Diniego di assunzione di un dipendente disabile, vincitore del concorso pubblico ma carente del requisito di disoccupazione ex Lege 68/99

1.Il principio secondo cui le quote di riserva nelle assunzioni presso le pubbliche amministrazioni postulano necessariamente lo stato di disoccupazione del soggetto interessato – costante nella vigenza della legge 2 aprile 1968, n. 482 (Disciplina generale delle assunzioni obbligatorie presso le pubbliche amministrazioni e le aziende private) – persiste anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 68 del 1999. 2. Il combinato disposto degli artt. 7, comma 2, 8 e 16 della legge n. 68 del 1999 va letto come archetipo regolamentativo ordinario dell’an del futuro reclutamento del disabile, mentre la disposizione ex art. 16 L. 1999 n 68, secondo comma,  come chance modale/assunzionale straordinaria ( oltre i limiti dei posti messi a concorso) per l’amministrazione pubblica. 3.  Il  divieto di discriminazione diretta e “indiretta”, come principio euro unitario e nazionale , impone al legislatore e alle amministrazioni la previsione/clausola di assunzione, in via prioritaria, dei soggetti disabili iscritti negli elenchi di disoccupazione ex art. 8 Legge 1999 n. 68.
Commento della sentenza della sezione Lavoro della Corte di Cassazione  n. 14790 del 10 luglio 2020, che ha accolto il ricorso di un’ Azienda ospedaliera locale volto all’annullamento della sentenza di accoglimento della Corte di Appello di Napoli n. 4777 del 25.09.2018 in tema di diniego di assunzione di un dipendente disabile,  vincitore del concorso pubblico ma carente del requisito di disoccupazione ex Lege 68/99.[1]
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Premessa
Con la sentenza in esame, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha accolto la domanda della Azienda ospedaliera beneventana volta ad annullare la sentenza della Corte d’Appello di Napoli che, in riforma della pronuncia di primo grado del Tribunale civile, aveva dichiarato illegittima il diniego di assunzione dell’appellante- vincitore disabile ma occupato al momento dell’instaurando reclutamento- inquadrando tale ricorso in appello come un’azione per discriminazione ex art 28 del DLvo  n. 150 del 2011.
Detta decisione di secondo grado veniva ancorata a una lettura esegetica della normativa in materia di tutela del diritto al lavoro dei disabili decisamente peculiare e suggestiva. La Corte d’appello, invero, riteneva che la non ammissione al beneficio della riserva dei posti in favore di disabili risultanti già occupati all’atto di assunzione avrebbe significato snaturare lo spirito della legge, che era quello di favorire il cd collocamento mirato, da realizzare non attraverso una qualsiasi occupazione, ma una occupazione conforme alle sue aspirazioni e capacità.
La Corte di Cassazione, tuttavia, nella esaminanda sentenza, confermata la natura di azione di discriminazione della domanda del dipendente escluso/resistente, ha accolto il ricorso dell’Azienda istante, cassando la sentenza di appello e rigettando la azionata domanda .
Ciò in quanto “..non costituisce comportamento discriminatorio la previsione, in sede di bando di concorso riservato alle categorie ex art. 8 della I. n. 68 del 1999, del requisito della sussistenza dello stato di disoccupazione anche al momento dell’assunzione, trattandosi di previsione avente la finalità di tutelare, in conformità con il dettato legislativo e con i principi affermati dalla Corte di Giustizia UE, il disabile disoccupato rispetto ad  altro soggetto, egualmente disabile, ma nelle more fuoriuscito dalla categoria dei disoccupati“….
Tanto, sulla base di una prospettiva ermeneutico/logica euro unitariamente e costituzionalmente orientata, diversa da quella del Giudice di seconde cure e incentrata sulla ricerca della mission prioritaria – garanzia della occupazione ai disabili disoccupati- della normativa nazionale di riferimento.
Brevi cenni sull’orientamento giurisprudenziale amministrativo in materia di assunzione/riserva di posti per i cittadini disabili.
