Il fondamento incerto della pericolosità sociale

Questioni di riferimento
Il sistema penale Italiano è fondato su due sanzioni: le pene e le misure di sicurezza. Le prime sono finalizzate a punire il fatto di reato considerato da un punto di vista puramente oggettivo, le seconde, invece, sono indirizzate a prevenire comportamenti illeciti del reo che hanno origine da un giudizio di pericolosità sociale effettuato sulla sua personalità. Questo sistema misto, che va sotto il nome di “doppio binario”, ha avuto origine dalla contrapposizione tra scuola classica e scuola positiva del diritto penale come risposta alla pressante esigenza di tutela della collettività a scapito dei diritti del singolo, assecondando l’autoritarismo dello stato fascista impegnato fortemente nella lotta alla delinquenza. Mentre la pena ha come presupposto la colpevolezza e quindi tutti gli elementi soggettivi su cui si fonda la responsabilità penale, la misura di sicurezza presuppone la pericolosità sociale, ovvero, un giudizio di prognosi effettuato sul soggetto che permetterebbe di capire se, in futuro, questi sia in grado di commettere altri reati. Un diritto penale del fatto, costituzionalmente orientato, non può approvare tale categoria. Essa origina da un pregiudizio sull’autore del reato che lo considera naturalmente incline alla delinquenza, tralasciando ogni considerazione sugli avvenimenti che compongono la fattispecie. Inoltre il sistema del doppio binario ammette l’applicazione congiunta di pene e di misure di sicurezza quando sussiste, contemporaneamente, a carico di un medesimo soggetto, l’imputabilità e la pericolosità sociale realizzando quasi una violazione del principio del ne bis in idem. Questo sistema lascerebbe presagire che l’uomo può scomporsi in due entità: una parte libera e responsabile di fare scelte orientate dai propri valori di riferimento e quindi assoggettabile a pena; un’ altra parte , invece, pericolosa perché incline ai suoi stimoli delinquenziali ed assoggettabile a misura di sicurezza.[1]                           Giova, altresì, ricordare che le pene e le misure di sicurezza devono essere ispirate da finalità di trattamento diversificato.                                 Una differenziazione che, nei fatti, non è stata realizzata tenuto conto del medesimo contenuto afflittivo delle due sanzioni, dovuto anche alla mancanza di strutture idonee alla diversificazione del trattamento.[2]
La pericolosità sociale, un concetto evanescente
L’articolo 203 del c.p. afferma testualmente “Agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell’articolo precedente, quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati. La qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell’articolo 133”. L’inciso “quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati” afferma, chiaramente, che la pericolosità sociale viene considerata come probabilità che in futuro vengano commessi nuovi reati. Questo criterio di accertamento impegna il giudice in un giudizio di prognosi carico di incertezze perché presume di predire il futuro comportamento criminale del reo. Il problema di fondo della prognosi criminale, cioè del giudizio finalizzato a capire se il reo commetterà o meno nuovi reati, si caratterizza per la sua evanescenza dato che si basa sostanzialmente su parametri intuitivi rimessi all’equo apprezzamento del giudice.[3]        La base su cui si fonda la valutazione del giudice deve essere orientata dagli indici indicati nell’articolo 133 del c.p., che distingue criteri utili a verificare la gravità del reato e criteri per individuare la capacità a delinquere del reo. Sono proprio questi ultimi ad evidenziare la fragilità del concetto di pericolosità sociale, perché spostano l’attenzione dal fatto al soggetto valutando la sua responsabilità non tanto per ciò che ha  commesso ma per la propria condotta di vita[4]. Questi criteri , tra cui il carattere del reo, i sui precedenti penali e giudiziari, la sua condotta di vita, le condizioni familiari e sociali sembrano far rivivere le reminescenze del positivismo criminologico che hanno orientato le scelte legislative del codice Rocco.[5] È evidente, allora, che il giudizio sulla pericolosità sociale risulta essere puramente  soggettivo. In altri termini la prognosi sulla capacità a delinquere, basandosi sull’equo apprezzamento del giudice, sembra praticamente inaffidabile perché non sorretta da sufficienti elementi di falsificabilità. Tra l’altro il nuovo codice di procedura penale è stato attento alle esigenze degli studi sulla personalità degli imputati, stabilendo all’art. 220, che “non sono ammesse perizie per stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche”. Da ciò si evince che il giudice non dovrebbe ricevere alcun aiuto dagli esperti in materie psicologiche o psichiatriche per lo studio sulla personalità dell’imputato ma dovrebbe fare riferimento, per la valutazione della responsabilità penale, solo a criteri oggettivi. A meno che non sussista una causa patologica, sono diverse le ragioni che