L’assenza di offensività agli occhi del “lettore medio” esclude il reato di diffamazione
Corte di Cassazione – Sez. V Penale – sentenza 1 aprile 2020 n. 10967
Pres. Vessichelli – Est. Pezzullo
Sommario
Massima – 2. Abstract (italiano) – 3. Abstract (inglese) – 4. Premessa – 5. Ricostruzione dei fatti – 6. Il reato di cui all’art. 57 c.p. – 7. Il “lettore medio” e il “lettore frettoloso” secondo la lettura della Suprema Corte
Massima
“Non può configurarsi il reato di diffamazione, presupposto del reato di cui all’art. 57 c.p., quando il lettore medio, sulla base di tutti gli elementi contenuti nella pubblicazione di un articolo di giornale, senza effettivi sforzi o particolare arguzia, è perfettamente in grado di avvedersi del fatto che la persona effigiata non ha nulla a che vedere con il soggetto cui si riferisce il titolo dell’articolo, con conseguente inoffensività della pubblicazione.”
Abstract
La sentenza in commento si colloca nell’ampio filone giurisprudenziale occupatosi della rilevanza penale di contenuti pubblicati dal giornalista nell’esercizio della sua attività professionale e della conseguente ravvisabilità di una responsabilità ex art. 57 c.p. in capo al direttore responsabile del periodico. Nella pronuncia de qua la Cassazione precisa che, affinché possa ritenersi perpetrato il reato di diffamazione – nonché la conseguente fattispecie criminosa di cui all´ art. 57 c.p. -, occorre che il carattere offensivo della pubblicazione sia percepibile senza particolari sforzi anche agli occhi di un lettore medio.
Premessa
La sentenza in commento si colloca nell’ampio filone giurisprudenziale occupatosi della perpetrazione di condotte penalmente rilevanti da parte del giornalista nell’esercizio della sua attività professionale, così come del delicato bilanciamento che il giudice è chiamato a svolgere tra norme incriminatrici – come quella contenuta all’art. 595 c.p. disciplinante il reato di diffamazione – e varie norme costituzionali – come l’art. 21 Cost. che riconosce all’individuo la libertà di manifestare il proprio pensiero -.
Accanto all’ormai consolidato orientamento che ritiene il reato di diffamazione scriminato alla luce della causa di giustificazione ex art. 51 c.p. dell’esercizio di un diritto (nel dettaglio, il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero) al rispetto dei requisiti della veridicità della notizia, della continenza formale e della rispondenza della pubblicazione ad un interesse collettivo all’informazione; si accosta la presente ulteriore argomentazione sostenuta dalla Cassazione.
Nei passaggi argomentativi svolti dagli Ermellini viene evidenziata la necessità di poter ravvisare, agli occhi del lettore medio che si accinga alla lettura di un articolo, il carattere offensivo e lesivo dell’altrui reputazione dei contenuti così pubblicati, stante in caso contrario l’impossibilità di ritenere integrato tanto il reato di diffamazione di cui all’art. 595 c.p. quanto l’autonoma fattispecie di cui all’art. 57 c.p. in capo al direttore responsabile del giornale.
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Ricostruzione dei fatti
In data 06.02.2017 il Tribunale di Milano condannava, ai sensi dell’art. 57 c.p. in combinato disposto con l’art. 595 I e II comma c.p., il direttore responsabile di un quotidiano per aver omesso di esercitare il doveroso controllo sui contenuti del giornale atto ad evitare la pubblicazione di contenuti diffamatori e lesivi dell’altrui reputazione.
Nella specie, l’articolo che era stato pubblicato sul quotidiano oggetto di giudizio recava come titolo “Certificati al telefono, medico condannato” e descriveva una problematica deontologica relativa alla professione medica in generale, consistente nel rilascio di certificati medici per telefono, anziché all’esito di opportuna visita medica. A tale articolo veniva poi allegata la foto raffigurante un medico nell’atto di mostrare ad un paziente una lastra radiografica, la cui allegazione aveva il mero scopo di classificare ictu oculi l’argomento successivamente trattato nell’articolo – ossia una questione relativa alla professione medica in generale – senza che vi fosse attinenza alcuna tra il medico raffigurato nella foto così allegata e quanto oggetto di trattazione nel relativo articolo.
Il Giudice di primo grado aveva ritenuto ravvisabile la sussistenza del reato di cui all’art. 57 c.p. in capo al direttore responsabile del quotidiano, in quanto il medesimo, avendo omesso di esercitare il dovuto controllo sui contenuti del periodico, aveva fatto sì che l’articolo de quo assieme alla foto allegata venissero pubblicati, così causando un’indebita lesione all’onore e alla reputazione del medico effigiato, pur essendo questi del tutto estraneo ai fatti esposti nell’articolo.
