Il quadro delle immunità delle alte cariche dello Stato

Le immunità del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei ministri
Il presidente del Consiglio e i ministri, in base all’articolo 96 della Costituzione, «sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione[1] del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati».
Godono quindi di una “immunità relativa”, cioè parziale, in base alla quale gli è comunque garantita una tutela rafforzata rispetto a quella prevista per i comuni cittadini: se il reato è stato commesso nell’esercizio delle loro funzioni (non si tratta quindi di “reati comuni”, slegati dalla funzione ministeriale: ad esempio un ministro che trova la moglie a letto con l’amante e li uccide entrambi), il Senato può decidere se dare o meno l’autorizzazione ai giudici a procedere.
Se l’indagine della magistratura è successiva alla cessazione dalla carica,[2] ma riguarda fatti accaduti durante questa, anche gli ex ministri e gli ex presidenti del Consiglio sono coperti dall’immunità.
Questa facoltà del Senato è disciplinata dalla legge costituzionale n.1 del 1989. In base a questa il Tribunale dei ministri, una sezione specializzata del tribunale ordinario composta da tre magistrati estratti a sorte che è presente in ogni Corte d’Appello, avanza la sua richiesta di autorizzazione a procedere in giudizio alla camera competente (quella di appartenenza o, nel caso in cui il presidente del Consiglio o il ministro non siano anche parlamentari, il Senato). Questa analizza la richiesta prima nella propria Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, che redige una relazione per chiedere all’aula di dare o meno l’autorizzazione, poi nell’aula con un voto finale che definisce la questione.
Inoltre, sempre in base alla legge costituzionale n.1 del 1989 (art. 10), nei procedimenti disciplinati dall’art. 96 della Costituzione il presidente del Consiglio e i ministri non possono essere  sottoposti a misure limitative della libertà personale, a intercettazioni telefoniche, sequestro della corrispondenza o perquisizioni «senza l’autorizzazione della Camera competente (…) salvo che siano colti nell’atto di commettere un delitto per il quale è obbligatorio il mandato o l’ordine di cattura».
L’immunità parlamentare
I parlamentari, in base all’articolo 68 della Costituzione[3], godono dell’immunità per quanto riguarda le «opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni». Possono insomma, nell’esercizio delle loro funzioni, esprimere opinioni che configurano un reato (ad esempio ingiuria o diffamazione) senza doverne rispondere.
Inoltre non possono subire perquisizioni domiciliari o personali, non possono essere arrestati o altrimenti privati della libertà personale, mantenuti in detenzione e intercettati senza l’autorizzazione della Camera di appartenenza. L’arresto non deve essere autorizzato solo se arriva in conseguenza di una sentenza irrevocabile di condanna o se avviene in flagranza di reato (cioè quando si viene colti “con le mani nel sacco”).
A differenza che per i ministri[4] e per il presidente del Consiglio, questa tutela rafforzata dei parlamentari nei confronti delle indagini e dei provvedimenti della magistratura non è limitata ai reati funzionali: i giudici ad esempio non possono intercettare senza autorizzazione un parlamentare, anche se temono che sia coinvolto in un traffico internazionale di droga che nulla ha a che vedere con la sua funzione.
L’immunità del presidente della Repubblica
Il presidente della Repubblica gode della forma più forte di immunità prevista dall’ordinamento italiano. In base all’articolo 90 della Costituzione, infatti, il presidente della Repubblica «non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione».
A differenza dell’immunità parlamentare, quella del presidente della Repubblica copre non solo i voti e le opinioni, ma tutti gli “atti” compiuti nell’esercizio delle sue funzioni.
A differenza dell’immunità dei ministri e del presidente del Consiglio, poi, non è nemmeno prevista la possibilità che il Parlamento possa autorizzare i giudici a procedere contro il Quirinale. Sempre, è bene sottolinearlo, per reati funzionali. Quelli extra-funzionali, secondo la giurisprudenza costituzionale (che pure ammette non sia sempre facile operare la distinzione), non sono coperti da immunità.