giustificano un divieto di perizia sulla personalità dell’imputato. Prima di tutto rileva la scarsa attendibilità dei risultati di un’indagine psicologica. In particolare la perizia sulla personalità dell’imputato farebbe emergere degli aspetti peculiari del carattere del reo che potrebbero finire con l’influenzare il giudice sul suo modus iudicandi. In altri termini si rischierebbe di condizionare il giudice attraverso un’immagine dell’imputato delineata proprio dalle perizie psicologiche e psichiatriche. Il giudice, in questo caso, non deciderebbe solo sulla base dei fatti emersi e provati durante il processo ma sarebbe influenzato anche dalle mere intenzioni dell’agire umano, con il rischio ulteriore che tali circostanze possano emergere anche nella motivazione della sentenza come uno dei  moventi del reato[6]. Tale assunto è di fondamentale importanza perché determina le finalità a cui tende il diritto penale. In effetti un processo penale che ammetta indagini sulla personalità dell’imputato rispecchia quello che alcuni autori chiamano “diritto penale interiore”. Si tratterebbe di un diritto penale che punisce le intenzioni tralasciando i fatti, in un certo senso la sanzione penale si sposterebbe sui pensieri della persona carpiti violentemente con l’autocritica, l’indagine psichica ed altri strumenti che, sostanzialmente, non sono finalizzati a provare la verità dei fatti. Ragionando in questi termini si rischierebbe di spostare l’attenzione sulla mera potenzialità della condotta offensiva anziché sulla sua attualità; così facendo sarebbe violato un principio irrinunciabile del diritto penale, secondo cui il semplice pensiero non può essere punito fino a quando non si traduca in una condotta esteriore[7]. Nonostante i rischi che può determinare una perizia sulla personalità dell’imputato, in una fase successiva alla conclusione del processo penale, cioè nei procedimenti di sorveglianza per il riesame della pericolosità sociale, il ricorso a perizie e consulenze tecniche o di pareri di esperti in psichiatria del servizio sanitario locale, sono pienamente legittimati dall’articolo 20 D.P.R. n. 230/2000 e sono poi trasmessi al magistrato di sorveglianza ex art. 71 bis. Ord. Pen. In questo caso è attribuito un ruolo decisivo alle perizie psichiatriche e alle relazioni fornite dal gruppo di osservazione che monitora la persona socialmente pericolosa. Questa prassi, che trova fondamento nella legge, determina una evidente contraddizione nel nostro ordinamento giuridico e va necessariamente rimossa. La pericolosità sociale è una categoria giuridica che non ha fondamento scientifico e, inevitabilmente, il crisma della scientificità scarseggia anche per i metodi utili alla sua valutazione. Una valutazione in cui troppo spesso i tribunali si adeguano semplicemente all’opinione di psichiatri e psicologi, mentre i clinici assumono troppa responsabilità e troppo poca ne assumono i tribunali. Ma è con i tribunali e con il legislatore che la responsabilità deve restare perché bilanciare ordine e libertà è un problema sociopolitico e non clinico ed è un dovere dei tribunali e dei legislatori[8]. Anche se i parametri di riferimento, per considerare un soggetto socialmente pericoloso sono forniti perlopiù dalla psichiatria forense è la stessa psichiatria, nella trattatistica più autorevole, a ritenere che sia “indispensabile lavorare per il superamento dell’equivoco, riduttivo e non scientifico concetto di socialmente pericoloso”.[9]
Abolizione delle presunzioni di pericolosità sociale, la “pericolosità latente”
Le considerazioni fin qui svolte ci permettono di stigmatizzare il concetto di pericolosità sociale proprio per le distanze che esso prende dalla colpevolezza. A differenza di quest’ultima, che presuppone una sufficiente signoria dell’individuo nelle proprie azioni, la pericolosità sociale riflette, al contrario, l’insieme delle inclinazioni che spingono il soggetto a delinquere in maniera pressoché necessitata.[10]La critica muove anche dal fatto che, in passato, nella precedente disciplina codicistica, la pericolosità sociale non era oggetto di un previo accertamento da parte del giudice; anzi, era la stessa legge a prevedere, in specifici casi tassativamente individuati, le ipotesi di presunzione della pericolosità a carico di un soggetto. Si trattava di presunzioni juris et de jure che, come tali, non ammettevano prova contraria. La situazione è profondamente cambiata grazie all’articolo 31 della l. n. 663/86 (c.d. legge Gozzini) che ha abolito qualsiasi forma di presunzione di pericolosità sociale presente nel codice[11], abrogando l’articolo 204 del c.p. La legge è stata il frutto di una serie di pronunce della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittime , nel corso degli anni , tutte le forme di presunzione della pericolosità sociale ritenendole in evidente contrasto con i principi della Costituzione.