In tema di peculato, cosa deve essere ricompreso nella nozione di possesso o di detenzione qualificati dalla ragione dell’ufficio o del servizio

(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 314)
Indice:

Il fatto
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione 
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione 
Conclusioni

Il fatto
La Corte di Appello di Trieste confermava una sentenza del Tribunale di Udine che aveva condannato un pubblico ufficiale per il reato di peculato.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il provvedimento summenzionato il difensore dell’imputato proponeva ricorso per Cassazione, deducendo i seguenti motivi: 1) violazione di legge (artt. 192 e 533 cod. proc. pen.) e vizio di motivazione in quanto, ad avviso del ricorrente, la sentenza impugnata si era basata su elementi che non provavano la responsabilità del ricorrente al di là di ogni ragionevole dubbio; 2) inutilizzabilità delle deposizioni rese da taluni testi con riguardo alle dichiarazioni acquisite dall’imputato e confluite nelle relazioni di servizio e contestuale violazione degli artt. 62, 63 e 195, comma 4, cod. proc. pen. nonchè vizio di motivazione quanto all’utilizzabilità delle dichiarazioni rese da alcuni di questi testi; 3) vizio di motivazione per omessa assoluzione per insussistenza del fatto e violazione dell’art. 314 cod. pen., nonché violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., in relazione all’art. 609 cod. proc. pen., essendo il fatto qualificabile ai sensi dell’art. 646 cod. pen. e violazione dell’art. 531 cod. proc. pen. per omessa declaratoria dì prescrizione; 4) violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., in relazione all’art. 609 cod. proc. pen., essendo il fatto qualificabile ai sensi dell’art. 316 cod. pen. e violazione dell’art. 531 cod. proc. pen. per omessa declaratoria di prescrizione e, in subordine, ritenuti esistenti i presupposti sopra indicati, i fatti, ad avviso dell’impugnante, dovevano essere qualificati ai sensi dell’art. 316 cod. pen. in quanto l’imputato aveva profittato dell’errore del piantone nel ricevere la somma anziché consegnarla all’ufficio competente.
Sull’argomento vedasi: Redazione, Profili del reato di peculato; Antonio Di Tullio D’Elisiis, La Cassazione individua un particolare caso di peculato
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso era ritenuto inammissibile perché, secondo la Corte di legittimità, declinava censure precluse in sede di legittimità e manifestamente infondate.
In particolare, quanto alla seconda doglianza, era osservato, in punto di diritto, per determinarne la sua reiezione, che il divieto di testimonianza previsto dall’art. 62 cod. proc. pen. opera solo in relazione alle dichiarazioni rese dall’imputato alla polizia giudiziaria o al difensore, nell’ambito del contesto procedimentale relativo al fatto addebitato (Sez. 5, n. 38457 del 17/05/2019) fermo restando che restano escluse da tale divieto le dichiarazioni, anche se a contenuto confessorio, rese dall’imputato o dall’indagato ad un soggetto non rivestente alcuna di tali qualifiche (Sez. 5, n. 30895 del 09/03/2016), rilevandosi al contempo che costituisce principio consolidato quello secondo cui la questione dell’inutilizzabilità – nella specie, per violazione del divieto di assumere dichiarazioni, senza le necessarie garanzie difensive, da chi sin dall’inizio doveva essere sentito in qualità di imputato o indagato – non può essere proposta per la prima volta in sede di legittimità se richiede valutazioni di fatto su cui è necessario il previo vaglio, in contraddittorio, da parte del giudice di merito (tra tante, Sez. 6, n. 21877 del 24/05/2011; Sez. 6, n. 18889 del 28/02/2017).
Ciò posto, per quanto concerne invece il primo motivo, gli Ermellini ritenevano necessario esaminarlo alla luce dei principi in tema di “doppia conforme” e delle questioni sottoposte dal ricorrente alla Corte di Appello, rammentandosi, per addivenire a ritenere tale motivo infondato, che è inammissibile il motivo del ricorso per cassazione con cui si deduca la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen., anche se in relazione agli artt. 125 e 546, comma 1, lett. e), stesso codice, per censurare l’omessa o erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti o acquisibili, in quanto i limiti all’ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui alla lettera c) della medesima disposizione, nella parte in cui consente di dolersi dell’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020), tenuto conto altresì del fatto, da un lato, che la regola di giudizio compendiata nella formula “al di là di ogni ragionevole dubbio” rileva in sede di legittimità esclusivamente ove la sua violazione si traduca nella illogicità manifesta e decisiva della motivazione della sentenza, non avendo la Corte di Cassazione alcun potere di autonoma valutazione delle fonti di prova (tra tante, Sez. 2, n. 28957 del 03/04/2017), dall’altro, che, in tema di prova, il dubbio idoneo ad introdurre una ipotesi alternativa di ricostruzione dei fatti è soltanto quello «ragionevole», ovvero quello che trova conforto nella logica, sicché, in caso di prospettazioni alternative, occorre comunque individuare gli elementi di conferma dell’ipotesi ricostruttiva accolta, non potendo il dubbio fondarsi su un’ipotesi del tutto congetturale, seppure plausibile (tra tante, Sez. 3, n. 5602 del 21/01/2021).