Le uniche eccezioni a questa irresponsabilità sono due reati gravissimi: l’alto tradimento e l’attentato alla Costituzione[5]. Il contenuto di questi reati non è particolarmente definito, anche perché in concreto non è mai successo che un presidente della Repubblica venisse accusato di averli commessi[6]. A livello teorico si tratta comunque di gravissimi casi di infedeltà del Capo dello Stato rispetto ai valori, ai comportamenti e alle istituzioni costituzionali.
Il presidente della Repubblica viene messo in stato di accusa, per questi reati, dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi componenti (art. 90 co.2 cost.), e viene poi giudicato (art. 134 cost.) dalla Corte Costituzionale. L’ordinamento italiano prevede diversi tipi di immunità. I ministri e il presidente del Consiglio godono dell’immunità più blanda: per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni possono essere processati solo se lo autorizza il Parlamento e, nelle indagini relative, non possono subire arresti, perquisizioni o intercettazioni senza autorizzazione parlamentare.
I parlamentari godono di un’immunità più ampia: non possono essere perseguiti per le opinioni e i voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni, in nessun caso, non ci sono di mezzo autorizzazioni insomma. Non possono poi subire arresti, perquisizioni o intercettazioni – sia per i reati funzionali sia per i reati comuni – senza l’autorizzazione del Parlamento, a meno che non ci sia una sentenza irrevocabile di condanna o un arresto in flagranza di reato.
Il presidente della Repubblica, infine, gode di un’immunità molto ampia per quanto riguarda i reati funzionali: in questo caso non è mai responsabile – di nuovo non ci sono autorizzazioni che possano essere concesse o meno – salvo che nei gravissimi casi di attentato alla Costituzione e alto tradimento. Due ipotesi che prevedono la messa in stato d’accusa da parte del Parlamento e il giudizio della Corte Costituzionale[7], e che non si sono mai verificate nella storia repubblicana.
Il presente lavoro si pone come obiettivo quello di analizzare la genesi e l’evoluzione della figura del Presidente della Repubblica nel corso degli anni ossia dalla formazione della Carta Costituzionale ai giorni nostri.
Il Capo dello Stato non eredita la posizione e i poteri della Corona[1]. Nello Statuto Albertino al Re (art. 5) spettava il potere esecutivo[8]. Il potere legislativo (art. 3) veniva esercitato dal Re e dal Parlamento. Il Re poteva tramite lo strumento della sanzione regia bocciare una legge del Parlamento. Al potere giudiziario non era garantita l’indipendenza dall’esecutivo. Va precisato che il Re[3] aveva anche il potere di nominare e revocare i ministri.
Attualmente l’art. 87 definisce il Presidente della Repubblica Capo dello Stato e rappresentante dell’Unità Nazionale[9] e lo situa non come titolare dei tre poteri dello Stato ma come al di sopra di essi. Questo processo avviene con l’affermazione della forma di governo parlamentare mediante una traslazione di potere politico dal Re all’Esecutivo, che si lega mediante un rapporto di fiducia al Parlamento. L’autonomia politica conquistata dal Parlamento e dal Governo, quest’ultimo espressione della sola maggioranza parlamentare, situava fuori dall’area dei tre poteri il Capo dello Stato relegato quindi ad un ruolo diverso: quello di rappresentante dell’Unità Nazionale.
