Cassazione: la distinzione tra abuso dei mezzi di correzione e maltrattamenti in famiglia ai danni dei figli che rifiutano di fare i compiti
I tempi cambiano.
In passato se un bambino per giocare con gli amichetti non faceva i compiti, nella migliore delle ipotesi rimediava uno schiaffo “leggero”, oppure uno che lasciava il segno delle cinque dita stampate sul viso almeno per l’intera giornata.
In quella età caratterizzata dall’innocenza, la parola d’ordine era “meglio fare i compiti in fretta e non bene che non farli”.
In altri tempi con la maestra si poteva rimediare il giorno seguente, con il papà non erano previsti “sconti” di sorta.
Secondo la Suprema Corte di Cassazione, in presenza di simili circostanze, si deve fare una distinzione tra abuso dei mezzi di correzione e veri maltrattamenti.
Un conto è lo schiaffo “leggero” per fare in modo che il bambino s’impegni, un altro, molto diverso, sono le botte.
Che cosa prevede il reato di abuso di mezzi di correzione
La legge ritiene responsabile del reato di abuso di mezzi di correzione e di disciplina chiunque ha abbia una posizione di autorità su determinati soggetti, ed ecceda nel metodo correttivo nei suoi confronti, con punizioni, castighi o minacce, causando nella vittima un rischio di danno alla salute ( art. 571 c.p.).
Il danno in questione, non è esclusivamente fisico ma anche psichico.
Ad esempio, un ragazzino al quale si vieta di vedere gli amici per diverso tempo.
Il dire a un figlio che non può vedere la televisione oppure giocare alla Play Station se non ha fatto i compiti non significa commettere un abuso.
Il genitore, insieme al diritto, ha il dovere di educare i figli, di conseguenza qualche punizione, anche se possa sembrare inaccettabile, fa parte dell’educazione di un minore.
Quello che si deve stabilire, è sino a dove ci si può spingere nel castigo, dove sia il confine tra il metodo correttivo doveroso e l’abuso che fa scattare il reato.
Il limite si oltrepassa quando si rischia di creare un danno alla salute del ragazzo, intendendo con questa espressione, il pericolo di lesioni fisiche o psichiche.
Le prime sono più evidenti da identificare mentre in relazione alle seconde arriva un aiuto da parte della Suprema Corte di Cassazione.
Si può trattare di stato d’ansia, insonnia, depressione o disturbi del carattere e del comportamento (Cass. sent. n. 16491/2005 del 07/02/2005).
Il genitore può punire il figlio in modo severo ma senza utilizzare determinati metodi in modo insensato o eccessivo.
Alla base della reazione del genitore ci deve essere un comportamento del bambino o del ragazzo pericoloso, dannoso o insolente (Cass. sent. n. 3789/1998 del 26/03/1998).
Il reato di abuso di mezzi di correzione e di disciplina viene punito con la reclusione sino a sei mesi. La pena è aggravata se dal fatto deriva una lesione personale, mentre nel caso più grave nel quale derivi la morte, si applica la reclusione da tre a otto anni.
Che cosa prevede il reato di maltrattamenti in famiglia
A differenza del reato del quale si è scritto nel paragrafo precedente, quello di maltrattamenti in famiglia ( art. 572 c.p.) non è relativo a un episodio isolato o casuale ma a una condotta comportamento abituale che insiste sulla violenza psicofisica in un lasso di tempo sufficientemente apprezzabile.
Si parla, di conseguenza, di molestie, percosse, minacce, ingiurie e vessazioni ripetute e prolungate nel tempo.
La pena che prevede il codice penale è la reclusione da tre a sette anni.
Può essere, per restare sul tema in questione, la circostanza che il genitore che sistematicamente picchia il figlio, non perché non ha fatto i compiti, ma perché non li ha fatti bene, perché ha preso un voto più basso rispetto a quelli che prende di solito, perché la maestra dice che lo vede distratto in classe, forse giustificata dal pensiero di quello che lo aspetta quando ritornerà a casa.
Picchiare il figlio perché non ha fatto i compiti rientra nell’abuso o nei maltrattamenti?
In questo paragrafo arriviamo al nocciolo della questione.
Picchiare il figlio perché non ha fatto i compiti è reato?
Se la risposta dovesse essere affermativa, si tratta di abuso di mezzi di correzione e di disciplina oppure di maltrattamenti in famiglia?
La Suprema Corte di Cassazione ha di recente ribadito che, quando il comportamento è reiterato nel tempo, si tratta di una condotta illegittima che va al di là dell’abuso dei metodi di correzione
(Cass. sent. n. 13067/2021 del 07/04/ 2021).
Nel caso specifico, c’erano le testimonianze della convivente e “la diretta percezione dei lividi, presenti sul corpo della bambina, da parte di una psicologa”.
Si è anche avvertita la “diversa epoca di produzione delle lesioni”, anche alla luce “del referto e della cartella clinica attestanti trauma con ecchimosi all’arto superiore sinistro, trauma agli arti inferiori e trauma del volto”.
La sentenza aggiunge che:
In presenza di maltrattamenti, ossia di una pluralità di atti che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o morale del soggetto passivo infliggendogli abitualmente tali sofferenze, la coscienza e volontà di persistere in un’attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, non è esclusa dall’intenzione di agire per finalità educative e correttive.
L’intenzione soggettiva del padre non è idonea in questo caso a legittimare l’ipotesi dell’abuso dei mezzi di correzione.
Questo significa che il reato di maltrattamenti scatta anche quando il genitore, ripetutamente, picchia il figlio che non ha fatto i compiti, pensando di agire a fin di bene.
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