Il rapporto di lavoro nei gruppi di imprese nell’evoluzione della giurisprudenza
Premessa
Per poter definire cosa sia un gruppo di imprese, occorre fare riferimento ad una ‟aggregazione” delle stesse che, pur mantenendo la propria autonomia patrimoniale, sono tuttavia collegate a livello organizzativo, nel cui ambito la società c.d. capogruppo esercita nei confronti delle altre “un’attività di direzione e coordinamento”, in accordo con quanto stabiliscono gli artt. 2359 c.c. e 2497 e ss. cod. civ..
Dal punto di vista della disciplina giuslavoristica, non esiste una regolamentazione legislativa specifica dalla quale possa trarsi un riconoscimento del rapporto di lavoro con riferimento al gruppo d’imprese e, come autorevole dottrina ha sostenuto, “nessuna disposizione ci autorizza a ritenere che sia costruibile una sorta di soggettività unitaria nell’ambito di più imprese fra loro collegate”[1].
L’art. 31 del d.lgs. n. 276 del 2003 (c.d. Legge Biagi), infatti, pur essendo espressamente riferito ai “gruppi di impresa”, si è limitato in realtà a dettare una deroga alla riserva di legge di cui all’art.1, L. n. 12 del 1979 (norme per l‟ordinamento della professione di consulente del lavoro), con riguardo agli adempimenti in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale dei dipendenti facenti parte di società appartenenti ad un gruppo di imprese, prevedendo in particolare che i gruppi di imprese – individuati ai sensi dell’art. 2359 cod. civ. e del d.lgs. n. 74 del 2002 – possano delegare lo svolgimento degli adempimenti di cui sopra alla società capogruppo, ma al contempo, al terzo comma, puntualizza che le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non rilevano ai fini della individuazione del soggetto titolare delle obbligazioni contrattuali e legislative in capo alle singole società datrici di lavoro.
Nonostante la mancanza di una specifica normativa che definisca pienamente questo fenomeno nell’ambito del diritto del lavoro, l’appartenenza di un’impresa a un gruppo è stata spesso oggetto di attenzione della giurisprudenza, specialmente in tema di questioni relative alla concreta imputazione del rapporto di lavoro dei dipendenti. Mentre, infatti, in certi casi l’unicità di imputazione del rapporto di lavoro nell’ambito del gruppo può avere ricadute importanti in favore del prestatore di lavoro, in altri può invece essere interesse dell’impresa costituire e rappresentare un centro unico di imputazione, e ciò al fine di legittimare alcune operazioni riguardanti il rapporto di lavoro di dipendenti di società appartenenti allo stesso gruppo.
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Le basi giuridiche della nozione di gruppo di imprese e di interesse di gruppo
Il decentramento produttivo è uno dei presupposti del fenomeno dei gruppi di imprese: una medesima attività viene frammentata tra una pluralità di soggetti a fronte dell’integrazione (contrattuale o azionaria) tra gli stessi. Sin dalla fine degli anni Ottanta, il gruppo veniva considerato un’unità economica contrapposta alla pluralità giuridica delle società che vi fanno parte, in grado di spezzare la tradizionale corrispondenza fra impresa e imprenditore (individuale o collettivo).
I nessi di controllo e collegamento tra società esistenti nella realtà economica erano già noti al legislatore del 1942 che, infatti, come abbiamo anticipato, all’interno dell’art. 2359 c.c., ne ha disciplinato sin da allora le differenti modalità di attuazione.
La norma ha subito una serie di modifiche nel tempo, rispondenti alle diverse finalità di tutela sviluppatesi (dapprima l’integrità dei patrimoni sociali, quindi l’emersione dei reali assetti di potere). Ad oggi, l’art. 2359 c.c., comma 1 – così come novellato dall’art. 8, d.lgs. n. 310/2004 – considera società controllate: 1) le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria; 2) le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare “un’influenza dominante” nell’assemblea ordinaria; 3) le società che sono sotto “influenza dominante” di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa, mentre l’ultimo comma della norma è invece dedicato alla nozione di collegamento[2], che viene in essere quando via sia una “influenza notevole” di una società su una o più società diverse Detta influenza si presume quando “nell’assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un decimo se la società ha azioni quotate in borsa”.