La vexata quaestio della odierna analisi giuridica verte sulla corretta lettura della disposizione dell’art. 16, comma 2 della l. n. 68 del 1999 – Norme per il diritto al lavoro dei disabili- che così recita “…i disabili che abbiano conseguito le idoneità nei concorsi pubblici possono essere assunti, ai fini dell’adempimento dell’obbligo di cui all’articolo 3, anche oltre il limite dei posti ad essi riservati nel concorso….”.
Preme a chi scrive sottolineare che per la giurisprudenza amministrativa dominante le riserve di posto di cui agli artt. 1 e 3 della medesima legge speciale, avente come finalità la promozione dell’inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato,  debbono essere connesse allo stato di disoccupazione, il quale deve considerarsi sempre il presupposto necessario per la loro applicazione.[2]
Un diverso assunto è stato, in linea generale, considerato in conflitto con molteplici parametri costituzionali: con l’art. 3 Cost., atteso che il riconoscimento della tutela incondizionata alle categorie protette comprimerebbe posizioni giuridiche professionali consolidate in capo ad altri soggetti; con l’art. 4 Cost., per gli stessi motivi, essendo questo volto a promuovere le condizioni idonee a rendere effettivo l’esercizio del diritto al lavoro; con l’art. 38, perché promuovendo indiscriminatamente lo sviluppo di carriera, si supererebbero gli adeguati livelli di tutela imposti dal rispetto dei canoni di solidarietà che devono ispirare la legislazione sociale, specialmente in materia di impiego pubblico e con l’art. 97 Cost., in quanto violando i canoni di buon andamento e imparzialità, mediante la compressione dell’esigenza della pubblica amministrazione alla selezione dei soggetti maggiormente idonei a ricoprire le posizioni di responsabilità, si travalica il quantum di tutela riconoscibile ai soggetti svantaggiati dagli artt. 3, 4, e 38 Cost. [3]
Dalla lettera della norma non si evince, ad avviso della predominante giurisprudenza,  discrimen alcuno tra concorso riservato ai disabili in via esclusiva e non. Invero la ratio della Legge n. 68/1999 è quella di favorire l’inserimento lavorativo del soggetto svantaggiato che versi nello stato di disoccupazione; venendo meno la disoccupazione (e dunque l’iscrizione nelle liste), non vi è più tutela da accordare secundum legem a chi non rientri più negli elenchi dell’art. 8 cit.
E’ indubbio, secondo tale indirizzo,  che  la  legge  attribuisca  la  qualità  di  “riservista”  alla persona disabile in possesso dei requisiti di cui agli artt. 1 e 8, alla quale l’assunzione deve essere garantita, ove ritenuta idonea all’esito del concorso pubblico. Diversamente, si creerebbe un favor per il soggetto non  più  iscritto (in  quanto medio tempore «occupato») ai  danni degli altri concorrenti ancora in attesa di occupazione (e  iscritti  nelle cd. liste speciali), pervenendosi all’effetto distorsivo di consolidamento della posizione lavorativa del soggetto non più inoccupato in spregio all’aspirazione dell’inserimento lavorativo di tutti gli altri concorrenti ancora in attesa di occupazione e perciò iscritti nelle liste ex art. 8 L. 68/1999. E’ dunque proprio la permanenza dell’iscrizione al   momento   dell’assunzione   (e   il   perdurare   dello   stato   di disoccupazione) ad assolvere alla funzione di garanzia dell’interesse tutelato dalla norma speciale e non l’opposto.
         Percorso logico/argomentativo della corte di cassazione. Ricostruzione delle fonti cd esterne ed interne in materia di integrazione lavorativa delle categorie protette e, in particolare, di inquadramento del concetto di discriminazione.
In primis, il  Supremo Giudice nazionale civile ha circoscritto l’ambito di operatività della reclamata tutela antidiscriminatoria, nonché il quadro normativo nazionale/internazionale/euro unitario in cui essa si incastra .
Il diritto all’uguaglianza dinanzi alla legge ed alla tutela contro le discriminazioni costituisce un diritto universale riconosciuto a tutti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dai relativi trattati cui tutti gli Stati membri dell’UE hanno aderito, relativi rispettivamente ai diritti civili e politici ed ai diritti economici, sociali e culturali, dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali di cui tutti gli Stati membri sono firmatari.[4]