[12] Ne deriva allora che , oggi, per l’applicazione di una misura di sicurezza, la pericolosità sociale deve essere sempre oggetto di concreto accertamento da parte del giudice. Le precedenti fattispecie presuntive, invece, possono essere considerate solo come ipotesi indizianti di una possibile pericolosità[13], alimentando il processo di superamento del binomio infermità-pericolosità. Infatti l’evoluzione delle scienze sociali, psichiatriche e giuridiche hanno permesso di appurare, per lo meno, che “i malati di mente non delinquono in misura superiore al resto della popolazione”[14]. Appare importante sottolineare questo concetto soprattutto alla luce della legge del 30 maggio 2014 n. 81.Essa ha stabilito che, per l’accertamento della pericolosità sociale di un soggetto infermo o semi-infermo di mente, non deve essere più preso in considerazione il requisito di cui all’art. 133 comma 2 n. 4 del c.p. – cioè delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo- [15] ma dovranno essere prese in considerazione solo le qualità soggettive della persona. Inoltre, la citata legge, ha previsto espressamente che “non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali”. Il legislatore fa riferimento a tutte quelle situazioni in cui un soggetto, infermo o seminfermo di mente, senza alcun sostegno familiare o sociale, sia abbandonato al suo destino senza l’aiuto di chi, per lui ,formuli un programma di trattamento extramurario[16]. Spesso, per questi soggetti, nei cui confronti vige un ampio disinteresse, le presunzioni di pericolosità sociale rivivono sotto forma di pericolosità latente, nel senso che l’assenza di strutture idonee al trattamento differenziato, la mancanza di programmi di trattamento terapeutici extramurari, sono usati come motivi validi per prorogare la misura di sicurezza.[17]
La recidiva come “sintomo” di pericolosità sociale
La ricaduta nel reato si verifica nel momento in cui chi, dopo essere stato condannato per un delitto non colposo, ne commette un altro.        La recidiva sottende un giudizio di pericolosità sociale di dubbio fondamento empirico. Essa rispecchia una concezione della pena che, estraniandosi dalla funzione retributiva, diventa strumento di prevenzione speciale finalizzato alla dissuasione del singolo dal commettere nuovi reati[18]. Così facendo la sanzione sembra assumere un compito intimidatorio che mal si concilia con la funzione Costituzionalmente orientata della pena. Comunemente si attribuisce alla recidiva natura giuridica di circostanza aggravante soggettiva, più precisamente circostanza aggravante inerente la persona del colpevole. Però, prestando maggiore attenzione alla effettiva funzione perseguita dall’istituto in esame, comparato con gli effetti che esso determina sulla funzione della pena, la recidiva offre maggiore attenzione alla condizione personale del reo derivante da una precedente condanna per un altro reato. Essa, inevitabilmente, condiziona il giudice ai fini della decisione sulla capacità a delinquere del colpevole essendo indice indicativo della pericolosità sociale annoverato espressamente tra quelli indicati dall’art 133 del codice penale. L’effetto principale, in questo caso, non costa l’applicazione di una misura di sicurezza ma il solo aumento di pena. In effetti, così come per l’applicazione delle misure di sicurezza, anche in tema di recidiva si presta maggiore attenzione alle condizioni soggettive dell’autore del reato piuttosto che ai fatti che compongono la singola fattispecie criminosa. Il rischio più evidente che determina un uso indiscriminato della recidiva è quello di rompere l’equazione pena-reato; la recidiva, potendo influenzare il giudice sulla sua decisione, “non rifugge dalla comminazione di pene sproporzionate per eccesso rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del commesso reato”[19]. Il fondamento della recidiva è insito nella concezione soggettivistica del diritto penale che mira principalmente a punire la volontà degli individui prima ancora che essa si traduca in fatti. Acconsentire ad un aumento indiscriminato di pena, quando si verifica la ricaduta nel reato, vuol dire che il “recidivismo viene in considerazione come indice per la classificazione del soggetto in una tipologia criminologica caratterizzata dalla abitualità al delitto”[20]. In sostanza recidivo è uguale a persona socialmente pericolosa. Ecco come le presunzioni della pericolosità sociale, abolite nel codice penale, rivivono, attraverso la prassi giurisprudenziale, come forme sintomatiche di pericolosità. In effetti l’istituto in esame ha alimentato parecchi dubbi sulla sua legittimità Costituzionale. Il motivo principale risiede nel fatto che un diritto penale sorretto dal principio di offensività non può condividere un residuo incardinato nella logica del diritto penale d’autore. Quando viene commesso un altro reato, seppur della stessa indole, l’aumento di pena non è giustificato da una maggiore gravità dei fatti commessi dall’autore; l’aumento avviene in funzione di una valutazione soggettiva che investe il reo, questo pregiudizio contamina la capacità di valutazione del giudice con elementi proprio del diritto penale d’autore[21].
