Il fondamento del principio di precisione: il problema della legittimità convenzionale degli artt.8 e 75 D.lgs.159/2011
Introduzione
Il principio di precisione ha la funzione di guidare la mano del legislatore affinché le norme vengano scritte in modo chiaro, comprensibile e completo.
Lo si può concepire come espressione del “contratto” tra Stato e cittadino, ispirato alla reciproca collaborazione, in virtù del quale il primo garantisce formulazioni normative precise mentre il secondo adempie al dovere di comprenderle e rispettarle.
Il principio di precisione, al pari di altri corollari del principio di legalità, rappresenta dunque una garanzia per i consociati, affinché questi non siano incriminati sulla base di precetti incomprensibili. Una tale esigenza si è posta con riferimento alle c.d. “misure di prevenzione personali”, disciplinate dal d.lgs.159/2011, la cui funzione è quella di incidere sulla libertà di circolazione dei sottoposti e sui loro diritti patrimoniali, ovvero sui diritti di cui agli artt.13-42 Cost., artt.1 prot. 4 e 1 prot. 1 CEDU.
La formulazione scelta dal legislatore ha lasciato spazio a dubbi di legittimità costituzionale e convenzionale, tanto più con riferimento a quell’unica ipotesi di reato di cui all’art.75 d.lgs.159/2011 che ascrive la fattispecie criminosa a condotte contrarie a prescrizioni ritenute morali e generiche; tra queste, ad esempio, l’“honeste vivere” e il rispetto della legge”, che si accompagnano alla sorveglianza speciale.
Il problema alla base della presente disamina attiene al rischio che condotte del tutto prive di offensività o ascrivibili a meri illeciti amministrativi possano dar luogo all’incriminazione insita nella fattispecie di cui all’art.75 d.lgs.159/2011.
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Il principio di precisione quale corollario del principio di legalità nell’ordinamento interno e convenzionale
Appare legittimo domandarsi se la formulazione della norma possa dirsi conforme al principio di precisione, sì da consentire al “sorvegliato speciale” di autodeterminarsi consapevolmente nella scelta di comportamenti ritenuti offensivi.
Allo scopo è imprescindibile sviscerare il concetto di precisione in materia penale.
Il principio di precisione è quel principio che impone al legislatore di formulare precetti penali letteralmente intellegibili: tanto più un precetto è scritto in maniera precisa e completa, quanto più potrà essere recepito dai consociati dal punto di vista delle conseguenze fattuali e sanzionatorie.
Da ciò si evince che il principio di precisione ha un duplice destinatario: il legislatore, che sarà veicolato verso una formulazione chiara della norma e i cittadini, ai quali sarà preclusa la possibilità di invocare la scusante dell’errata comprensione.
Ne deriva che il principio di precisione è un sub-corollario del principio di riserva di legge, in forza del quale solo a una legge del Parlamento compete di individuare in via esclusiva le condotte criminose, rappresentando un’ulteriore garanzia di legalità formale/sostanziale ex art.25 comma 2 Cost. Se così è, allora anche il principio di precisione trova fondamento nell’art.25 cost.
Una norma precisa consente senz’altro al destinatario di comprenderne il contenuto e autodeterminarsi consapevolmente, non momento in cui decide di assumere una posizione antigiuridica.
Una norma imprecisa, diversamente, impedisce allo stesso di cogliere tutte le conseguenze fattuali, sanzionatorie e anche giurisprudenziali dell’illecito, tanto che l’agente non potrà dirsi colpevole ai sensi dell’art.27 Cost. Infliggere al soggetto una sanzione prevista da una fattispecie incomprensibile significa, invero, violare il divieto di irretroattività sfavorevole insito nell’art.25 comma 2 Cost.
Diverso dal principio di precisione è quello di determinatezza che opera principalmente a livello giurisdizionale: una norma penale si definisce indeterminata quando il fatto astratto in essa descritto non è suscettibile di verificazione empirica in sede processuale.
Pur costituendo i due principi sfumature differenti della riserva di legge sono spesso concepite in maniera sovrapposta. Tuttavia, è ben possibile che una norma possegga l’uno e manchi dell’altro, dando luogo in ogni caso ad un vizio di legittimità costituzionale.
Nel contesto europeo la norma che dà fondamento al principio di precisione è l’art.7 CEDU, il quale consacra il principio di legalità convenzionale che governa sia il reato che la sanzione “sostanzialmente” penale.