In particolare, la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006 , alla lettera e) del preambolo riconosce che la disabilità è un «concetto in evoluzione»  ed è il «risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri»; all’art. 1, stabilisce che: «Scopo della presente convenzione è promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità e prom uovere il rispetto per la loro intrinseca dignità. Per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri» ed all’art. 2 prevede che: «Ai fini della presente convenzione: (…) per ‘discriminazione fondata sulla disabilità’ si intende qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole; per ‘accomodamento ragionevole’ si intendono le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento o l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali (…)».
Sempre nell’ambito delle fonti internazionali, primario rilievo assume, poi, la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottata dal Consiglio d’Europa nel 1950, ratificata dall’Italia con legge 4 agosto 1955 n. 848, in seguito modificata e integrata mediante una serie di «protocolli». [5]
Nell’ambito del Diritto dell’Unione riveste, poi, significativa rilevanza la direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro indipendentemente dalla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali (cd. Direttiva “quadro”). Tale Direttiva fissa standards minimi comuni nelle leggi in vigore negli Stati membri UE contro la discriminazione fondata sulla razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale. L’obiettivo è creare un quadro giuridico generale per combattere queste forme di discriminazione e tradurre così nella pratica il principio della parità di trattamento.[6]

Per la direttiva in questione, sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1( tra gli altri, l’handicap), una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga; b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che: i) tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; o che li) nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro o qualsiasi persona o organizzazione a cui si applica la presente direttiva sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all’articolo 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi». [7]
Tale direttiva è stata attuata, nell’ordinamento interno con d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 . [8]

Nel diritto sovranazionale il principio di non discriminazione è altresì enunciato dai trattati fondativi e dalla carta dei diritti Fondamentali della Unione Europea.

A seguito delle modifiche operate dal Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009, l’attuale assetto ordinamentale giuridico dell’Unione prevede il Trattato sulla Unione Europea (derivante dal Trattato UE creato dal trattato di Maastricht; anche TUE) che si occupa della discriminazione agli artt. 2, 3 e 6 da cui si evince che l’Unione è fondata sul rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e che combatte ogni forma di discriminazione) e il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (derivante dalla riforma del Trattato CE; anche TFUE) che dedica alla discriminazione gli artt. 10 e 19 (in cui si ribadisce che l’Unione, nella definizione ed attuazione delle sue politiche e azioni, mira a combattere ogni forma di discriminazione fondata su sesso, razza, origine etnica, religione, convinzioni personali, disabilità, età, orientamento sessuale).

Fondamentale è anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 da Parlamento europeo, Consiglio e Commissione, che riprende con adattamenti la Carta adottata nell’ambito del Consiglio europeo di Nizza del 2000, e che, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ha il medesimo valore giuridico dei trattati (art. 6 TUE). Si pone dunque come pienamente vincolante per le istituzioni europee e gli Stati membri, allo stesso livello dei trattati e protocolli ad essi allegati; anche gli Stati membri sono tenuti a conformarvisi ma soltanto allorquando si trovino a dare attuazione al diritto dell’Unione.

La Carta proclama la centralità della persona fondata su valori indivisibili ed universali: libertà umana, uguaglianza e solidarietà. [9]
L’obiettivo è quello di garantire e favorire l’esercizio del diritto al lavoro, e ciò tanto nella fase di avviamento al lavoro quanto nel corso del rapporto di lavoro, prendendo al riguardo appropriate iniziative – anche attraverso misure legislative – a sostegno di forme di eguaglianza sostanziale.