Se in principio, come si è accennato, l’unica preoccupazione del legislatore era legata alla tutela dell’integrità del patrimonio sociale, successivamente la norma civilistica in esame è divenuta punto di riferimento fondamentale, sia in ambito giurisprudenziale e dottrinario – è da tale disposizione che è, infatti, sorto il dibattito sul lavoro nei gruppi –, sia in ambito legislativo, tramite i rinvii alla stessa effettuati per disciplinare molteplici aspetti del fenomeno. A quest’ultimo proposito, basti pensare alla materia lavoristica: tanto l’art. 31 del d.lgs. n. 276/2003, in maniera esplicita, quanto l’art. 3 del d.lgs. n. 113/2012, implicitamente, attraverso l’elencazione dei casi di influenza dominante così come individuati dalla norma civilistica in parola, fanno espresso riferimento ai rapporti di controllo individuati ex art. 2359 c.c.
Malgrado l’art. 2359 c.c. rappresenti ancora oggi disciplina di riferimento nel settore, è indubbio che, con la riforma del diritto societario del 2003 ad operata dal d.lgs. n. 6/2003, il legislatore abbia dotato i raggruppamenti societari di un nuovo criterio identificativo, di natura fattuale, come l’«attività di direzione e coordinamento», introducendo, nel codice civile, il capo IX, a ciò appositamente dedicato. Ivi, l’art. 2497 c.c., riconosce espressamente l’attività di direzione e coordinamento svolta dalla capogruppo ed introduce, altresì, un’apposita azione di responsabilità nei confronti degli enti o delle società che la esercitano in caso di “pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore delle partecipazioni”, nonché per la “lesione cagionata all’integrità del patrimonio della società”. Tra i legittimati attivi a promuovere l’azione di responsabilità vi sono sia i soci di minoranza della società “eterodiretta” (in relazione al danno arrecato alla redditività ed al valore delle proprie quote), sia i creditori sociali (in ragione del danno cagionato al patrimonio societario). All’interno di quest’ultima categoria sono senz’altro ricompresi i dipendenti delle società controllate.
Successivamente, all’art. 2497 sexies c.c. è prevista una presunzione iuris tantum a mente della quale l’attività di direzione e coordinamento è da ritenersi esercitata, sino a prova contraria, dalle società o enti tenuti al consolidamento dei loro bilanci o che controllino altre società ai sensi dell’art. 2359 c.c.
In giurisprudenza e in dottrina è condivisa l’idea che l’art. 2497 cod. civ. – in base al quale è lecita e meritevole di tutela l‟«attività di direzione e coordinamento» di società – segni l’accoglimento sul piano normativo, da un lato, della nozione di «vantaggi compensativi»[3] e, dall’altro lato, della nozione di «interesse di gruppo», che acquista rilievo giuridico autonomo rispetto all’interesse sociale delle società che del gruppo fanno parte. L’interesse di gruppo non viene a coincidere né con l’interesse sociale della capogruppo, né con l’interesse sociale delle singole società dirette e coordinate o con la somma aritmetica di tutti questi interessi. Tale interesse non è nemmeno un interesse proprio dell’impresa, ulteriore e diverso rispetto agli interessi degli imprenditori, quanto piuttosto la sintesi degli interessi imprenditoriali coinvolti e coincide con il disegno strategico condiviso dalla pluralità delle società, cioè, secondo una diversa interpretazione, con l‟interesse imprenditoriale della capogruppo a governare e coordinare in modo strategicamente unitario le politiche finanziarie delle altre società del gruppo[4].
