Il ristoro del danno ingiusto da attività illegittimità della P.A.
L’accountability come parametro delle nuove prospettive giurisprudenziali, tra tutela dell’affidamento e proporzionalità dell’azione amministrativa
Ai fini dell’azionabilità della tutela risarcitoria, sussiste il diritto al ristoro dei danni in presenza di un vero e proprio “accanimento” (locuzione testualmente utilizzata dal Consiglio di Stato) in presenza di una iniziativa imprenditoriale (stabilimento balneare su di un’area di proprietà della ricorrente ubicata in un’area di alto pregio, caratterizzata anche dalla presenza di testimonianze storico-architettoniche autoctone – trulli –) fondata su titoli abilitativi originariamente conseguiti, poi sospesi in itinere, successivamente revocati e, infine, seguiti da decreti di occupazione reiterati nonostante l’annullamento giurisdizionale di questi ultimi.
In ragione di tali evenienze, assurge a livelli esponenziali la palese violazione del canone di proporzionalità rispetto al fine da perseguire (tutti i provvedimenti sono stati annullati dal G.A.) e del principio di legittimo affidamento, posto che la stessa Soprintendenza, anni prima, aveva autorizzato l’iniziativa, consolidando l’interesse del privato che aveva confidato nella fattibilità, secondo un grado tale da indurlo a programmare significativi investimenti.
Il complesso delle illegittime attività censurate è sintomatico dello svolgersi dell’azione amministrativa secondo logiche che si sottraggono al paradigma di correttezza e buona amministrazione imposto dall’art. 97 della Costituzione, secondo la sua evoluzione nel diritto vivente. Trattasi di modello in cui, alla tradizionale funzione di garanzia di legalità nel perseguimento dell’interesse pubblico, l’esercizio della funzione amministrativa deve coordinarsi con il consolidamento di un contesto preordinato alla realizzazione di iniziative private in un’ottica di evoluzione della competitività del Paese nell’attuale contesto internazionale, “secondo la logica del confronto e del dialogo tra P.A. e cittadino”.
Il percorso evolutivo del modello costituzionale impone la necessità di valutare il grado di “impatto” sulla sfera dei cittadini e delle imprese (in coerenza con l’introduzione del principio di accountability), che, da un lato, deve essere soppesato e misurato in termini quantificativi, affiancando agli strumenti giuridici quelli economici di misurazione, che permeano secondo uno schema ingrediente l’attività amministrativa; e, dall’altro, impone una esplicita emersione istruttoria non potendo subire ridimensionamenti in considerazione di una cura dell’interesse pubblico asseritamente prevalente.
In tale prospettiva assumono rilievo le riforme ispirate, nell’ambito del procedimento amministrativo e dei suoi epigoni provvedimentali, alla valorizzazione della sfera soggettiva del privato consolidatasi per effetto del decorso temporale e dei provvedimenti ampliativi intercorsi nel tempo, non ultima (per quel che rileva in questa sede, dove all’origine dell’arresto dell’iniziativa degli appellanti vi è la revoca della precedente autorizzazione archeologica) la L. n. 124/2015, che ha riformato il riesercizio del potere e l’adozione dei provvedimenti di secondo grado, attribuendo rilievo codificato all’affidamento del privato – argomento sicuramente rilevante, e di delicato bilanciamento, allorquando esso debba coordinarsi con il principio costituzionale della libertà di impresa o con diritti fondamentali – (cfr. art. 21-nonies co. 1, l. n. 241 del 1990, come modificato dall’art. 25, comma 1, lettera b-quarter, l. n. 164 del 2014epoi dall’art. 6, comma 1, l. n. 124 del 2015; nonché l’art. 21-quinquies, come modificato dall’art. 25, comma 1, lettera b-ter , l. n. 164 del 2014).