Nell’ambito del diritto antidiscriminatorio dell’Unione, determinante è stato l’apporto della Corte di Giustizia europea, che ha individuato nel novero dei principi fondamentali europei proprio il c.d. divieto generale di discriminazione[10] , operante nel rispetto del canone dell’effettività  “persino in controversie tra privati” e “obbliga i giudici nazionali a disapplicare disposizioni nazionali non conformi a detto principio” e a disattendere le eventuali interpretazioni contrarie datene in precedenza.[11]
Il contributo giurisprudenziale della Corte EDU ha, inoltre, offerto una definizione di discriminazione c.d. diretta analoga a quella del diritto dell’Unione. Anche nella formulazione usata dalla Corte europea perché possa configurarsi una tale discriminazione deve sussistere una «differenza nel trattamento riservato a persone che si trovano in situazioni analoghe o significativamente simili, basata su una caratteristica identificabile».[12]

La individuazione, quindi, della cd discriminazione diretta può essere relativamente semplice rispetto alla discriminazione indiretta, per la quale sono spesso necessari dati statistici. Il trattamento sfavorevole assume rilievo ai fini della discriminazione qualora sia tale rispetto al trattamento riservato a un’altra persona che si trovi in situazione analoga. È quindi necessario un “parametro comparativo”, vale a dire una persona in circostanze materiali paragonabili, che si differenzi dalla presunta vittima principalmente per la caratteristica che forma oggetto del divieto di discriminazione. [13]
Si tratta di discriminazione c.d. indiretta, in quanto la differenza non risiede tanto nel trattamento, quanto piuttosto negli effetti che esso produce, che sono percepiti in modo diverso da persone con caratteristiche differenti. La Corte di Strasburgo ha fatto propria la definizione di discriminazione indiretta di cui all’art. 2, comma 2, lettera b), della direttiva sopra citata affermando che  «una differenza di trattamento può consistere nell’effetto sproporzionatamente pregiudizievole di una politica o di una misura generale che, se pur formulata in termini neutri, produce una discriminazione nei confronti di un determinato gruppo» . [14]

  Nell’ordinamento interno, come già evidenziato, il principio di non discriminazione trova il suo fondamento costituzionale negli artt. 2 e 3 della Costituzione e dunque, nel riconoscimento e nella garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità oltre che nel principio di uguaglianza formale – che impone di trattare situazioni uguali in modo uguale e situazioni diverse in modo diverso – espresso attraverso una serie di divieti specifici di discriminazione: per sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali nonché nel principio di uguaglianza sostanziale, che assegna allo Stato il compito di creare azioni positive per rimuovere quelle barriere di ordine sociale ed economico che di fatto limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini. L’inclusione sociale delle persone disabili pone il tema del diritto al lavoro (art. 4 Cost.), come espressione di partecipazione operosa alla vita collettiva, di contributo alla crescita generale ed economica del Paese ma anche di realizzazione di sé e dei propri desideri, di soddisfacimento delle aspettative e dei bisogni personali.
L’attuazione legislativa di tali principi costituzionali si è avuta dapprima con la legge 5 febbraio 1992, n. 104 ‘Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate’ .