In una recente pronuncia resa dal Tribunale delle Imprese di Milano, invero, è stato affermato che “il potere di direzione e coordinamento può discendere dal controllo partecipativo ma non è necessariamente collegato ad esso, potendosi esprimere nel contesto unitario dell’impresa entro il cui perimetro si collocano le società del gruppo a prescindere dalla relazione diretta di controllo. Ciò che rileva non è la mera possibilità di esercitare un’influenza dominante su una o più società, ma l’esercizio effettivo di tale influenza attraverso un’attività di direzione e coordinamento”[5]
Orbene, se è senz’altro vero che per i giuristi in generale si pone a questo punto il problema di stabilire come «l’unità del gruppo si combini con la pluralità delle società che lo compongono, è altrettanto indubitabile che per i giuslavoristi si ponga l’ulteriore quesito riguardante l’imputazione del rapporto di lavoro, e dei relativi diritti ed obblighi reciproci, in siffatti contesti organizzativi e produttivi.
Riflessi in materia giuslavoristica. L’evoluzione giurisprudenziale sino al concetto di “unico centro d’imputazione” e profili critici dello stesso.
La riflessione sulla rilevanza dei gruppi sulla gestione dei rapporti di lavoro e, per meglio dire, sulla identificazione del titolare del rapporto di lavoro in tali contesti, non può che muovere dall’evoluzione degli orientamenti emersi nel tempo in giurisprudenza. Se oggi infatti può ritenersi pacificamente ammesso il principio giurisprudenziale secondo cui, al ricorrere di determinate condizioni oggettive, è possibile accertare la sussistenza di un “centro unitario di imputazione” dei rapporti di lavoro, deve, tuttavia, evidenziarsi che detto approdo è stato raggiunto attraverso un’importante evoluzione giurisprudenziale, iniziata con l’affermazione dell’irrilevanza giuridica del fenomeno da un punto di vista lavoristico, poi transitata attraverso il ricorso all’istituto della frode alla legge.
Ed invero, la Cassazione si è per lungo tempo orientata nel senso di ritenere il gruppo, o, per meglio dire, il collegamento economico-funzionale sussistente tra più imprese, un fenomeno di rilevanza prettamente economica, privo, dunque, di riflessi giuridici apprezzabili. L’interpretazione della Suprema Corte, sino agli ’90, ha esaltato unicamente il dato formale, negando che il suddetto collegamento tra imprese – e le relative modalità di gestione delle singole attività – potessero dar luogo tanto all’insorgenza di un autonomo soggetto di diritto, quanto ad un unitario centro di imputazione dei rapporti lavorativi, costituito dal gruppo nel suo complesso. I vincoli societari erano visti come meri presupposti di fatto della fattispecie[6], risultando così impossibile riannodare la prestazione lavorativa del dipendente all’unitaria attività imprenditoriale esercitata dal raggruppamento nel suo insieme, e ciò anche laddove questi vi avesse partecipato con la messa a disposizione delle proprie energie.
E nonostante a partire dai primi anni ’80, iniziano ad emergere in seno alla giurisprudenza di merito, diverse prospettazioni che, ritenendo fittizia ed elusiva delle norme lavoristiche la struttura del gruppo, con modalità tutt’altro che univoche ne sanzionavano l’esistenza attribuendovi un valore giuridicamente unificante[7], la Corte di Cassazione continuerà a ribadire che la scelta e gli interessi che determinano l’appartenenza a gruppi societari «esorbitano dalla sfera del sinallagma lavoristico» e rappresentano altro che un mezzo lecito di «salvaguardia ed espansione del capitale e dell’impresa sulla cui libertà di determinazione l’art. 41 non lascia adito a dubbio alcuno»[8].
C’è però da sottolineare che questa interpretazione subisce, sin dagli anni ’70, un primo contemperamento. La stessa Cassazione, infatti, riteneva che la concezione unitaria dell’impresa, sottostante al gruppo, potesse acquisire rilevanza giuridica quando si configurava una «simulazione o una preordinazione in frode alla legge degli atti costitutivi delle società del gruppo mediante interposizioni fittizie, ovvero reali ma fiduciarie»[9]. E’ dunque attraverso il ricorso all’istituto della frode alla legge che viene interrotto l’approccio, fin allora dominante, dell’insensibilità della problematica giuslavoristica alle vicende imprenditoriali, cominciandosi in tal modo ad avallare anche in Cassazione gli esiti della giurisprudenza di merito.
