazione con la giustizia.
Risultava essere così violato, per la Consulta, lo stesso principio di ragionevolezza perché l’ordinamento valuta un soggetto meritevole di accedere forme alternative di detenzione ma lo priva poi dei mezzi per vivere, ottenibili, in virtù dello stato di bisogno, solo dalle prestazioni assistenziali.
I giudici di legittimità costituzionale, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, dichiaravano l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 61, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), nella parte in cui prevede la revoca delle prestazioni, comunque denominate in base alla legislazione vigente, quali l’indennità di disoccupazione, l’assegno sociale, la pensione sociale e la pensione per gli invalidi civili, nei confronti di coloro che scontino la pena in regime alternativo alla detenzione in carcere nonché l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 58, della legge n. 92 del 2012, nella parte in cui prevede la revoca delle prestazioni, comunque denominate in base alla legislazione vigente, quali l’indennità di disoccupazione, l’assegno sociale, la pensione sociale e la pensione per gli invalidi civili nei confronti di coloro che scontino la pena in regime alternativo alla detenzione in carcere.
Conclusioni
La decisione in esame è di notevole interesse in quanto, per effetto di questo pronunciamento, non sarà più possibile revocare l’indennità di disoccupazione, l’assegno sociale, la pensione sociale e la pensione per gli invalidi civili nei confronti di coloro che scontano la pena in regime alternativo alla detenzione in carcere.
Difatti, come appena visto, con tale pronuncia, la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimi i commi 58 e 61 dell’art. 2 della legge n. 92/2012 proprio nella parte in cui consentivano ciò.
Fermo restando che colui che scrive condivide tale esito decisorio in quanto rispondente ad un condivisibile principio di civiltà giuridica, ossia quello secondo cui, come risulta in questo medesimo provvedimento, la necessità di assicurare mezzi necessari per vivere a favore di costoro rappresenta un mezzo attraverso il quale garantire una convivenza civile tra consociati tra i quali non possono non essere annoverati anche coloro che hanno gravemente violato tale patto di convivenza ma che comunque hanno espiato la pena e sono messi condizione di usufruire di una misura alternativa alla detenzione (tanto è vero che sono stati ammessi a beneficiarne), tale pronuncia non potrà che essere presa nella dovuta considerazione dalle autorità competenti non potendosi più revocare le prestazioni suddette per il sol fatto di scontare una pena in regime alternativo alla detenzione.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in cotale sentenza, per le ragioni appena enunciate, quindi, non può che essere positivo.
 Consigliamo

Compendio di Diritto Penale
Fabio Piccioni, 2021, Maggioli Editore
Il testo è aggiornato a: D.Lgs. 75/2020 (lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione); D.L. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni); L. 113/2020 (Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle…

22,00 € 20,90 €
Acquista

su www.maggiolieditore.it –>
Guarda il prezzo su Amazon

Diventa autore di Diritto.it
Scopri di più!

Ti potrebbe interessare anche

L’art.341 bis reato plurioffensivo?

di Raffaele Vitolo
17 settembre 2020

Reato di favoreggiamento personale

di Ilaria Parlato
14 aprile 2020

Come deve essere inteso il fatto in materia di correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza

di Di Tullio D’Elisiis Antonio
19 agosto 2021

Il Revenge Porn

di Concas Alessandra
23 luglio 2021

The post Indennità di disoccupazione, assegno sociale, pensione sociale e di invalidità non sono revocabili per chi sconta la pena in regime alternativo alla detenzione appeared first on Diritto.it.
Source: Diritto.it