Sulla scia di questa norma la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha elaborato un’accezione del principio di legalità di più ampio respiro rispetto ai particolarismi nazionali, da cui si ricavano i principi di precisione, determinatezza, colpevolezza e irretroattività della norma sfavorevole.
La precisione convenzionale, a fianco alla determinatezza, è espressione del diritto di ciascuno di non veder retroagire, non solo la norma sostanziale, per essa intendendosi anche la sanzione formalmente amministrativa che possiede l’essenza della sanzione penale, ma anche la sua interpretazione giurisprudenziale, onde consentire al cittadino di autodeterminarsi consapevolmente.
Una tale accezione è il frutto di un compromesso o, per meglio dire, di una delicata convivenza tra civil law e common law, che sin dall’inizio ha ispirato la ratio della Convenzione e ha indotto gli interpreti a doversi piuttosto cimentare con un nuovo concetto: la “riserva di diritto”.
Una norma penale, così come una sentenza, può dirsi adeguatamente rispettosa del principio di legalità e dei suoi corollari quando sia “di qualità”, dal punto di vista della precisione, determinatezza, accessibilità, irretroattività.
I casi applicativi nella giurisprudenza della Consulta: delitto di plagio, disastro innominato e stalking
Nel contesto nazionale il difetto di precisione normativa è stato posto al vaglio della Consulta, intervenuta a dichiarare l’incostituzionalità dei delitti di plagio, ex art.603 c.p., di disastro innominato ex art.434 c.p. e di stalking ex art.612 bis c.p.
Con riferimento al delitto di plagio, al tempo equiparato ad una sorta di riduzione in schiavitù di carattere psicologico, il Giudice delle leggi (sent. n.96 del 9 aprile 1981) non ha posto in dubbio la precisione letterale della formula normativa, bensì l’idoneità della stessa a consentire la dimostrazione, mediante leggi scientifiche e dimostrazioni empiriche, del nesso eziologico tra la condotta e la “conculcazione dell’intimo volere”.
L’attenzione della Consulta si è spostata sul piano della determinatezza, piuttosto che su quello della precisione, rappresentando i concetti in questione due differenti estrinsecazioni del medesimo principio di riserva di legge.
Diversamente, il delitto di disastro innominato, contemplato dall’art.434 c.p. presenterebbe un’eccessiva vaghezza letterale, nella parte in cui la norma fa riferimento agli “altri disastri dolosi”.
L’utilizzo del termine “altri disastri” costituisce all’apparenza un’espressione di dubbia chiarezza, suscettibile di applicazione discrezionale da parte del giudice; tanto è vero che in quella locuzione è stata spesso ricondotta la figura del “disastro ambientale”, una fattispecie in verità dai caratteri affatto diversi.
La Corte (sent. n.327 del 1°agosto 2008) osserva, anche in questo caso, che il disastro innominato è compatibile con il principio di determinatezza, poiché va interpretato nell’ambito del quadro complessivo di riferimento. Dal sistema normativo, invero, è ricavabile la nozione unitaria di disastro, che si connota per una concentrazione spazio temporale.
Dal complesso normativo, afferma la Corte, si desumono due componenti essenziali di danno e di pericolo: quella dimensionale, ovvero le straordinarie dimensioni del fatto e quella offensiva, dovendo l’evento mettere in pericolo la vita e l’incolumità di un numero indeterminato di persone.
In definitiva il principio di precisione trova conforto nel concetto auto-evidente di “disastro” che si ripete in tutte le fattispecie precedenti, ossia “quell’evento distruttivo di proporzioni straordinarie volto a produrre effetti dannosi gravi e costituente un pericolo per la vita e l’incolumità fisica di un numero indeterminato di persone”.
Con riferimento invece al delitto di stalking, disciplinato dall’art.612 bis c.p., il sospetto di incostituzionalità per violazione del principio di determinatezza si è posto con riguardo alla specificazione dei termini molestia o minaccia, alla durata minima delle condotte reiterate e allo stato di ansia e paura indotto nella vittima.
La Consulta (sent. n.172 dell’11 giugno 2014) evita l’incostituzionalità dell’art.612 bis c.p. attraverso un’interpretazione salvifica incentrata sul carattere sistematico della determinatezza: si afferma che il concetto di molestie o minacce va definito rinviando allo specifico reato sulla copiosa giurisprudenza ne ha già definito il contenuto quale prospettazione di un male futuro che altera in maniera fastidiosa la psiche dell’individuo.
Per quanto riguarda il termine reiterazione, viene chiarito che sono necessarie almeno due condotte, delle quali persiste un dubbio su quale deve essere tuttavia la distanza temporale tra loro sussistente.