Terminata la disaminata di questi due motivi, per quanto concerne gli altri due, gli Ermellini evidenziavano come questi, a loro avviso, declinassero questioni precluse e manifestamente infondate, quanto alla qualificazione giuridica del fatto.
In particolare, si trattava di questioni precluse poiché la difesa aveva proposto una ricostruzione dei fatti attingendo dati e circostanze direttamente tratti dal compendio probatorio mentre costituisce principio pacifico quello secondo cui la Corte di Cassazione, a seguito della presentazione di motivo dell’imputato non enunciato in appello, può procedere alla riqualificazione giuridica del fatto, ma solo entro i limiti in cui esso sia stato storicamente ricostruito dai giudici di merito (ex multís, Sez. 2, n. 17235 del 17/01/2018; Sez. 6, n. 6578 del 25/01/2013).
Chiarito ciò, esaminata quindi la questione alla luce di quanto emergeva dalle sentenze di merito, per la Corte di legittimità, a questo punto della disamina, andava rilevato che, secondo un consolidato orientamento di legittimità in tema di peculato, nella nozione di possesso o di detenzione qualificati dalla ragione dell’ufficio o del servizio sarebbe ricompreso non solo quello che rientra nella competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma anche quello che si basa su un rapporto che consenta al soggetto di inserirsi di fatto nel maneggio o nella disponibilità della cosa o del denaro altrui, rinvenendo nella pubblica funzione o nel servizio anche la sola occasione per un tale comportamento (Sez. 6, n. 33254 del 19/05/2016; Sez. 6, n. 9660 del 12/02/2015; Sez. 6, n. 12368 dei 17/10/2012); in particolare, era fatto presente che, con l’arresto n. 9660 del 2015, la Suprema Corte ha ritenuto corretta la decisione impugnata che aveva qualificato in termini di peculato la condotta di appropriazione del danaro contenuto in un portafoglio smarrito dal titolare, posta in essere dal carabiniere che aveva ricevuto in consegna il portafoglio dall’autore del rinvenimento.
Orbene, per il Supremo Consesso, il precedente in termini consentiva di ritenere manifestamente infondate le censure avanzate dal ricorrente, fermo restando come si riteneva necessario aggiungere la considerazione secondo la quale, anche accedendo all’orientamento più restrittivo, delineatosi di recente (Sez. 6, n. 45084 del 19/01/2021, Rv. 282290), non vi è spazio alcuno per una diversa qualificazione dei fatti posto che, secondo tale esegesi, è richiesto, per configurare il peculato, “un nesso di dipendenza” tra il possesso e l’ufficio o il servizio esercitato, con esclusione di situazioni in cui il possesso sia scaturito da una situazione contra legem o evidentemente abusiva.
Orbene, alla stregua di tali rilievi il ricorso era dichiarato inammissibile e il ricorrente era, pertanto, condannato, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento fermo restando che, considerato che non vi era ragione, per la Corte, di ritenere che il ricorso fosse stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità“, era, altresì, disposto che il ricorrente versasse la somma, determinata in via equitativa, di tremila euro, in favore della Cassa delle ammende.
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante essendo ivi affermato, citandosi giurisprudenza conforme, che, in tema di peculato, nella nozione di possesso o di detenzione qualificati dalla ragione dell’ufficio o del servizio sarebbe ricompreso non solo quello che rientra nella competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma anche quello che si basa su un rapporto che consenta al soggetto di inserirsi di fatto nel maneggio o nella disponibilità della cosa o del denaro altrui, rinvenendo nella pubblica funzione o nel servizio anche la sola occasione per un tale comportamento.
Pur tuttavia, come evidenziato, seppur incidentalmente, in questa stessa pronuncia, non può non farsi presente come vi sia un recente indirizzo nomofilattico, di segno contrario, secondo cui, invece, in tema di peculato, il possesso del bene oggetto di appropriazione presuppone un titolo di legittimazione che rinvenga la propria causa in disposizioni di legge od organizzative, non essendo sufficiente la mera disponibilità di fatto o occasionale, ovvero conseguente a un’espressa violazione delle norme disciplinanti il maneggio di denaro pubblico (così: Cass. pen., sez. VI, 19/01/2021, n. 45084).
Sarebbe dunque opportuno che su tale questione intervenissero le Sezioni Unite.
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