La Corte Costituzionale, nel dichiarare l’illegittimità Costituzionale della aggravante della clandestinità – art 61 n. 11 bis –, ha chiarito il valore essenziale dei principi del diritto penale del fatto e del connesso principio di offensività.  Essa ha stabilito in modo rigoroso che “un soggetto deve essere sanzionato per le condotte tenute e non per le sue qualità personali.”[22] Questo concetto fondamentale, che ha ispirato più recenti sentenze della Corte Costituzionale, intende limitare gli aumenti di pena solo alle forme più aggressive di offesa ai beni giuridici, non alle ipotesi di presunte qualità negative dell’autore di reato. Sulla scia di quanto è avvenuto nell’ordinamento Tedesco, dove la recidiva è stata abolita già dal 1986, sembrano maturi i tempi per un abbandono dell’istituto in quanto è lontano dalla logica dell’offensività dei beni giuridici.[23] Ciononostante la recidiva continua ad essere un criterio diretto di prognosi criminale che fomenta pregiudizi di maggiore pericolosità e colpevolezza in capo al reo. Questa linea di rigore, orientata dall’esigenza di difesa sociale, ha influenzato non poco il legislatore Italiano in occasione della legge “ex Cirelli”. Essa ha comportato un aumento di pena per le varie ipotesi di recidiva oltre a reintrodurre, ex art. 99 comma 5 c.p., la recidiva obbligatoria ritenuta Costituzionalmente illegittima solo dieci anni più tardi[24]. Questa tendenza è stata indirettamente perseguita anche dalla riforma Orlando in tema di prescrizione. La riforma, infatti, prevede che il termine di prescrizione è aumentato della metà nei casi di recidiva ex art. 99 comma 2, a due terzi nei casi di recidiva ex art. 99 comma 4 e al doppio nei casi cui agli artt. 102, 103 e 105 cp. Il problema è che il legislatore pensa di poter contrastare la ricaduta nel reato esclusivamente attraverso l’inasprimento delle sanzioni. Però le misure penali e penitenziarie adottate fin ora, per combattere la criminalità, non hanno sortito l’effetto sperato. Tra le cause che favoriscono la reiterazione nel reato vi sono fattori personologici (ad es. immaturità, incapacità di adeguamento, indole aggressiva, scarsità di senso di colpa), fattori ambientali-situazionali (ad es. famiglia, condizioni sociali), la difficoltà di reinserimento sociale, gli effetti deleteri della carcerazione[25]. Il legislatore, anziché affidarsi a forme di responsabilità oggettiva che si basano sull’obsoleto concetto di socialmente pericoloso, dovrebbe intervenire sulle formazioni sociali più importanti al fine di incidere concretamente sulle devianze sociali.
Assenza di fondamento scientifico nella pericolosità sociale
Il concetto di pericolosità sociale è oggi in crisi. Si oscilla tra le posizioni storiche di chi, sulla base delle scienze antropologiche, ritiene di poter accertare, scientificamente, tale categoria utilizzando la perizia criminologica; e chi invece auspica per una radicale abolizione del concetto. Nel mezzo c’è chi ritiene che “se in nome della pericolosità non è possibile rinunciare all’idea della responsabilità, non è neppure più possibile in nome della responsabilità rinunciare alla categoria della pericolosità”[26]. Secondo questa teoria l’eliminazione della pericolosità sociale determinerebbe un rischio per i vuoti di difesa sociale che si verrebbero a creare. Proprio per tali ragioni, non si può assolutamente condividere l’idea che esista un delinquente pericolosamente innato, piuttosto una pericolosità solo eventuale. Il problema più rilevante della pericolosità sociale è quello di riuscire ad individuare un fondamento scientifico nella capacità a delinquere del reo[27]. Solitamente quando il giudice ordina una perizia psichiatrica, la finalità è quella di determinare: – la sussistenza della capacità di intendere e di volere che permetta all’imputato di partecipare coscientemente al processo penale (art. 70 c.p.p.); – se al momento in cui è stato commesso il fatto sussisteva tale capacità; – la pericolosità sociale del reo. Proprio in riferimento a quest’ultima si delineano i maggiori profili di criticità. In primo luogo si contesta come un giudizio sui fatti, che debba spettare esclusivamente al giudice, slitta, invece, in capo al medico che diviene titolare di un potere normativo, in tale contesto, che propriamente  non gli appartiene[28]. Non solo, come afferma autorevole dottrina “Mancherebbero, in particolare, procedure standardizzate, indispensabili per consentire quel controllo di affidabilità dall’esterno necessario per far assurgere la perizia psichiatrica al rango di prova scientifica”[29]. Il fatto di considerare un soggetto socialmente pericoloso, sulla base della sola perizia psichiatrica, appare quantomeno riduttivo. Il moderno sapere scientifico, infatti,  riconosce alla base dei disturbi psichici una multiformità di fattori, non solo di natura biologici, ma anche di tipo extrabiologico, e quindi psicologici, situazionali, socioculturali e transculturali.[30]  Forse il problema più evidente della pericolosità sociale è che essa è una categoria prettamente giuridica che si basa sui presupposti indicati dagli articoli 203 e 133 del c.p. Giova precisare, però, che la categoria della pericolosità sociale, intesa in senso psichiatrico è , invece, cosa ben diversa da quella intesa in senso giuridico. Quando il giudice ordina una perizia psichiatrica, per la determinazione della pericolosità sociale, lo psichiatra incontra notevoli difficoltà perché deve basarsi su categorie giuridiche e non cliniche.  In sostanza non possono essere fatte previsioni se non di tipo meramente statistico. Gli indicatori di pericolosità di cui all’articolo 133 c.p. sono a tale scopo inadatti. Invero lo stesso Ugo Fornari, professore di psicopatologia forense all’università di Torino, afferma l’assenza di fondamento scientifico della pericolosità sociale come prognosi criminale. Egli ritiene invece rilevanti una serie di fattori interni ed esterni per determinare la categoria da un punto di vista prettamente medico-psichiatrico. I fattori interni sarebbero quelli verificabili nel soggetto con una diagnosi e sono: a) persistenza di quei sintomi che hanno assunto valore di malattia alla luce del reato, b) assenza di consapevolezza della malattia, c) rifiuto o avversione per le terapie prescritte, idonee da un punto di vista medico, d) eventuale progressione dei disturbi psicopatologici. I fattori esterni, maggiormente rilevanti rispetto ai primi, denotano la capacità dell’individuo a risocializzare. Essi sono : a) caratteristiche dell’ambiente familiare e sociale di riferimento, b) esistenza ed idoneità dei servizi psichiatrici della zona in cui il soggetto si trova, c) possibilità di reinserimento lavorativo, d) grado di accettazione del rientro del soggetto nel contesto sociale di appartenenza, e) alternative di sistemazione logistica.[31] È evidente che i presupposti medico-scientifici e i presupposti giuridici della pericolosità sociale hanno fondamento e funzioni diverse.