In questo senso la giurisprudenza è costante nel ritenere che il provvedimento di autotutela debba essere adeguatamente motivato con riferimento alla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale nonché alla valutazione comparativa – secondo il generale principio di non sproporzionata comprimibilità – dell’interesse dei destinatari al mantenimento delle posizioni e dell’affidamento insorto in capo ai medesimi (ex plurimis: Cons. St. n. 2468 del 2014; n. 2567 del 2012; cfr. la recente Ad. Plen. n. 8 del 17 ottobre 2017).
Nel caso di specie, l’illegittima compressione della sfera soggettiva del privato è stata aggravata dall’adozione di reiterati provvedimenti – parimenti illegittimi – contraddistinti dalla mancanza di correttezza e dalla macroscopica violazione dei canoni di proporzionalità e ragionevolezza.
Il requisito della colpa è da individuarsi alla luce del vaglio di legittimità compiuto dal Giudice (sin dalle prime cure), non avendo trovato giustificazione alcuna i provvedimenti di revoca dell’autorizzazione archeologica e di occupazione dell’area, tanto più che il secondo provvedimento di occupazione è stato emesso nonostante l’accertamento dell’illegittimità del primo.
Quanto al nesso eziologico tra l’illegittimità degli atti di revoca e di occupazione dell’area ed il pregiudizio subito (mancato avvio dell’iniziativa imprenditoriale entro i termini programmati) esso è agevolmente rinvenibile negli esiti del comportamento tenuto dall’amministrazione complessivamene considerato e in relazione ai provvedimenti illegittimi adottati, trasfusosi nel mancato introito dei relativi utili per circa due anni.
Per ciò che attiene alla liquidazione del danno, deve innanzi tutto rammentarsi che la finalità generale e prioritaria dello strumento risarcitorio è essenzialmente compensativa: il suo scopo è la reintegrazione della sfera giuridica del danneggiato, così da porlo, secondo i parametri del cd. “principio di indifferenza”, nella situazione in cui si sarebbe trovato senza il fatto illecito.
In tale ottica, i privati che hanno concesso in comodato gratuito l’area, non possono vedersi riconoscere la liquidazione di alcun danno (stante l’insuscettibilità del conseguimento di un frutto in termini patrimonialmente apprezzabili); differentemente deve dirsi per la società proponente l’iniziativa imprenditoriale, cui compete il pregiudizio derivante dall’“impatto economico effettivo” dell’attività amministrativa, di qualsiasi tipo (legittima o illegittima), da quantificarsi nella sua effettiva portata, che, ad avviso della Sezione, non può che ricondursi al danno massimo sopportato dal privato per la illegittima attività dell’amministrazione: il mancato funzionamento dell’impianto produttivo, il mancato svolgimento dell’attività d’impresa, la mancata percezione dei margini di profitto.
In definitiva, il danno da risarcire va commisurato alla integrale del pregiudizio economico subito, con l’assorbimento di ogni altra richiesta, sia indennitaria, sia risarcitoria.
Il danno da mancato guadagno va commisurato all’impossibilità di svolgimento delll’attività imprenditoriale e, per ciò che attiene alla prova della sua quantificazione, devono ritenersi risarcibili anche le conseguenze indirette e mediate dell’illecito, purché normali, prevedibili e non anomale.
Sotto tale profilo (cfr. Cass. 26042/2010) va tenuto presente il contenuto dell’art. 1223 cod. civ. per il quale “la determinazione dell’intero danno cagionato oggetto dell’obbligazione risarcitoria, attribuendosi rilievo, all’interno delle serie causali così individuate, a quelle che, nel momento in cui si produce l’evento, non appaiono del tutto inverosimili, come richiesto dalla cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, fondata su un giudizio formulato in termini ipotetici”. Più in generale, l’orientamento prevalente della Corte di legittimità impone la ponderazione dei danni-conseguenza facendo applicazione del principio di regolarità causale alla luce dell’id quod plerumque accidit. Deve pertanto ritenersi risarcibile anche il danno mediato o indiretto, purché sia prodotto da una sequela normale di eventi che traggono origine dal fatto originario secondo la regola probatoria del “più probabile che non” (Cass. civ., sez. III, n. 29 febbraio 2016, 3893; id., sez. II, 24 aprile 2012, n. 6474; id., sez. III, 4 luglio 2006, n. 15274; id., sez. III, 19 agosto 2003, n. 12124; Cass. civ., sez. III, 17 settembre 2013, n. 21255).