Lo stato di ansia e paura e il fondato timore per l’incolumità costituisce invece un evento che riguarda la sfera emotiva e psicologica, il cui accertamento va rimesso al vaglio concreto dell’osservazione medica di segni e sintomi comportamentali.
Questi sono solo alcuni dei temi affrontati dalla giurisprudenza italiana attinenti le conformità delle norme penali ai principi esaminati.
Le misure di prevenzione personali e patrimoniali: i dubbi di di legittimità convenzionale in merito al rispetto del principio di precisione
L’argomento che ci si accinge ad affrontare ha ad oggetto le misure di prevenzione personali e patrimoniali, disciplinate dal D.lgs.159/2011 (Codice Anti-mafia), nonché il reato contemplato dall’art.75 del medesimo testo normativo, la cui consumazione di realizza a seguito della violazione delle prescrizioni di cui all’art.8.
L’attuale disciplina rappresenta l’approdo di un evoluzione storico-giuridica che ha avuto quale punto di riferimento la lotta alla criminalità organizzata genericamente intesa e in seguito alle associazioni mafiose. Ciò, in particolare, mediante un’azione diretta a individuare, colpire e sottrarre gli ingenti patrimoni frutto delle cospicue attività criminose.
Il codice vigente costituisce una forma di riassetto e razionalizzazione della normativa preesistente, tanto che in esso confluiscono sia la L.1423/56 che la L.646/1982 e in esso trova disciplina la misura della “sorveglianza speciale” ordinaria e qualificata.
Quest’ultima è una misura personale preventiva che non presuppone l’accertamento di una fattispecie criminosa, in ciò divergendo dalle misure di sicurezza.
Nel quadro di politica criminale la ratio dell’istituto era quella di elidere sul nascere le potenziali attività criminose collegate agli ambienti mafiosi, attribuendo maggior importanza alla fase preventiva, piuttosto che all’accertamento giudiziale di un fatto potenzialmente in essere.
Per tale spetto le misure di prevenzione sembrano porsi in maniera disarmonica rispetto all’art.13 Cost., ovvero all’idea secondo cui la restrizione della libertà personale sia subordinata all’accertamento di un fatto penalmente rilevante.
L’ art.1 consente di inquadrare i criteri di identificazione soggettiva ai fini dell’applicazione, sia della sorveglianza che delle misure patrimoniali del sequestro e della confisca.
Con una locuzione alquanto generica, il comma 1 lettera a) individua i c.d. “pericolosi generici”, ovvero coloro che “sulla base di elementi di fatto sono abitualmente dediti a traffici delittuosi”.
La lettera b), invece, si riferisce a coloro che, sulla base della condotta e del tenore di vita, abitualmente vivono dei proventi delle loro attività criminose.
A mente della Corte EDU tali criteri, volti a identificare il “pericoloso generico”, violerebbero i principi di precisione, determinatezza e prevedibilità, poiché concederebbero al giudice margini di apprezzamento e discrezionalità troppo ampi.
In particolare si ritiene che “l’abitualità della condotta e del tenore di vita” richiamati dall’art.8 costituiscano un indizio legato alla soggettività dell’individuo, che prescinde dalla materialità delle condotte, richiamando alla memoria istituti del vecchio “stato di polizia”.
Già di per sé la misura di prevenzione, come accennato, evoca un meccanismo di valutazione ex ante dell’agire che mal si concilia con il diritto penale del fatto, dell’offesa e della responsabilità colpevole, secondo cui l’azione può essere repressa solo nella misura in cui sia prevista dalla legge come reato.
Assumendo quindi che tale distonia possa essere compensata dalla ratio dell’istituto, funzionale a prevenire tipologie di reati legati alla criminalità mafiosa, è altrettanto vero che non si giustifica una formulazione del precetto tanto elastica, o più precisamente ostica, sia per il destinatario della misura che non è in grado di prevedere l’esatta portate dell’ordine, sia per il giudice al quale sarebbe lasciato un margine di intervento poco definito.