E sempre per questa via nasce quella bipartizione tra pseudo-gruppi e gruppi genuini, ove solo in questi ultimi, a fronte di tale lettura dicotomica, la sussistenza di forme di coordinamento ed integrazione non produrrebbe particolari conseguenze al punto di vista lavoristico.
E sarà ancora una volta la giurisprudenza di merito ad anticipare e sollecitare l’evoluzione interpretativa, negando in specie che il requisito della frode sia connaturato alla ricostruzione in termini di “unicità d’impresa” nella decisa consapevolezza del fatto che «la breccia nel generale principio dell’irrilevanza del gruppo societario si è allargata, estendendosi anche al di là delle ipotesi di fraudolenta costituzione di un sodalizio”[10]. E pertanto, al fine di rafforzare la tutela del lavoratore subordinato impiegato in un gruppo, grazie alla spinta propulsiva dei giudici di merito (nonché della dottrina), si inizia a consolidare in sede giurisprudenziale il richiamo ai suddetti indici oggettivi, permettendo al prestatore di evitare la difficile prova della frode.
In particolare, il definitivo avvicinamento tra giurisprudenza di merito e di legittimità viene raggiunto a metà degli anni ‘90, nel momento in cui quest’ultima decide di abbracciare la summenzionata concezione oggettiva, selezionando e sistematizzando alcuni degli indici enucleati dalla giurisprudenza pretorile. Al principio del 1995, infatti, la Corte di Cassazione, all’interno di una significativa pronuncia[11], si incarica di tale operazione, stabilendo sussistente «unico centro di imputazione dei rapporti giuridici» in presenza di quattro elementi: a) l’unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) l’integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune”; c) il coordinamento tecnico e ammnistrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) l’utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori che fruiscono dell’attività del lavoratore.
Ed è sulla base della sussistenza di questi quattro requisiti che, malgrado il perdurare di una parziale contrapposizione tra decisioni di merito e legittimità, andrà consolidandosi l’interpretazione giurisprudenziale nei due decenni successivi, determinando il progressivo superamento del ricorso all’istituto della frode alla legge.
L’orientamento oggi direi prevalente si è, infatti, assestato sul principio secondo cui il collegamento economico-funzionale che si instaura tra imprese dello stesso gruppo «non è di per sè solo sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche all’altra, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare – anche all’eventuale fine della valutazione di sussistenza del requisito numerico per l’applicabilità della cosiddetta tutela reale del lavoratore licenziato – un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro[12]». Situazione che, invece, ricorre ogni qual volta si ravvisi la sussistenza dei 4 indici anzidetti, la cui valutazione, peraltro, è rimessa al giudice di merito e, come tale, insindacabile in sede di legittimità a meno che non siano riscontrabili vizi di motivazione.
Ciò detto, con l’entrata in vigore del nuovo art. 2497 cod. civ., anche il paradigma dell’”unitario centro di imputazione, è parso, tuttavia, doversi dire superato. Ciò in quanto, come è stato osservato, tre dei quattro indici di fatto ritenuti selettivi di una patologia – e segnatamente (i) l’unicità della struttura organizzativa e produttiva; (ii) l’integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il relativo interesse comune; nonché il (iii) coordinamento tecnico-amministrativo e finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune – parrebbero in realtà identificare di per se stessi i tratti caratteristici della fattispecie della direzione e coordinamento di società, già individuata dal richiamato art. 2497 cod. civ.. Con la conseguenza che, qualora ricorra l’ulteriore requisito dell’ utilizzazione della prestazione di lavoro da parte delle varie società titolari delle distinte imprese (ulteriore indice rivelatore di una situazione patologica da parte della giurisprudenza), la qualificazione del gruppo di imprese quale centro unitario di imputazione dei rapporti di lavoro si può interpretare come espressione dell’applicazione delle regole che presiedono al giudizio di imputazione del rapporto di lavoro.
Detto in altri termini, ciò che la giurisprudenza parrebbe fare nel momento in cui procede all’imputazione del rapporto al gruppo, inteso come «centro unitario», non è sanzionare un’ipotesi fraudolenta, bensì modificare la qualificazione del rapporto di lavoro, nel senso voluto dalle parti, sollecitando una rilettura del meccanismo d‟imputazione funzionale e adeguata ai nuovi confini (evidentemente ampliati nell’ottica dell’interesse di gruppo) dell’impresa e dell’interesse produttivo.