All’esito della decisione della Corte d’Appello di Milano che, in data 27.03.2019 confermava la sentenza del giudice di primae curae, il direttore del quotidiano proponeva ricorso per cassazione, lamentando l’erronea contestazione del reato presupposto di cui all’art. 595 c.p. nonché la conseguente inconfigurabilità del reato di cui all’art. 57 c.p. e dolendosi, in particolare, dell’erronea ricostruzione effettuata in primo grado e confermata dalla Corte d’Appello in merito alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato addebitatogli, in quanto la foto allegata all’articolo aveva il mero scopo di contestualizzare l’argomento successivamente trattato – riguardante appunto la professione medica – senza che fosse ravvisabile alcun collegamento tra la prassi deontologicamente scorretta descritta nell’articolo e il medico raffigurato nella foto stessa.
Il reato di cui all’art. 57 c.p.
Per quanto attiene ai profili più strettamente teorici inerenti alla vicenda de qua, il reato di cui all’art. 57 c.p. – il quale, sotto la rubrica “Reati commessi col mezzo della stampa periodica” letteralmente dispone che “Salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione e fuori dei casi di concorso, il direttore o vice-direttore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati, è punito a titolo di colpa, se un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non eccedente un terzo” – consiste in un reato proprio che può essere pertanto integrato solo dal titolare di una particolare qualifica soggettiva, quale quella di direttore (o vice-direttore) responsabile di un periodico.
Trattasi di un’autonoma ipotesi di reato colposo strutturato in forma omissiva, che profila in capo al direttore responsabile una sorta di culpa in vigilando per omesso controllo circa il contenuto del periodico dallo stesso diretto e che richiede, per la sua stessa integrazione, la preventiva commissione del reato presupposto di diffamazione di cui all’art. 595 c.p., addebitabile al giornalista autore dell’articolo contenente espressioni diffamatorie in quanto lesive dell’altrui reputazione.
Tuttavia la suddetta ricostruzione in merito alla natura del reato di cui all’art. 57 c.p. ha prestato il fianco a critiche avanzate da parte di altre teorie ricostruttive elaborate in dottrina, le quali hanno evidenziato, sulla base del percorso storico e legislativo che ha condotto alla formulazione – nonché alle successive modifiche – dell’art. 57 c.p., una diversa ratio e natura della previsione in commento.
Segnatamente, l’originaria disposizione introdotta dal Legislatore del 1930 nel Codice Rocco disponeva che “Qualora si tratti di stampa periodica, chi riveste la qualità di direttore o redattore responsabile risponde, per ciò solo, del reato commesso, salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione”, la cui espressione “per ciò solo” condusse un’attenta dottrina a ritenere configurata nell’alveo dell’articolo in esame una forma di responsabilità oggettiva, notoriamente incompatibile con il principio di colpevolezza di matrice costituzionale e con il doveroso carattere personale della responsabilità penale addebitabile al reo.
Le prime pronunce della giurisprudenza sul tema si dividevano in merito alla diversa tipologia di responsabilità ravvisabile in capo al direttore responsabile del periodico.
Vi era chi riteneva sussistente in capo al direttore (o, al tempo, redattore) una responsabilità per fatto proprio fondata sull’omesso controllo da esercitarsi sul contenuto del giornale, il che tuttavia causava problematiche nella ricostruzione del nesso di causalità tra la condotta del direttore e il conseguente evento lesivo consistente nella pubblicazione del contenuto diffamatorio.
Altra corrente giurisprudenziale riteneva invece si trattasse a tutti gli effetti di una responsabilità obiettiva, la cui colpa veniva provata non sulla base dell’accertamento della violazione di regole cautelari e della prevedibilità ed evitabilità dell’evento di danno (come l’atteggiamento psicologico della colpa effettivamente richiede), bensì veniva surrettiziamente desunta dall’avvenuta violazione del dovere di controllo posto a capo del direttore.
Sulla base delle critiche appena lumeggiate, con la Legge n. 127 del 1958[1] si giunse all’attuale formulazione dell’art. 57 c.p., fugando così le più critiche perplessità circa la possibilità di ritenere configurata una forma di responsabilità oggettiva, che prescinde da un concreto accertamento circa l’atteggiamento psicologico colposo del soggetto agente.