Allo scopo la Corte EDU ha rilevato che la normativa antimafia andrebbe a ledere al diritto alla libertà di circolazione, di cui all’art.2 Prot.4 CEDU, mediante la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale, nella parte in cui individua come destinatari della misura soggetto cosiddetti pericolosi generici, ossia a) “coloro che debbano ritenersi sulla base di elementi di fatto abitualmente dediti a traffici delittuosi” e b) coloro che per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi delle attività delittuose”. Cosicché proprio per il fatto che tali condizioni costituiscono il presupposto non soltanto della misura della sorveglianza speciale ma anche di quelle patrimoniali del sequestro e della confisca, la corte di Strasburgo ha ritenuto le stesse altrettanto lesive dell’art.1 Prot.1 CEDU, che tutela il diritto di proprietà, annoverandolo, a differenza della nostra Costituzione, tra i principi fondamentali e inderogabili dell’uomo,
3. La dubbia formulazione degli arti.8 e 75 d.lgs.159/2011: l’honeste vivere e il rispetto della legge nella giurisprudenza “De Tommaso c. Italia”
Il secondo punto nevralgico affrontato dalla Corte EDU è rappresentato dalle condizioni previste dall’art.8, la cui ricorrenza determina l’applicazione della misura di sorveglianza speciale, ma soprattutto integra la fattispecie di reato di cui all’art.75 d.lgs-159/2011: il vivere onestamente e rispettare le leggi
Nello specifico, incorre nel reato il soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale che viola le prescrizioni impartite dal giudice secondo la procedura di cui all’art.8, stessa legge.
Tale aspetto è stato oggetto di analisi da parte della Consulta che con la nota Ord. n. 25/2019, argina l’ordinanza di rimessione della Seconda sezione della Corte di Cassazione del 26 ottobre 2017, con cui si è sollevata la questione di legittimità costituzionale delle due prescrizione per violazione degli artt.25 e 117 Cost., 7 CEDU e 2 Prot. 4 CEDU.
La pronuncia in questione rappresenta, tuttavia, solo l’approdo di un dibattito giurisprudenziale che vede quale riferimento non solo la censura della Corte EDU, ma anche la pronuncia delle Sezioni Unite “Paternò” (SS.UU. sent. n. 40076/2017), con le quali il giudice di legittimità, mediante un’interpretazione conforme, ha pienamente recepito la giurisprudenza “De Tommaso”.
In particolare le Sezioni Unite osservano come l’art.75 sia caratterizzato da una struttura che rinvia per relationemall’art.8, un rinvio che può dirsi conforme al principio di precisione solo limitatamente a quelle prescrizioni che possono considerarsi chiare e determinate, ma non anche ai precetti imputati del vivere onestamente e rispettare le leggi.
L’art.75 infatti contempla la sanzione della reclusione da uno a 5 anni per il sorvegliato speciale con obbligo o divieto di soggiorno (c.d. “qualificato”) che abbia violato taluna delle prescrizioni accessorie di cui all’art.8, sia la contravvenzione dell’arresto da tre mesi a un anno per il sorvegliato speciale “semplice” che ha sempre violato le medesime prescrizioni. L’art.75 è dunque una norma che dispone un rinvio per relationem all’art.8, il quale a sua volta disciplina al comma 3 la procedura di applicazione della sorveglianza speciale.
Al comma 4 dell’art.8 il legislatore sancisce invero che, a prescindere dal tipo di misura, il giudice deve in ogni caso prescrivere gli obblighi accessori del “vivere onestamente” e “rispettare le leggi”, il cui contenuto indefinito può dirsi violato per mezzo di condotte differenti, idonee a integrare sia altre fattispecie di reato in concorso a quella di cui all’art.75, sia comportamenti dalla dubbia configurabilità e qualificazione offensiva .
Sulla scorta della sentenza “De Tommaso c. Italia“, fulcro centrale della questione di legittimità costituzionale, le Sezioni Unite Paternò avevano ritenuto contrario al principio di precisione e di prevedibilità il concetto di honeste vivere, non potendo la condotta de qua integrare una fattispecie criminosa idonea a orientare il comportamento sociale richiesto: la formula normativa non consentirebbe al soggetto di individuare con precisione cosa gli è consentito fare e cosa no, sì da evitare la commissione del reato.
Per ciò che concerne il rispetto della legge, anch’essa viene reputata una prescrizione altrettanto generica, poiché è idonea a ricomprendere qualunque precetto, anche di natura extra penale che contempli una sanzione.
Si prenda ad esempio la guida del ciclomotore senza uso del casco. Questa condotta che normalmente comporta un’infrazione amministrativa, stando alla lettera della norma integrerebbe il reato in questione.
La portata applicativa della prescrizione diviene così ampia e sproporzionata rispetto a un “infrazione lieve”, ove manca quell’offensività richiesta dal fatto antigiuridico.