I lavori della Costituente
Alla luce delle innumerevoli ricostruzioni effettuate da autorevoli esponenti della dottrina costituzionalistica, è il caso di porre fin da subito in evidenza – quale assunto imprescindibile da collocare alla base della presente trattazione – come il ruolo costituzionale del Presidente della Repubblica abbia avuto una propria evoluzione lungo i binari tracciati dalle vicende che hanno contribuito a modellare il quadro politico-istituzionale[10] del nostro Paese dalla nascita della Repubblica fino ai giorni nostri. Vale la pena di fare un accenno, in via preliminare, al contesto in cui si trovò ad operare l’Assemblea Costituente, i cui lavori sono stati condotti sotto il peso di una notevole confusione concettuale, inesorabilmente dovuta alla varietà delle opinioni sul tipo di parlamentarismo cui aveva dato luogo il progetto di Costituzione e sulla conseguente posizione complessiva che il Capo dello Stato avrebbe assunto nel nuovo assetto  costituzionale1. A dimostrazione di ciò, basti ricordare la netta opposizione tra le due posizioni principali: la prima – sostenuta da Vittorio Emanuele Orlando – fortemente critica di una totale insufficienza e scarsa incisività dei nuovi poteri di attribuzione presidenziale[11]; la seconda – sostenuta dalle file della sinistra – timorata di un’eccessiva ampiezza dei poteri presidenziali, al punto da intravedere il rischio, in futuro, di una deriva presidenzialista del sistema2. Senza ombra di dubbio si tratta di due visioni antitetiche, accomunate però dall’essere entrambe figlie di un eccessivo radicalismo. Di stampo maggiormente moderato sembra invece la lettura data da Ruini, che, rispondendo ai rilievi di Orlando, quale Presidente del Comitato per la Costituzione, mise in evidenza come le attribuzioni costituzionali fossero perfettamente in grado di permettere al Capo dello Stato di svolgere le proprie funzioni di equilibrio e coordinamento.[12] L’intervento di Ruini non bastò, tuttavia, a porre fine al clima di forte polemica nato dal contrapporsi della paura di un Presidente “troppo forte” a quella di un Presidente “troppo debole”. Un ulteriore tentativo di conciliazione tra queste due visioni opposte fu quello del costituzionalista Tosato, il quale cercò di porre in evidenza la terzietà del Capo dello Stato rispetto al gioco delle parti4, sottoponendo all’Assemblea un’idea del Presidente come titolare di una «funzione neutra», tesa ad «assicurare che tutti gli organi costituzionali dello Stato […] funzionino secondo il piano costituzionale. Attualmente l’art. 87 definisce il Presidente della Repubblica Capo dello Stato e rappresentante dell’Unità Nazionale e lo situa non come titolare dei tre poteri dello Stato ma come al di sopra di essi. Fra tutte le istituzioni repubblicane, il capo dello Stato è quella che offre la resistenza maggiore all’inquadramento e alla sistemazione giuridica[13]. L’incertezza della normativa[4] costituzionale spiega perché la dottrina ha descritto la figura presidenziale ora enfatizzandone il ruolo di garanzia, ora la capacità di condizionamento o addirittura di codeterminazione delle scelte di governo. Mentre nel caso di stabili maggioranze, chiaramente legittimate dal voto popolare, il Capo dello Stato si trova a svolgere un ruolo quasi notarile, al contrario, allorché il quadro politico sia frammentato il Capo dello Stato promuove quel minimo di omogeneità e solidarietà politica indispensabile per il funzionamento del sistema democratico-rappresentativo.
