Il comune non può impedire ad un condomino di ampliare i terrazzi di proprietà esclusiva solo perché è incerto sull’interpretazione di una clausola del regolamento di condominio
riferimenti normativi: artt. 1138 c.c.; 1367 c.c.
precedenti giurisprudenziali: Cons. Stato, Sez. V, Sentenza n. 1172 del 13/03/2014
La vicenda
Dopo aver acquistato due appartamenti dalla Società costruttrice, un condomino presentava al Comune una Scia che riguardava una serie di opere, tra cui l’ampliamento dei terrazzi delle predette abitazioni. L’autorità comunale, anche su sollecitazione degli altri condomini, si mostrava contraria alle modifiche dei terrazzi; il costruttore, però, aveva predisposto un regolamento contrattuale che era stato allegato ai rogiti di acquisito, previa accettazione da parte dei compratori dei singoli appartamenti. Una clausola di natura contrattuale prevedeva che la Società venditrice si riservasse la facoltà, senza dover chiedere specifica autorizzazione, agli altri proprietari del fabbricato di ampliare – allargare i terrazzi di tipo a lastrico di pertinenza degli appartamenti poi acquistati dal predetto condomino.
Secondo l’amministrazione comunale, però, la clausola regolamentare era stata concepita e scritta al solo fine di agevolare la Società costruttrice; di conseguenza riteneva che, dopo l’alienazione da parte di quest’ultima dei due appartamenti su cui avrebbero dovuto realizzarsi i lavori preannunciati dalla Scia, nessun altro avrebbe potuto vantare un tale diritto, da considerare intrasmissibile.
Il condomino impugnava davanti al Tar l’atto con cui l’amministrazione civica aveva inibito l’inizio delle preannunciate opere di ampliamento dei terrazzi.
Secondo il ricorrente il diritto di modifica contenuto nel regolamento contrattuale era pienamente valido e trasmissibile a titolo particolare; per il Comune, invece, l’atto impugnato era giustificato da i dubbi circa la legittimità del trasferimento, vantato dal ricorrente, del diritto di ampliare i terrazzi che la società costruttrice si era riservata con apposita pattuizione del regolamento condominiale.
La questione
Un’ingiunzione del Comune a non effettuare lavori rivolta ad un condomino può fondarsi su un semplice dubbio sull’interpretazione di una clausola di natura contrattuale di un regolamento di condominio?
La soluzione
Il Tar ha dato torto al Comune.
Secondo i giudici amministrativi, per interpretare un atto complesso come un regolamento condominiale non si può ricorrere ad argomenti insufficienti come quelli utilizzati dal Comune per ingiungere la sospensione degli effetti abilitativi della Scia.
In particolare, il Tar ritiene che il senso da attribuire alla clausola in contestazione non possa essere altro se non quello di ammettere che la società costruttrice poteva cedere ad altri il diritto di modificare i terrazzi, al fine di aumentare il valore di scambio del bene costruito; a conferma di questa tesi i giudici supremi si rifanno alla certificazione camerale della venditrice, da cui si ricava che essa è stata posta in liquidazione volontaria dopo la conclusione delle vendite degli appartamenti edificati; come notano i giudici supremi è, quindi, evidente che la Società costruttrice non volesse realizzare in proprio l’ampliamento dei terrazzi citati, atteso che la norma è stata inserita al fine di rendere più appetibile l’acquisto degli appartamenti di proprietà del ricorrente.
Le riflessioni conclusive
La clausola esaminata dal Tar ha menzionato la Società costruttrice come titolare del diritto di ampliare i terrazzi degli appartamenti poi acquistati dal ricorrente, ma non ha previsto né escluso la trasferibilità di tale diritto a terzi acquirenti.
A tale riguardo può, quindi, considerarsi che la trasmissibilità dei diritti dominicali sia la regola dell’ordinamento, e la deroga a tale previsione vada chiaramente espressa.
In ogni caso, è opportuno prendere in esame quanto stabilito dall’art. 1367 c.c. in tema di conservazione del negozio, ovvero, dell’opzione operata dalla legge a che una clausola o un contratto abbiano un senso piuttosto che non ne abbiano alcuno.
Alla luce di quanto sopra – come è stato correttamente sottolineato dal Tar – la lettura data dal Comune alla pattuizione del regolamento di condominio non avrebbe avuto alcuna possibilità di essere applicata, arrivando a previlegiare un’interpretazione che avrebbe comportato la definitiva inapplicabilità di una previsione piuttosto che la sua operatività.
Merita di essere ricordato che un regolamento condominiale (come quello della vicenda esaminata) si compone di previsioni in genere obbligatorie, per la lettura delle quali si applicano le norme introdotte dagli artt. 1362 e seguenti del codice civile.
In tema di interpretazione del contratto, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e dalle espressioni utilizzate nel contratto; il rilievo da assegnare alla formulazione letterale dev’essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale e le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro.
Per capire gli obiettivi della collettività condominiale, quindi, può bastare il senso letterale delle espressioni usate, se rivelino, però, con chiarezza ed univocità la comune volontà.
Così, ad esempio, la condivisa esigenza di chiarezza e di univocità che devono rivelare i divieti ed i limiti regolamentari di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva, coerente con la loro natura di servitù reciproche, comporta che il contenuto e la portata di detti divieti e limiti vengano determinati fondandosi in primo luogo sulle espressioni letterali usate.
L’art. 1362 c.c., del resto, allorché nel primo comma prescrive all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto, anzi intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile.
In caso contrario, per comprendere la reale intenzione dei condomini si deve andare al di là del “senso letterale delle parole” usate. Ci si può arrivare principalmente con due criteri:
il criterio del comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla conclusione del contratto (art. 1362, c. 2): se, ad esempio, le parti si sono sempre comportate come se la norma del regolamento avesse un certo significato è difficile sostenere ad un tratto che essa vada interpretata in un senso diverso;
il criterio dell’interpretazione contestuale, per cui ciascuna clausola regolamentare va interpretata non in modo avulso dal contesto in cui è inserita, ma alla luce di tutte le altre clausole che compongono il regolamento contrattuale (art. 1363).
Se i criteri soggettivi non risultano sufficienti si fa allora ricorso ai criteri di interpretazione oggettiva, i quali puntano non più a ricercare una “comune intenzione”, ma ad attribuire al testo ambiguo il senso, fra quelli possibili, più rispondente a valori di ragionevolezza, funzionalità, equità.
Fra tali criteri (che hanno valore sussidiario, perché entrano in gioco solo in seguito al fallimento dell’interpretazione soggettiva), ricordiamo:
il criterio dell’interpretazione secondo buona fede, per cui va scelto il significato che alla clausola del regolamento sarebbe attribuito dall’uomo medio, corretto e leale (art. 1366);
il criterio della conservazione, per cui va scelto il significato che attribuisce alla disposizione un qualsiasi effetto, e scartato quello che lo priverebbe di effetti (art. 1367);
in mancanza di un risultato, l’ultima possibilità rimane il ricorso agli usi interpretativi.
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