In definitiva la pronuncia delle SS.UU. “Paternò” del 2017, con la quale i Giudici di legittimità riconoscono la piena vincolatività della giurisprudenza “De Tommaso” procedono esse stesse ad emendare il contrasto tra diritto interno e diritto convenzionale mediante un’opera di interpretazione costituzionalmente conforme, secondo l’insegnamento della sent. n.364/1988, ma allo stesso tempo rispettosa del precetto convenzionale. Allo scopo si propone, come affermato, una lettura dell’art.75 comma 2 tassativizzante o tipizzante della fattispecie, il più possibile aderente ai principi di precisione e prevedibilità convenzionali, affermando la non configurabilità del reato nell’ipotesi in cui ricorrano le già censurate condotte generiche del vivere onestamente e rispettare le leggi.
Con l’Ordinanza n.25/2019, interviene finalmente la Corte Costituzionale che, alla luce delle pregresse pronunce di nomofilachia, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.75 nella parte in cui prevede come delitto e come contravvenzione l’ipotesi in cui il sorvegliato speciale viola l’obbligo del vivere onestamente e del rispettare le leggi.
La Consulta ha però ritenuto opportuno soffermarsi e ritenere fondate un duplice ordine di questioni controverse: quella sottoposta dalla sezione rimettente della Cassazione, ovvero se la pronuncia delle Sezioni Unite possa considerarsi abrogativa della fattispecie di reato (abolito crimini) e dunque possa incidere sul giudicato penale di condanna e, in secondo luogo, se la giurisprudenza della Corte EDU possa qualificarsi come giurisprudenza stabile o diritto consolidato, al punto da aver una portata retroattiva su giudicati intervenuti anteriormente.
Per ciò che concerne il primo aspetto, la soluzione negativa a cui perviene la Corte, richiamando la propria precedente giurisprudenza del 2012 (sent.230/2012) si fonda sul principio in base al quale una sentenza delle Sezioni Unite ha soltanto una valenza dichiarativa e ciòè cosa diversa dallo ius superveniens o da una pronuncia di illegittimità costituzionale, sole condizioni idonee a produrre effetti retroattivi sul giudicato. l’abolito criniminis non può invece essere provocata da una sentenza di legittimità la quale, per quanto eminente, non può espungere dall’ordinamento una fattispecie criminosa, ancorché contraria alla Costituzione o alla CEDU.
In definitiva solo la pronuncia di incostituzionalità rappresenta il mezzo deputato a rendere inesistente ab origine una norma illegittima e di conseguenza incidere sul giudicato penale di condanna.
Riguardo alla seconda questione la Consulta ritiene di considerare la giurisprudenza De Tommaso come “un approdo giurisprudenziale stabile” e come “diritto consolidato”, affermando che in in questo senso si è posta non solo la pronuncia “Paternò” ma anche la Consulta medesima con l’Ordinanza n.24/2019.
Non di meno la ratio della normativa, volta a prevenire la commissione dei reati, non si pone in maniera del tutto distonica rispetto ai principi enunciati nella CEDU, soprattutto in quella parte dell’art.8, diversa delle prescrizione dell’ honeste vivere e del rispettare le leggi, ritenuta sufficientemente determinata e precisa, tanto da consentire al giudice di modulare il contenuto della sorveglianza speciale.
Conclusioni
La conclusione cui è possibile pervenire sulla base di questa non esaustiva analisi del panorama normativo e della giurisprudenza più recente in materia, consente di affermare che la disciplina in materia di sorveglianza speciale di cui al D.lgs. 159/2011, con particolare riferimento al reato di cui all’art.75, deve considerarsi parzialmente illegittima per violazione degli artt. 117 Cost., 7, 1 prot. 1 e 1 prot.4 CEDU, in quanto contraria al principio di tassatività e dunque di precisione, chiarezza e prevedibilità.
Ciò in quanto le prescrizioni dell’honeste vivere e del rispetto della legge peccano di quella precisione e chiarezza che consentirebbero al sorvegliato di autodeterminarsi nelle azioni; le stesso impediscono altresì di comprendere la portata effettiva dell’offensività del “fatto” che normalmente è richiesta dal principio di legalità e dai suoi corollari.
L’inattitudine delle prescrizioni di assurgere a “fattispecie penalmente rilevante”, affermata anche dalle Sezioni Unite 2017, deve tuttavia ritenersi una conseguenza della declaratoria di illegittimità costituzionale e non anche effetto di una giurisprudenza che, seppur eminente, non ha la capacità abrogativa della norma.
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