 
Riflessioni sull’impossibilità di svolgere intercettazioni “indirette nei confronti del Presidente della Repubblica. Il caso del conflitto di attribuzione contro la Procura
A questo punto del nostro lavoro, occorre esaminare concretamente le ricadute pratiche dell’art 90 Cost. per il presidente della Repubblica e le sue funzioni; esaminiamo nello specifico il caso che ha visto coinvolto il Presidente Napolitano da un lato e la Procura di Palermo dall’altro. Con l’ordinanza n. 218 del 20 settembre 2012, la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile il ricorso per conflitto tra poteri sollevato dal Presidente della Repubblica in carica, Giorgio Napolitano, nei confronti della Procura di Palermo, in relazione ad alcune intercettazioni di tipo casuale che hanno coinvolto lo stesso Presidente. Si può correttamente dire che la sentenza compie un’analisi del ruolo presidenziale[14] all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, mediante la quale giustifica la sua riservatezza nelle comunicazioni. Si può dire che nella Costituente non si prese posizione sull’attribuzione di specifici poteri presidenziali di indirizzo politico. Questa mancanza, se così si può dire, ha innescato il dibattito sulla figura del Capo dello stato “con poteri a fisarmonica”: governi deboli hanno prodotto presidenti forti; parlamenti delegittimati hanno prodotto presidenti molto attivi; governi ben sostenuti da un forte appoggio parlamentare hanno ridotto lo spazio di manovra del Presidente, al punto che suggestiva appare l’immagine della “fisarmonica presidenziale”che, per essere suonata in modo armonioso, deve sapersi inserire nelle dinamiche istituzionali”.  La Corte è chiamata a giudicare la posizione complessiva del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale, in una controversia che lo coinvolge tanto come istituzione, quanto come persona fisica. Da una parte viene evidenziato il fatto del sollevare un conflitto di attribuzione per risolvere una controversia tra il Presidente della Repubblica e l’Autorità giudiziaria; rileva la difficoltà della Consulta, che non essendo investita di una normale disputa costituzionale, non potrà fare altro che dare ragione alla prima carica dello Stato. Inoltre vengono contestate  anche le argomentazioni addotte dal Presidente a sostegno della sua decisione: in modo particolare, viene criticato il tentativo di rinvenire un divieto assoluto di intercettazione delle comunicazioni del Capo dello Stato nella previsione che l’art. 90 Cost. dedica alla irresponsabilità presidenziale. In questi termini la prerogativa in questione verrebbe interpretata come una garanzia di totale intoccabilità che, riferendosi più alla persona che alla carica ricoperta, imporrebbe agli uffici giudiziari di muoversi fuori dalle ordinarie regole e garanzie del processo penale[15].  In quest’ultimo caso, infatti, la ratio di fondo rinvenibile nella Carta sarebbe quella di voler applicare al Presidente, al di fuori delle garanzie espressamente previste, le regole comuni valide per tutti i cittadini.  La Procura della Repubblica di Palermo ha avviato alcune indagini nell’ambito di una inchiesta su presunte trattative tra Cosa Nostra e lo stato italiano, avvenute all’inizio degli anni Novanta; nel corso delle indagini, essa ha richiesto l’autorizzazione per effettuare delle intercettazioni in uso a Nicola Mancino, indagato per falsa testimonianza e che all’epoca dei fatti ricopriva la carica di Ministro dell’interno. Nell’attività di intercettazione delle conversazioni telefoniche di Mancino, il cui numero ammonta complessivamente a 9295, gli inquirenti si sono così imbattuti in alcune telefonate intercorse tra l’ex Ministro e il Presidente Napolitano, relative all’autunno del 2011. Si tratta si captazione non volute, fortuite, come testimonia il fatto che su un totale di oltre novemila interlocuzioni, quelle tra Mancino e Napolitano siano solamente quattro.  