Ciò posto, non essendo revocabile in dubbio che la parte perseguisse il fine imprenditoriale della realizzazione di uno stabilimento balneare, avendo già ottenuto tutte le autorizzazioni a tal fine necessarie ed avendo già iniziato i lavori nel momento in cui è sopravvenuta la revoca del precedente provvedimento di assenso, non può omettersi di considerare che, per effetto dei provvedimenti illegittimi (con i quali è stata revocata l’autorizzazione archeologica e si è proceduto all’occupazione dell’area) si è di fatto precluso all’appellante di ultimare le opere nei termini preventivati. Ciò si è tradotto in un ritardo nell’attivazione dell’iniziativa commerciale, avviata poi con ritardo, conseguendo anche diversi riconoscimenti per il suo pregio rispetto alla sua ecosostenibilità e alla qualità dell’intervento.
Ai fini della determinazione quantitativa dell’importo non è stata ritenuta necessaria la consulenza tecnica di ufficio, anche in considerazione delle esigenze di economia processuale e del lungo tempo già trascorso dall’epoca del fatto dannoso, considerato che al calcolo può pervenirsi valutando la parametrazione al ritardo con il quale è stata avviata l’attività, ovverosia il periodo nel quale, a causa dei provvedimenti illegittimi dell’amministrazione, la società non ha potuto disporre dell’area.
Conseguentemente, valutando complessivamente il pregiudizio subito dal privato esso può valutarsi – alla luce del segmento temporale circoscritto dai provvedimenti di apprensione (rispetto ai quali il ricorrente vanta un interesse oppositivo) – come coincidente con il mancato introito di due annualità di utili, anche in applicazione dell’art. 1226 c.c., nonché delle affermazioni delle parti che in più punti hanno lamentato un ritardato avvio dei lavori, e quindi dell’attività, di durata sostanzialmente biennale. Come anticipato, tale valutazione include anche il danno derivante dalla revoca dell’autorizzazione archeologica. Difatti, l’autonomo effetto impeditivo di tale provvedimento, seppur ricadente nella stagione estiva, non pare possa incidere in senso accrescitivo sul pregiudizio come innanzi determinato, posto che nel luglio del 2008 l’attività non era ancora attiva.
Ne consegue che può calcolarsi il pregiudizio ristorabile nell’importo pari alla somma degli utili ante imposte risultanti dai bilanci depositati relativi agli esercizi 2013 e 2014, dovendosi a tal fine intendere per “utile ante imposte” il risultato del conto economico, depurato da proventi e oneri straordinari, così come risultante dal predetto conto economico ai sensi dell’art. 2425 c.c. (A – B +/- C +/- D), riguardante il ramo d’azienda riferibile alla gestione dello stabilimento balneare per il quale è causa. Resta fermo – in ossequio al principio della domanda – che la somma complessiva così determinata, nel rispetto del principio della domanda, non potrà in ogni caso superare l’importo delle somme richieste nei ricorsi. Il tutto maggiorato di interessi e rivalutazione, secondo le regole ordinarie, a decorrere dal momento in cui tali utili avrebbero potuto essere prodotti (1 gennaio 2013 (considerando, equitativamente, i primi due anni di utili ‘a regime’ 2013 e 2014 come virtualmente percepiti due anni prima, id est negli anni 2011 e 2012, come se i lavori fossero stati ultimati secondo le originarie previsioni) fino al saldo.
Pertanto, in presenza di dati storici effettivi, così come risultanti dai bilanci pubblicati dalla stessa società, può anche prescindersi dall’effettuazione di CTU.
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