Poi vi è stata la legge 8 novembre 1991, n. 381 ‘Disciplina delle cooperative sociali’ che all’art. 1, dopo aver stabilito che nelle cooperative si considerano persone svantaggiate gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, ha stabilito che tali persone svantaggiate devono costituire almeno il trenta per cento dei lavoratori della cooperativa e, compatibilmente con il loro stato soggettivo, essere socie della cooperativa stessa.
Si è, quindi pervenuti alla citata legge 12 marzo 1999, n. 68 , “Norme per il diritto al lavoro dei disabili’”, che ha specificamente inteso soddisfare la necessità di venire incontro al bisogno di inclusione ed integrazione effettiva delle persone affette da disabilità ed a quelle produttive degli operatori economici, unitamente all’esigenza di rimuovere disparità di trattamento con il comparto pubblico, destinato alla privatizzazione con il d.lgs. 3 febbraio1993, n. 29.
Con tale legge il legislatore ha operato una revisione organica della materia con l’obiettivo di superare l’approccio statuale di tipo ‘compensativo’ o ‘risarcitorio’ della menomazione psico-fisica nell’ambito della più ampia riforma del welfare caratterizzato, tra gli altri, dagli interventi legislativi di cui alle sopracitate leggi n. 104 del 1992 e n. 381 del 1991 e di diversa regolamentazione del mercato del lavoro e dei servizi per l’impiego, espressiva di un mutato approccio al problema e dalla logica di garantire in modo pieno ed effettivo il diritto al lavoro dei disabili.[15] Pertanto, detta normativa manifesta rispetto al passato una più accentuata sensibilità verso la persona affetta da disabilità, resa evidente dal riallineamento dei parametri delle quote di riserva a quelli fissati dagli altri paesi europei, nonché dalla equiparazione dei datori di lavoro pubblici a quelli privati, con la perdita da parte dei primi del privilegio, accordato dall’art. 12 della I. n. 482 del 1968, di subordinare l’assunzione degli invalidi al verificarsi delle vacanze in organico.[16]
L’art. 1 della I. n. 68 del 1999, al comma 1, lett. a) – poi modificata dall’art. 2, comma 1, del d.lgs. 14 settembre 2015, n.151 -, b), c), e d), ha individuato la platea dei beneficiari prevedendo al successivo art. 8, primo comma, che: “Le persone di cui al comma 1 dell’articolo 1, che risultano disoccupate e aspirano ad una occupazione conforme alle proprie capacità lavorative, si iscrivono nell’apposito elenco tenuto dagli uffici competenti (espressione, quest’ultima, modificata all’art. 7, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 151 del 2015 cit. in ‘servizi per il collocamento mirato’) nel cui ambito territoriale si trova la residenza dell’interessato (…)” e al comma 2 che “Presso gli uffici competenti è istituito un elenco, con unica graduatoria, dei disabili che risultano disoccupati (…)”.
La Corte di Cassazione, nella ricostruzione normativa operata nella sentenza in esame,  ha anche ricordato che la Corte di Giustizia, esaminato il complesso delle tutele interne (I. n. 104 del 1992, I. n. 381 del 1991, I. n. 68 del 1999, d.lgs. n. 81 del 2008 – quest’ultimo per l’aspetto dell’adeguamento delle mansioni alla situazione di disabilità -), ha accertato l’inadempimento della Repubblica Italiana all’obbligo di dare esecuzione alla disposizione dell’art. 5 della direttiva 2000/78/CE, per non avere imposto l’obbligo di prevedere soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili, in relazione a tutti i datori di lavoro ed ai diversi aspetti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro.[17]
Il legislatore italiano, per sanare detto inadempimento[18], con l’art. 9, comma 4-ter del d.l. 28 giugno 2013, n. 76 (convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2013, n. 99) ha inserito nel testo dell’art. 3 del d.lgs. n. 216 del 2003, di attuazione della direttiva 2000/78/CE sopra ricordato, un comma 3 bis, ai termini del quale: “… al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. ..”..
Questo il substrato normativo che sorregge la regolamentazione interna nazionale in tema di avviamento al lavoro dei soggetti portatori di handicap.
SULLA MODALITA’ DI ASSUNZIONE DEI PORTATORI DI HANDICAP ALLA LUCE DELLA NORMATIVA DI RIFERIMENTO.