Non a caso, la stessa Suprema Corte ha quindi sottolineato come sia necessario procedere a un’attenta valutazione degli indici considerati tradizionalmente selettivi di una «patologia» del gruppo, a fronte del «rilevante, ma fisiologico, livello di integrazione» oggi consentito dall’art. 2497 cod. civ., “che può costituire il presupposto per una valutazione differenziata che la rilevanza dell’interesse unitario di gruppo” manifesta rispetto all’adempimento delle obbligazioni che risultano funzionali alla realizzazione di tale interesse[13].
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Note
[1] O. Mazzotta, Diritto del lavoro, Giuffrè, 2002, p.221
[2] Sul punto preme soltanto rilevare che è necessario non farsi trarre in inganno dalla locuzione “collegamento societario” più volte ricorrente nella giurisprudenza lavoristica più risalente in materia. Quest’ultima, invero, per quanto apparentemente riferibile alla suddetta seconda parta dell’art. 2359 c.c., fa invece riferimento ai rapporti di controllo intercorrenti tra società appartenenti ad un gruppo gerarchicamente strutturato.
[3] Teoria, in particolare, elaborata già prima della citata riforma del diritto societario, da P. Montalenti, Conflitto di interessi nei gruppi di società e teoria dei vantaggi compensativi, in Giur. Comm., 1995, I, pp. 710 ss.
[4] Si veda in particolare sul punto, in una prospettiva già giuslavoristica, B. Veneziani, Gruppi di imprese e diritto del lavoro, in Lav. Dir., 1990, p. 609, qui p. 613, ove si afferma la tesi per cui «nel gruppo di imprese esiste la possibilità di identificare, attraverso una indagine sul concreto svolgersi del rapporto, un interesse superiore o complesso – per così dire unitario – identificabile con quello di una articolata struttura organizzativa e che non può soddisfarsi se non con una data organizzazione e articolazione»
[5] Tribunale Milano, 10 novembre 2014, in www.giurisprudenzadelleimprese.it.
[6] Cassazione Civile 2 febbraio 1988
[7] Ex multis, Pret. Cagliari 18 marzo 1983, in Giur. It., 1984, I, 2, 31; Pret. Roma 29 novembre 1983, in Giust. Civ., 1984, I, 2315, con nota di G. DONDI, Società collegate, frode alla legge e tutela del lavoratore licenziato; Pret. Genova 16 giugno 1983, in For. It., 1984, I, 2607; Pret. Padova 21 ottobre 1988, in Riv. It. Dir. Lav., 1989, II, 523, con nota critica di G. DE SIMONE, Decentramento produttivo e unitarietà sostanziale del datore di lavoro, 530.
[8] Cassazione Civile, 5 aprile 1990, n. 2831.
[9] Cass. 28 gennaio 1981, in Riv. Giur. Lav., 1981, II, 912, con nota di G. MELIADÒ, La cassazione e le società collegate; ma già in precedenza si v. Cass. 29 aprile 1974, n. 1220, in For. It., 1616; Cfr., altresì, Cass. 2 luglio 1981, n. 4313, in Giust. Civ., 1983, II, 43.
[10] Trib. Genova, 19 aprile 2001, in Riv. Giur. Lav., 2002, II, 299 ss.
[11] Cass., 22 febbraio 1995, n. 2008, in Riv. Crit. Dir. Lav., 988.
[12] Ex multis, tra le più recenti,Cass. 24 gennaio 2020 n. 1656; Cass. 16 aprile 2019 n. 10574; Cass., 26 maggio 2017, n. 13379; Cass, 5 gennaio 2017, n. 160; Cass., 26 agosto 2016, n. 17368; Cass., 11 novembre 2014, n. 23995; Cass., 29 settembre 2014, n. 20463.
[13] Si veda, in proposito, Cass. Civ., Sez. Lavoro, 29 novembre 2011 n. 25270 già citata.
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