La controversia riguarda le modalità da seguire per la distruzione delle intercettazioni; mentre per l’Avvocatura dello Stato la distruzione della documentazione relativa alle interlocuzioni del Presidente deve avvenire immediatamente, ad opera del pubblico ministero,( ai sensi dell’art. 271 comma terzo del c.p.p.),secondo la Procura invece le intercettazioni possono essere distrutte solo dopo che le parti abbiano potuto esaminarle art 268, comma sesto) e, in ogni caso, previa autorizzazione del giudice per le indagini preliminari (art 268 comma secondo), data l’assenza di una disposizione esplicita che imponga l’immediata distruzione delle intercettazioni “causali” del Capo dello Stato. Il conflitto di attribuzioni proposto alla Corte Costituzionale si incentra sull’ambito di estensione dell’immunità che l’art. 90 Cost. unitamente alla legge n. 219 del 1989, con specifico riferimento al regime delle intercettazioni, attribuiscono al Capo dello Stato. Nel ricorso, L’Avvocatura sostiene l’assoluta inviolabilità delle comunicazioni del Presidente della Repubblica, che essa ancora al suo ruolo di Capo dello Stato e di rappresentante dell’Unità Nazionale, nonché al principio di irresponsabilità, sancito dall’art. 90 della Costituzione e corroborato dalla disciplina normativa contenuta nell’art. 7 della legge 5 giugno 1989, n. 219. Anzitutto, secondo l’Avvocatura l’irresponsabilità giuridica comporta l’assoluta riservatezza di tutte le attività del Presidente della Repubblica che sono propedeutiche e preparatorie rispetto al compimento degli atti atipici e pubblici attraverso i quali esercita formalmente i propri poteri, anche in considerazione del fatto che alcune attività che egli pone in essere non hanno un carattere formalizzato. La totale inviolabilità delle comunicazioni del Presidente è poi espressamente riconosciuta dall’art. 7 della legge 5 giugno 1989, n. 219, in base a cui vige un divieto di disporre intercettazioni telefoniche o di altre forme di comunicazione con l’unica eccezione del caso in cui, messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune per alto tradimento e attentato alla Costituzione, il Presidente sia stato sospeso dalla carica dalla Corte Costituzionale.  Pertanto per l’Avvocatura la legge stabilirebbe un divieto assoluto di captazione dell’intercettazione del Capo dello stato fintanto che questi è in carica, sicchè è naturale che debba esistere un divieto altrettanto assoluto delle intercettazioni qualora fossero captate in maniera indiretta o casuale. Ad avviso della Procura di Palermo, in presenza di intercettazioni telefoniche che, avendo ad oggetto terze persone, captino accidentalmente le conversazioni del presidente della Repubblica, non esistono norme impositive della immediata cessazione dell’ascolto o della registrazione.
 
[1] Bin R., Brunelli G., Pugiotto A., Veronesi P., “Il Lodo ritrovato”, TORINO, 2009
[2] Allegretti U. “Associazione italiana costituzionalisti Monarchia e Repubblica”, in rivista Associazione italiana costituzionalisti, n 2/2012.
[3] Astrid on line.it, “Le immunità penali dei parlamentari in Italia”, Vincenzo Lippolis
[4] Diritto penale contemporaneo, “Sul regime di utilizzabilità delle intercettazioni casuali di un componente del Parlamento”, 29 maggio 2013, Paola De Pascalis.
[5] Antolisei F., “Manuale di diritto penale”, Miolano, 2003, pag. 142 e ss.
[6] Giurisprudenzapenale.com, “Le immunità del Presidente della Repubblica: questioni penali e costituzionali”, Alessia Fraino
[7] Baldassarre A., “Il lodo Alfano verso l’approvazione finale: restano forti i dubbi sulla legittimità costituzionale”, in www.forumcostituzionale.it, 17/07/2008.
[8] Rivista Cammino Diritto, “Dallo Statuto Albertino alla Costituzione Repubblicana: l’Italia cambia volto”, 19/10/2020, Luana Leo.
[9] Baldassarre A., “Il Capo dello Stato”, in Manuale di diritto pubblico ii, Milano, 1997.
[10] Baldassarre A.-Mezzanotte C., “Gli uomini del Quirinale”, Milano, 1995.
[11] Bin R.- Petruzzella G. in “Diritto costituzionale”, Torino, 2006.
[12] Giupponi T.F. “La tutela delle alte cariche dello Sttao e i nodi irrisolti tra politica e giustizia”, in quad. Cost. n. 1, 2011.
[13] Carlassare L., “Commento all’art. 90, in Commentario della Costituzione” a cura di Branca G.-Pizzorusso A., Bologna- Roma, 1983.
[14] S. Galeotti-B. Pezzini “Presidente della Repubblica nella Costituzione italiana”,in Dig.Disc.Pubbl. XI, Torino, pag. 422 ss.
[15] F. Giuffrè, “Sull’improcedibilità penale nei confronti del Capo dello Stato per gli atti extrfunzionali: ujn nodo da sciogliere con legge costituzionale”, in R. Bin-G. Brunelli- A. Pugiotto- P. Veronesi a cura di “Il caso Cossiga”. Capo dello Stato che esterna o privato cittadino che offende?, Torino, 2003, pag. 173.

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