Le difficoltà che incontra il Giudice nel far coincidere le categorie medico-scientifiche a quelle giuridiche, sono evidenti anche quando ad essere valutata è l’imputabilità del soggetto sottoposto a perizia. Infatti condividendo i consigli di quegli specialisti che propongono di abbandonare il riferimento alla capacità di intendere e di volere, al fine di evitare fuorvianti sconfinamenti nella metafisica, si propone di rinunciare a definire l’imputabilità in positivo, posto che consiste in un complesso di funzioni mentali impossibile da inquadrare in un paradigma di riferimento concretamente utilizzabile[32].                     Tralasciando le considerazioni in materia di imputabilità, che meriterebbero una trattazione separata, risulterebbe ancora più arduo rilevare la sussistenza della pericolosità sociale attraverso la sola perizia psichiatrica, salvo volersi accontentare di pareri indimostrabili perché mancanti di fondamento scientifico. Il giudizio di pericolosità, allora, appare alquanto duttile ed indeterminato e nonostante tutto la giurisprudenza ne ha fatto, e continua a farne, un uso spropositato[33]. Ulteriori profili di criticità di tale categoria possono essere rintracciati anche nel fatto che la prognosi criminale si basa su fatti già accaduti e completamente verificatisi per rintracciare la possibilità di ricaduta nel reato rispetto a degli eventi, però, che empiricamente ancora si devono verificare. Ecco allora che la pericolosità sociale diviene una “finzione giuridica”[34].Merita attenzione anche la posizione di chi sostiene il metodo c.d. per punti[35], cioè un criterio che ha come fondamento degli studi di settore, cioè un procedimento statistico con cui si cerca di calcolare , in base alla probabilità, quale potrà essere il comportamento futuro del delinquente sulla base di esperienze comportamentali costanti. Però, quando si tratta di effettuare una prognosi dei comportamenti umani, come nel caso della pericolosità sociale, è impossibile giungere ad un risultato univoco. Il fatto è che i comportamenti umani sono determinati da innumerevoli fattori (sociali, culturali, personali ecc.), per cui appare difficile determinare dei dati statistici di riferimento uguali per tutti[36]. Inoltre, il giudice , per verificare la pericolosità, avvalendosi di tale sistema, dovrebbe disporre di una equipe di esperti in diversi settori (psichiatrico, psicologico, sociale, statistico), con un conseguente aumento dei costi delle perizie[37]. Probabilmente è questo il motivo per il quale ci si affida, nella pratica forense, al solo mero intuito del giudice per la determinazione del giudizio di pericolosità sociale. Esso ha alla base la sola esperienza professionale e quindi un parametro prettamente soggettivo[38].
La perizia psichiatrica tra affermazioni scientifiche e rantoli argomentativi
Come già accennato, durante il procedimento di cognizione, il giudice può ordinare lo svolgimento di una perizia psichiatrica con l’intento di determinare la sussistenza della capacità di intendere e di volere, al momento in cui sono stati commessi i fatti, e di verificare la eventuale presenza della pericolosità sociale del reo. Quanto al primo giudizio sull’imputabilità, anche se risulta empiricamente difficile[39],di recente si tende comunque a riconoscere l’utilità di un apporto degli esperti in psichiatria; altrettanto, invece, non avviene per la prognosi di pericolosità sociale. In quest’ultimo caso, infatti, di fronte alle incertezze che la caratterizzano, in tanti propendono per esentare gli esperti dal valutarla. Ciò che accade il più delle volte, nello svolgimento di tali perizie, è l’identificazione del malato di mente con il soggetto delinquente. In altri termini si cerca di catalogare uno stereotipo di delinquente affetto da disturbi psichici che risponde ai sui impulsi criminogenetici, quasi come se fossero presenti nel suo genotipo. È ciò che è accaduto fino a non molto tempo fa quando, negli anni 70, “la persona prosciolta per infermità, e quindi ritenuta incapace di rispondere delle proprie azioni, veniva considerata socialmente pericolosa in quanto tale, perché per legge vi era la presunzione che l’infermità/incapacità/irresponsabilità comportassero sempre la pericolosità sociale”[40]. Oggi sembra che questa prassi giudiziaria stia avendo nuova vita. Intanto è necessario premettere l’assoluta infondatezza dell’assunto “infermità è uguale a pericolosità sociale”.
