Imposta di registro: interpretazione degli atti

L’art. 20 D.P.R. 131/1986, rubricato «interpretazione degli atti», dispone che l’imposta di registro è applicata «secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente».
La regola è dichiaratamente interpretativa, quindi, si riferisce agli atti nella loro oggettività ermeneutica, prescindendo da qualunque riferimento all’eventuale disegno o intento elusivo delle parti.
Non è possibile qualificare la disposizione della legge di registro come disposizione antielusiva senza forzarne la struttura normativa, introducendovi un elemento estraneo, appunto, l’elusività fiscale, che viceversa corrisponde solo a un’eventualità della fattispecie.
Come norma interpretativa, l’art. 20 D.P.R. 131/1986 è una norma di «qualificazione» degli atti, che non si sovrappone all’autonomia privata dei contribuenti, ma si limita a definirne l’esercizio insieme agli altri canoni legali di ermeneutica negoziale.
Dunque, seppur corrente nel lessico della prassi, l’espressione «riqualificazione» degli atti appare tecnicamente impropria ed accettabile soltanto in chiave descrittiva.
 
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Individuata da una parte della dottrina come oggetto di critica in funzione garantistica, la «teoria della riqualificazione» non è altro che il portato applicativo di un criterio legale di interpretazione, ciò che dissolve il ricorrente timore di un qualche vulnus al principio di legalità nella distribuzione dei carichi pubblici.
La prevalenza interpretativa che l’art. 20 D.P.R. 131/1986 attribuisce alla causa effettiva dell’atto rispetto alla causa cartolare non viola la riserva di legge sancita dall’art. 23 Cost., né elude la garanzia fornita all’autonomia privata dall’art. 41 Cost., poiché l’interpretazione opera soltanto in chiave qualificativa dell’agire negoziale (Cass. 19 giugno 2013, n. 15319, Rv. 627196).
La qualificazione interpretativa prescritta dall’art. 20 D.P.R. 131/1986 ha ad oggetto la causa dell’atto, nella sua dimensione reale e concreta (“la intrinseca natura anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”).
Una parte della dottrina enfatizza il riferimento normativo agli effetti «giuridici» degli atti, aggettivazione mancante nel testo dell’art. 8 r.d. 3269/1923, introdotta nella dizione dell’art. 19 D.P.R. 634/1972 e confermata dall’art. 20 D.P.R. 131/1986.
Con questa opzione terminologica il legislatore intese dirimere la controversia provocata dalla disposizione del 1923, la cui ambiguità aveva alimentato il dubbio che non gli effetti giuridici rilevassero ai fini dell’imposta di registro, bensì gli effetti economici, come sostenuto invero dalla scuola tributaristica pavese (c.d. teoria del sostrato economico).
In realtà, una dicotomia assoluta tra effetti giuridici ed effetti economici del negozio può giustificarsi soltanto nella prospettiva dell’atto isolato e della causa tipica.
Quando gli atti sono plurimi e funzionalmente collegati, quando cioè la causa tipica di ciascuno è in funzione di un programma negoziale che la trascende, non può rilevare che la causa concreta dell’operazione complessiva.
In termini generali, da oltre un decennio (quantomeno da Cass. 8 maggio 2006, n. 10490, Rv. 592154), la giurisprudenza di legittimità ha rivisitato in senso critico la teoria della «causa tipica» e si è accostata alla teoria della «causa concreta», ridefinendo la causa negoziale come la sintesi degli interessi oggettivati nell’operazione economica, prescindente dall’astrattezza giuridico-formale del tipo.
Che l’imposta di registro possa e debba viceversa configurarsi come «imposta di negozio» correlata alla causa concreta dell’operazione è un corollario immediato del principio costituzionale di capacità contributiva (Cass. 25 febbraio 2002, n. 2713, Rv. 552496; Cass. 5 giugno 2013, n. 14150, Rv. 627127; Cass. 14 febbraio 2014, n. 3481, Rv. 630075 e, da ultimo, Cass. – Sez. Quinta Civile – sentenza n. 6758 depositata il 15/03/2017).
Un’interpretazione atomistica dell’operazione negoziale non è in grado di misurare il reale movimento di ricchezza, che si rivela soltanto nella dimensione complessiva dell’affare.
Trattandosi di una disposizione interpretativa e non antielusiva, l’applicazione dell’art. 20 D.P.R. 131/1986 non esige il contraddittorio endoprocedimentale previsto per l’applicazione delle disposizioni antielusive (art. 37-bis D.P.R. 600/1973, oggi art. 10/bis L. 212/2000).
Peraltro, la (ri)qualificazione negoziale operata dall’ufficio finanziario resta soggetta alla verifica giurisdizionale circa l’osservanza dei criteri legali di interpretazione, i quali vanno riferiti alle circostanze concrete della sequenza di atti.
L’interpretazione aderente ai canoni legali ermeneutici restituisce l’operazione negoziale nella sua realtà, scongiurando il rischio di un’alterazione della volontà privata; rischio paventato da quella dottrina che teme un’imposizione aliud pro alio, ovvero l’arbitraria sostituzione della fattispecie imponibile.
La disposizione interpretativa ex art. 20 D.P.R. 131/1986 può attingere la causa economica delle fattispecie negoziali complesse, mentre la disposizione antielusiva ex art. 37/bis D.P.R. 600/1973 e art. 10/bis L. 212/2000 riguarda le fattispecie negoziali prive di «causa economica» (Cass. 10 febbraio 2017, n. 3562).
La diversità di oggetto e di natura esclude in radice un conflitto tra queste norme, che viceversa si palesano in rapporto di complementarietà.
Non si pongono allora questioni di coordinamento normativo ed anzi sembrano appianarsi i dubbi sollevati da una parte della dottrina circa l’irragionevolezza costituzionale della disparità di garanzie per tipologia d’imposta.
In sostanza, secondo la prevalente giurisprudenza della Corte di Cassazione, in tema di imposta di registro, l’interpretazione degli atti deve osservare i seguenti principi di diritto:
a) «in tema di imposta di registro, l’art. 20 D.P.R. 131/1986 non detta una regola antielusiva, ma una regola interpretativa, che impone una qualificazione oggettiva degli atti secondo la causa concreta dell’operazione negoziale complessiva, a prescindere dall’eventuale disegno o intento elusivo delle parti; ne consegue che il conferimento societario di un’azienda e la cessione dal conferente a terzi delle quote della società conferitaria devono essere qualificati come cessione dell’azienda al cessionario delle quote se l’interprete riconosca nell’operazione complessiva, in base alle circostanze obiettive del caso concreto, una causa unitaria di cessione aziendale»;
b) «in tema di imposta di registro, l’art. 20 D.P.R. 131/1986 non detta una regola antielusiva, ma una regola interpretativa, la cui applicazione da parte dell’ufficio finanziario non è soggetta al contraddittorio endoprocedimentale previsto per l’applicazione delle disposizioni antielusive (art. 37/bis D.P.R. 600/1973, poi art. 10/bis L. 212/2000), bensì alla verifica giurisdizionale circa l’osservanza dei criteri legali di interpretazione dei negozi».
 
Lecce, 08   luglio 2017
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