Oggi la dottrina maggioritaria, nonostante la presenza di marginali tesi dissenzienti, ritiene che l’art. 57 c.p. profili una forma di responsabilità omissiva per fatto proprio, che richiede la sussistenza del reato presupposto ex art. 595 c.p. addebitabile all’autore della pubblicazione, integrato in tutti i suoi elementi costitutivi, tanto oggettivi quanto soggettivi.
La colpa ravvisabile nella condotta del direttore responsabile viene oggi desunta dalla violazione di regole cautelari (così come questo atteggiamento di rimproverabilità soggettiva effettivamente richiede), ossia le leges artis che in campo redazionale impongono al direttore di verificare il contenuto degli articoli che vengono pubblicati sul periodico da lui diretto onde evitare, con la pubblicazione stessa, l’integrazione di fattispecie penalmente rilevanti.
Ulteriore punto chiarito dalle argomentazioni dottrinarie e dalle conseguenti applicazioni giurisprudenziali si riferisce alla clausola di riserva con cui si apre l’art. 57 – “Salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione e fuori dei casi di concorso (…)” – stabilendo come il direttore del periodico possa rispondere direttamente del reato di diffamazione di cui all’art. 595 c.p. – e non dell’autonoma fattispecie ex art. 57 c.p. integrata dall’omesso controllo – qualora abbia egli stesso posto in essere atti diretti a ledere l’altrui reputazione.
Inoltre, il direttore del periodico potrà concorrere nel reato di diffamazione con il giornalista che ha redatto l’articolo qualora l’omesso controllo da parte del direttore del periodico sia avvenuto con la cosciente volontà di cooperare nella perpetrazione del reato di diffamazione, ove pertanto “occorre dimostrare che il direttore abbia voluto la pubblicazione nell’esatta conoscenza del suo contenuto lesivo e, quindi, con la consapevolezza di aggredire la reputazione altrui”[2].
Il “lettore medio” e il “lettore frettoloso” secondo la lettura della Suprema Corte
La Corte di Cassazione, investita del ricorso proposto dal direttore responsabile del periodico, ha precisato come il carattere – asseritamente – diffamatorio (quale presupposto per la successiva contestazione del reato di cui all’art. 57 c.p.) fosse stato ravvisato, nei precedenti giudizi di merito, non tanto nel contenuto dell’articolo in sé, quanto nell’accostamento all’articolo stesso di una foto raffigurante un medico del tutto estraneo alla vicenda narrata.
Era infatti stato ritenuto che l’associazione visiva fatta tra l’articolo – già di per sé connotato da una carica negativa in quanto il titolo recava l’espressione “medico condannato” – e la foto, è stata tale da ingenerare agli occhi del lettore medio l’erronea convinzione che fosse proprio il medico raffigurato nell’immagine il protagonista della vicenda poi descritta nell’articolo.
Tuttavia, l’interpretazione correttiva offerta dalla Corte di Cassazione, ha fatto leva sul concetto di “lettore medio” che, per come impiegato dal Giudice di primo grado nella motivazione della sentenza, è stato fatto erroneamente coincidere con il concetto di “lettore frettoloso” il quale, apprestandosi ad una rapida e sommaria lettura dell’articolo, senza alcun approfondimento o riflessione sul contenuto di quanto appreso, deduca surrettiziamente che il soggetto a cui l’articolo si riferisce sia al tempo stesso quello raffigurato nella foto allegata.
Così argomentando, la Suprema Corte ha ritenuto come al concetto di lettore medio sia stata indebitamente equiparata la figura di un lettore privo della capacità di sapersi orientare nella comprensione di un articolo che si accinge a leggere e dotato quindi di una capacità di comprensione inferiore, facilmente influenzabile anche solo da un semplice accostamento visivo di immagini, seppur per nulla afferenti a quanto argomentato nell’articolo.
Nello svolgere tale argomentazione, la Cassazione ha ritenuto come al “lettore medio” non possa accostarsi un profilo come quello tratteggiato dal Giudice di primae curae, in quanto afferente ad un soggetto non di certo ascrivibile alla “media” ma in grado di approcciarsi solo superficialmente alla lettura e alla comprensione di un testo o di una notizia in genere.
Gli Ermellini hanno pertanto ritenuto come, nel caso sottoposto al loro esame, soltanto ad una prima immediata quanto superficiale visione dell’articolo, il lettore medio avrebbe potuto convincersi del fatto che il “medico condannato” menzionato nel titolo dell’articolo potesse coincidere con quello raffigurato nella foto, immediata convinzione facilmente superabile, anche agli occhi del lettore comune, sulla base del contenuto dell’articolo stesso e delle caratteristiche della foto allegata.