A dimostrarlo vi sono diversi studi statistici effettuati negli Stati Uniti tra gli anni 60’ e 70’[41]. Profonde critiche vengono mosse a quella parte di esperti in psichiatria che ritiene di poter individuare le radici della pericolosità sociale direttamente sul genoma umano, quasi come se si potessero catalogare dei soggetti sicuramente pericolosi perché scritto nel loro DNA. Secondo chi sostiene tali teorie, dagli studi sul DNA, sarebbe possibile individuare quei geni che codificano per comportamenti violenti ed antisociali. Non solo, attraverso delle tecniche di imaging del cervello, dalle zone che presentano un’alterazione della materia grigia, sarebbe possibile capire la maggiore o minore tendenza a compiere atti violenti o impulsivi. Se fosse possibile attraverso le tecniche di imaging del cervello (TAC, risonanza magnetica, PET), o attraverso gli studi di biologia molecolare, capire chi siano realmente i soggetti pericolosi dovrebbe essere rivisitata tutta la teoria normativa della colpevolezza! Queste teorie rappresentano un evidente rischio, perché ripropongono i limiti riduzionistici dei criteri medico-organicistici secondo i quali determinati soggetti, per natura, sarebbero maggiormente inclini al delitto. È evidente, allora, il fraintendimento. I giudici dovrebbero ancorare le loro decisioni a dei presupposti falsificabili e, come tali, scientifici. L’utilizzo delle neuroscienze per la determinazione della pericolosità sociale è un utopia; esse , come afferma Marta Bertolino, sono “scienze immature” cioè non godono di elementi di falsificabilità tali da poter acquisire il crisma della scientificità[42]. In questo campo è meglio lasciare la parola agli eserti che, con chiarezza, possono screditare efficacemente le neuroscienze. “Introdurre tali elementi in ambito giudiziario penalistico risulta operazione suggestiva ma priva di fondamento scientifico come si verrà ad ulteriormente chiarire nel prosieguo della nostra relazione peritale. […]
Le variazioni genetiche non sono una diretta causa di patologie mentali ma vanno interpretate come cause dirette di anormalità molecolari che a loro volta creano rischi per la malattia mentale. L’assunto teorico che sta alla base delle attuali ricerche di psicogenetica è che i geni non agiscono direttamente determinando patologie mentali, comportamenti o personalità. […] Una malattia mentale (e qui si sottolinea il fatto che si sta parlando di malattia e non di comportamento) non è causata da un singolo gene né da una singola anormalità molecolare genetica ma da contributi molteplici provenienti da uno svariato numero di geni e dalla interazione con fattori stressanti ambientali. Non si tratta quindi di una genetica dominante o recessiva ma un complesso quadro di fattori di rischio che può portare una persona verso una malattia senza essere causa di essa. Questo concetto si applica non solo alle patologie mentali come la schizofrenia ed il disturbo bipolare ma anche alla ipertensione e al diabete mellito. Secondo questo modello una persona eredita il rischio non la malattia. […] Non esiste alcun fondamento scientifico per poter affermare che varianti genetiche, asserite idonee come elementi predisponenti l’aggressione, potrebbero rendere i loro portatori (carriers) incapaci di reprimere un comportamento aggressivo e quindi impedire loro di scegliere correttamente comportamenti socialmente accettabili.
Un gene (e a maggior ragioni i vari polimorfismi) non esercita alcun effetto in termini di responsabilità”[43]. Il genoma umano è un’entità dinamica che va incontro a variazioni e mutazioni della sequenza nucleotidica determinata da una miriade di fattori diversi tra loro. È difficile, se non impossibile, dimostrare che essi possano realmente influenzare il comportamento umano e tradursi, quindi, in fenotipo[44]. L’agire umano, seppur influenzato da fattori ambientali o biologici, non può prescindere dalla ripulsione avverso comportamenti violenti ed antisociali. L’uomo, in quanto dotato di razionalità, è libero di scegliere comportamenti corretti e socialmente accettabili. Per tali ragioni, il Giudice, non può formare la sua decisione sulla pericolosità sociale attraverso delle prove che non sono unanimemente accettate e riconosciute dalla comunità scientifica. La perizia , non esclusivamente psichiatrica, può essere un valido strumento per poter capire quali sono stati i motivi del crimine[45], ma non può essere il canale attraverso il quale entrano nel processo penale le categorie “arcaiche di pericolosità sociale, obsolete e superate, espressione di un mondo politico, culturale e giuridico totalitario, non più idonee a rappresentare l’attuale realtà del diritto, delle istituzioni e della cultura giuridica e civile, e dovrebbero essere drasticamente abbandonate”[46].
 
[1] P. Nuvolone, Il rispetto della persona umana nell’esecuzione della pena, in trent’anni di diritto e procedura penale, I, Padova, 1969, p. 296.
[2] F. Antolisei, Pene e misure di sicurezza, in Scritti di diritto penale, Milano, 1955, p. 225.
[3] E. Musco, La misura di sicurezza detentiva. Profili storici e costituzionali, Milano,1978, p. 191 ss.; M. Bertolino, Profili vecchi e nuovi dell’imputabilità penale e della sua crisi, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1988, p. 252; P. Nuvolone, voce Misure di prevenzione e Misure di sicurezza, in Enc. dir., XXVI, Milano, 1976, p. 631; E. Musco, voce Misure di sicurezza, in Enc. Dir., Agg. I, Milano, 1997, p. 762; C. Peluso, voce Misure di sicurezza, in Dig. Disc. Pen., VIII, Torino, 1994, p. 145.
[4] U. Fornari, Trattato di psichiatria forense, Torino, 2008, p. 55 ss, afferma: “Lombroso volle spostare lo studio del delitto dal fatto all’individuo che lo commetteva, elaborando una dottrina bioantropologica deresponsabilizzante, deterministica e riduttiva, che tanta fama riscosse e ancora riscuote nel mondo intero. Essa nacque da un’osservazione casuale circa l’esistenza, là dove avrebbe dovuto esservi una cresta ossea, di un’anomalia morfologica congenita nel cranio di un delinquente. Il cranio di quest’uomo costituisce convenzionalmente l’atto di nascita dell’antropologia criminale. Sorse così lo stereotipo del delinquente nato.”
[5] A.Malinveri, voce Capacità a delinquere, in Enc. dir. VI, Milano, 1960, p. 118.
[6] A. Rossano, in Commentario al Codice di Procedura Penale, a cura di A. Giarda e G. Spangher, sub art. 220 c.p.p., Milano, 2007, p. 1567 ss
[7] F. Eramo, Il divieto di perizie psicologiche nel processo penale: una nuova conferma
della Cassazione, in Dir. pen. proc., VII, 2007, p. 933
[8] L. Cohen, N. Groth, R. Siegel, The Clinical Prediction of Dangerousness, in Crime and Delinquency, 1978, p. 28 ss.
[9] U.Fornari , Trattato di psichiatria forense, II, Torino, 1997 p. 158
[10] G. Fiandaca E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2011, P.813.
[11] Canepa Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Milano, 1991.
[12] Cfr. sentenze: Corte Cost., 20/01/1971 n. 1, in Giur. Cost. nota di Vassalli, con la quale la corte ha dichiarato illegittima la presunzione di pericolosità del minore non imputabile; Corte Cost.  27/07/1982, n. 139, Riv. It. Dir. Pen. Proc. Pen., 1982 p. 1585 con nota di E. Musco, con la quale la corte ha dichiarato illegittima la presunzione di pericolosità del prosciolto per infermità di mente (art. 222, comma 1, c.p.); Corte Cost.  28/07/1983, n. 249, Riv. It. Dir. Pen. Proc. Pen., 1984, p. 460, con nota di Giuri, con la quale la corte ha dichiarato illegittima la presunzione di pericolosità del seminfermo di mente (art. 219 c.p.).
[13] G. Ponti I. Merzagora Betsos, La abolizione delle presunzioni di pericolosità sociale, in Riv.it. Med. Leg., IX, 1989, p. 18 ss.
[14] U. Fornari, Trattato di psichiatria forense, cit., p. 142.
[15] F. Schiaffo, La pericolosità sociale tra “sottigliezze empiriche” e “spessori normativi: la riforma di cui alla legge n. 81/2014, in www.penalecontemporaneo.it., p.14 ss.
[16] F. Schiaffo, Le strategie per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari: il d.l. n. 52/2014 e lo ‘sguardo corto’ dell’interprete, in riv. Critica del diritto, 2014, p. 24 ss.
[17] Cfr. Ufficio di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, proc. n.71/2010 R.G.M.S.D., ordinanza del 1/3/2012; Ufficio di sorveglianza di Messina, proc. n.2909/10 Reg. Es. Mis. Sic., ordinanza del 10/11/2011; Ufficio di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, proc. n.97/2009 R.G.M.S.D., ordinanza del 18/1/2012.
[18] D. Pulitanò, Diritto Penale, Torino, 2013, p. 412
[19] Ibidem, Torino, 2013, p. 412
[20]  F. Mantovani, Diritto Penale, Padova, 2009, p. 643.
[21] E. Dolcini, La recidiva riformata. Ancora più selettivo il carcere in Italia, Riv. It. Dir. Pe. Proc., 2007, p. 516
[22] Cfr. Corte Cost. n. 249/2010 con nota di F. Viganò, Nuove prospettive per il controllo di costituzionalità in materia penale?, 2010, Giur. Cost., p. 3017 ss
[23]  Cfr. ancora F. Viganò, Nuove prospettive, cit.; E. Dolcini, La recidiva riformata, cit. p. 517
[24] Cfr. Corte Cost. n. 185, 23/07/2015, Pres. Criscuolo
[25] F. Mantovani, Diritto Penale, Padova, 2009, p. 650.
[26] F. Mantovani, Diritto Penale, Padova, 2009, p. 679.