Segnatamente, la Suprema Corte ha ritenuto come, pur senza l’impiego di particolari arguzie, anche il lettore medio avrebbe potuto facilmente percepire l’insussistenza di qualsiasi collegamento logico tra il contenuto dell’articolo – afferente alla prassi di rilasciare certificati medici per telefono – e i soggetti raffigurati nella foto – ossia un medico intento a mostrare una lastra radiografica ad un paziente – potendo pertanto analogamente giungere ad escludere che la prassi deontologicamente scorretta “condannata” nell’articolo fosse riferita all’operato del medico raffigurato nella foto allegata.
Essendo stata la carica diffamatoria totalmente addebitata alla foto allegata all’articolo – e non al contenuto dell’articolo stesso – gli Ermellini hanno precisato, riecheggiando le teorie difensive presentate nel corso del giudizio, come una fotografia ritraente una persona non richiamata in nessun passaggio dell’articolo (e di cui non viene speso in nessun caso il nome) non può essere ritenuta di per sé idonea a ledere l’altrui reputazione, in quanto il lettore medio non è in grado di collegare l’immagine allegata al soggetto che si ritiene offeso.
Peraltro, come già in passato argomentato dalla medesima Corte, “in tema di diffamazione a mezzo stampa, nel caso in cui l’articolo pubblicato non abbia di per sé un contenuto diffamatorio ma sia il complesso dell’informazione, per le modalità di presentazione e, soprattutto, per i titoli che l’accompagnano, ad attribuire all’informazione un contenuto offensivo dell’altrui reputazione, del fatto lesivo non può essere chiamato a rispondere l’autore dell’articolo quando questi si sia limitato – come di regola – a fornire il testo alla redazione del giornale, la quale abbia poi provveduto alla pubblicazione stabilendo essa, come appunto avviene di norma, la collocazione in una determinata pagina, la formulazione di titoli e sottotitoli ed ogni altro particolare”[3].
La Corte inoltre, senza dimenticare un constante precedente – secondo cui la mera prestazione del consenso alla pubblicazione di una foto da parte del soggetto in essa ritratto non opera sempre come scriminante del reato di diffamazione qualora l’immagine venga riprodotta in un contesto diverso da quello per cui il consenso era stato originariamente prestato e che implichi considerazioni negative nei riguardi della persona effigiata – ha precisato come il soggetto raffigurato nella foto allegata all’articolo aveva acconsentito anni prima a posare per un servizio fotografico in ambiente medico e come la foto così ottenuta fosse legalmente conservata nell’archivio del giornale, a cui il giornalista aveva attinto per la scelta dell’immagine da allegare.
Inoltre, per quanto attiene al profilo intenzionale, la volontà del giornalista nella scelta ed allegazione dell’immagine consisteva soltanto nel rendere immediatamente chiaro l’argomento trattato nell’articolo adiacente, senza che in nessun caso il suo operato fosse sorretto dalla cosciente intenzione di riferire la cattiva prassi diffusa in ambiente medico descritta nell’articolo al soggetto raffigurato nella foto (non essendo peraltro nemmeno a conoscenza dell’identità del soggetto effigiato).
In conclusione, il concetto di lettore medio viene definito dalla Suprema Corte come “colui che, sulla base di tutti gli elementi contenuti nella pubblicazione in contestazione, senza effettivi sforzi o particolare arguzia, sia perfettamente in grado di avvedersi del fatto che la persona raffigurata nella fotografia non abbia nulla a che fare con la vicenda di cui all’articolo in contestazione”.
Pertanto, alla luce dell’argomentazione svolta, la Cassazione è giunta ad escludere l’integrazione del reato di diffamazione in capo al giornalista autore dell’articolo de quo, stante la mancanza di un effettivo carattere offensivo della pubblicazione percepibile agli occhi del lettore medio e, dato il venir meno del reato presupposto di cui all’art. 595 c.p., ha analogamente escluso anche la configurabilità dell’autonoma fattispecie criminosa di cui all’art. 57 c.p. in capo al direttore responsabile del periodico, in quanto nessun contenuto diffamatorio era stato pubblicato per il tramite del giornale dallo stesso diretto.
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Note
[1] Recante “Modificazioni alle disposizioni del Codice Penale relative ai reati commessi col mezzo della stampa”, G.U. Serie Generale n. 62 del 12.03.1958
[2] Cass., Sez. V Penale, 07.07.1981, in “Cassazione Penale”, 1983, p. 640.
[3] Cass., Sez. V Penale, sentenza n. 1478 del 27.11.1991
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