[27] Per un esame delle difficoltà legate alla prognosi di pericolosità sociale, che ne hanno segnato la crisi epistemologica, tra gli altri, T. Padovani, La pericolosità sociale sotto il profilo giuridico, in Ferracuti (a cura di), Trattato di criminologia, Medicina Criminologica e Psichiatrica Forense, vol. XIII, Milano, 1990, p. 318 ss.; D. Petrini, La prevenzione inutile, Napoli, 1996, p. 294 s.; A. Mangione, La misura di prevenzione fra dogmatica e politica criminale, Padova, 2001, p. 59 ss.; A. Manna, Imputabilità, pericolosità e misure di sicurezza: verso quale riforma?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, p. 1426 ss.; G. Marinucci E. Dolcini, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 2012, p. 663 s., i quali parlano di «giudizio prognostico intrinsecamente insicuro» e di «profonda crisi» della categoria.
[28] G. Ponti I. Merzagora Betsos, Psichiatria e giustizia, Milano, 1993, dove si afferma che una parte della stessa psichiatria forense ha assunto un atteggiamento rinunciatario, invitando a potersi astenere dal fornire al giudice simili pareri, al fine di prevenire acritici coinvolgimenti in un improprio ruolo di legittimazione delle esigenze di controllo e di difesa sociale espresse dal sistema penale.
[29]M.T.Collica, La crisi del concetto di autore non imputabile “pericoloso”, in www.penale contemporaneo.it, p. 7 ss.
[30] U. Fornari, Temperamento, delitto e follia, in Riv .it. dir. proc. pen., 2001, p. 521 ss.
[31] U. Fornari, Trattato di psichiatria forense, Torino, 1997, p. 148 ss
[32] M.T.Collica, La crisi del concetto di autore non imputabile “pericoloso”, in www.penale contemporaneo.it.; V. Andreoli, La perizia psichiatrica, in Quaderni italiani di psichiatria, in www.pol-it.org., il quale chiarisce che non c’è psichiatra al mondo che distingua nel paziente, da una parte, l’intendere e, dall’altra, il volere, per cui quando è chiamato per una perizia chiede sempre la riformulazione del quesito con un ampliamento della premessa che lo investa anche della valutazione della personalità del soggetto, tenuto conto delle condizioni ambientali in cui vive e in cui ha agito. L’Autore manifesta, tuttavia, il disagio nel caso in cui debba poi comunque, per le conclusioni, ridurre la risposta finale al solo profilo della capacità d’intendere e di volere.
[33] M. Pelissero, Pericolosità sociale e doppio binario. Vecchi e nuovi modelli di incapacitazione, Torino, 2008, p. 107 ss.
[34] A. Mangione, La misura di prevenzione, cit., Padova, 2001, p. 201 ss.
[35] E. Musco, La misura di sicurezza, cit. Milano, 1978, p. 193 s.; P. Nuvolone, L’accertamento della pericolosità nel processo ordinario di cognizione, in AA.VV., Pene e misure di sicurezza. Modificabilità e suoi limiti., Milano, 1962, p. 35 ss.
[36] A. Mangione, La misura di prevenzione, cit., Padova, 2001, p. 121.
[37] M. Pellissero, Pericolosità sociale, cit., Torino, 2008, p.112.
[38] Sui rischi dell’uso assoluto del metodo intuitivo si rinvia a E. Musco, La misura di sicurezza, cit. Milano, 1978, p. 192 ss; G. Forti, L’immane concretezza. Metamorfosi del crimine controllo penale, Milano, 2000, p. 20 ss.; L. Fornari, Misure di sicurezza e doppio binario: un declino inarrestabile, in Riv.it.dir.proc.pen., 1993, p. 619 ss.
[39] M.T.Collica, La crisi del concetto, cit, p. 7ss; V. Andreoli, La perizia psichiatrica, cit.
[40] M. Novello, “Diagnosi psichiatrica e giustizia”, Milano, 2013, p. 173 ss.
[41] T. Bandini U. Gatti, Perizia psichiatrica e perizia criminologica: riflessioni sul ruolo del perito nell’ambito del processo penale, in Riv. it. med. leg., 1982, p. 322 ss.; T. Bandini, Criminologia, Milano, 1991; A. Manna, Diritto penale e psichiatria di fronte alla malattia mentale, in Rass. it. crim., 2000, p. 340, U. Gatti G. B. Traverso, Malattia mentale e omicidio. Realtà e pregiudizio sulla pericolosità del malato di mente, in Rass. it. crim., 1979, p. 77 ss., dalle quali si deduce che la delinquenza dell’infermo di mente non è percentualmente superiore a quella della popolazione “normale”.
[42] M.Bertolino, Il breve cammino del vizio di mente un ritorno al paradigma organicistico?, in Riv. Criminalia, 2008, p. 335 ss.
[43] Corte di Assise di Appello di Trieste, R.G. 3/2011, perizia psichiatrica collegiale dei Dott. Novello-Schenardi.
[44] Ibidem
[45] M.T.Collica, La crisi del concetto. cit., p. 10 ss.
[46] M. Novello “Diagnosi psichiatrica e giustizia”,cit., Milano, 2013, p. 181 ss.
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