     L’art. 16 della I. n. 68 del 1999 disciplina,come detto, l’assunzione delle persone di cui al comma 1 dell’art. 1,  mediante concorso pubblico ed al riguardo prevede, al comma 1, che: «Ferme restando le disposizioni di cui agli articoli 3, comma 4, e 5, comma 1, i disabili possono partecipare a tutti i concorsi per il pubblico impiego, da qualsiasi amministrazione pubblica siano banditi. A tal fine i bandi di concorso prevedono speciali modalità di svolgimento delle prove di esame per consentire ai soggetti suddetti di concorrere in effettive condizioni di parità con gli altri». La medesima disposizione al comma 2, stabiliva che: «I disabili che abbiano conseguito le idoneità nei concorsi pubblici possono essere assunti, ai fini dell’adempimento dell’obbligo di cui all’articolo 3, anche se non versino in stato di disoccupazione e oltre il limite dei posti ad essi riservati nel concorso». L’inciso «anche se non versino in stato di disoccupazione» è stato eliminato dall’ art. 25, comma 9 bis, della I. n. 114/2014.
Il quadro normativo si è arricchito con la I. 4 novembre 2010, n. 183 che, nel modificare alcuni articoli del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ha rafforzato la garanzia del principio di parità e pari opportunità e il conseguente divieto di discriminazione. In particolare, a seguito delle modifiche intervenute, l’art. 7, comma 1, del d.lgs. 165 del 2001 obbliga le pubbliche amministrazioni a garantire parità e pari opportunità tra uomini e donne e l’assenza di ogni forma di discriminazione, diretta e indiretta, relativa, tra l’altro, alla disabilità nell’accesso al lavoro, nel trattamento e nelle condizioni di lavoro, nella formazione professionale, nelle promozioni e nella sicurezza sul lavoro.
A chiusura del quadro nazionale, soccorre anche il comma 2 dell’art. 57 del d.lgs. 165 del 2001 secondo cui le pubbliche amministrazioni sono chiamate ad adottare tutte le misure per attuare le direttive dell’Unione europea in materia di pari opportunità, contrasto alle discriminazioni ed alla violenza morale o psichica, sulla base di quanto disposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della funzione pubblica.
In estrema sintesi, l’ordinamento prevede, quindi, tre diverse modalità di assunzione dei soggetti con disabilità: la chiamata numerica per le categorie e i profili per cui è richiesto il solo requisito della scuola dell’obbligo in base all’art. 35, comma 2, del d.lgs. 165 del 2001; il concorso (con riserva di posti) per le altre qualifiche secondo l’art. 16 della legge 68 del 1999; le convenzioni ai sensi dell’art. 11 della medesima legge 68 del 1999.
PROSPETTIVA ESEGETICA DELLA CORTE DI CASSAZIONE NELLA FATTISPECIE IN RASSEGNA.
Nel caso in esame, l’Azienda Ospedaliera locale,  con il bando di concorso in questione,  si è avvalsa della seconda indicata modalità di assunzione prevedendo non un concorso aperto a tutti e con riserva di posti ma proprio un concorso interamente riservato alle categorie ex art. 8 della I. n. 68 del 1999.
In particolare, si trattava  di un concorso non aperto ai normodotati e quindi la discriminazione andava valutata, a termini della giurisprudenza della Corte EDU sopra citata, con riferimento ai soggetti nella medesima situazione o condizione e cioè con riferimento agli altri appartenenti alle categorie ex art. 8 della I. n. 68 del 1999. Ed infatti con le previsioni di alla I. n. 68 del 1999 ed in particolare con le previsioni speciali riservate ai disabili e concernenti le pur differenti modalità di assunzione non può ragionarsi in termini di rapporto con il normodotato avendo il legislatore previsto, per facilitare al disabile il reperimento della prima occupazione, un iter particolarmente agevolato e modalità diverse rispetto a quelle previste per il lavoratore abile.
Era solo con riguardo agli altri appartenenti alle categorie protette (“parametro comparativo”e cioè persone in circostanze materiali paragonabili, che si differenziano dalla presunta vittima principalmente per la caratteristica che forma oggetto del divieto di discriminazione) che andavano verificate l’eventuale carenza di una adeguata e ragionevole giustificazione della verificatasi differenziazione ovvero la sproporzione tra la giustificazione stessa ed i mezzi utilizzati.
Ed è proprio alla luce di tale verifica che, ad avviso della Suprema Corte, la scelta di cui al bando (lex specialis) di richiedere la sussistenza dello stato di disoccupazione non solo al momento della presentazione della domanda ma anche al momento dell’assunzione è risultata  “misura idonea a tutelare o quantomeno a non postergare il disabile che, all’atto dell’assunzione, permanesse nello stato di disoccupazione”.
Invero, la previsione di cui all’art. 16, comma 2, della I. n. 68 del 1999 (nel testo anteriore alle modifiche di cui alla sopra citata n. 114 del 2014) secondo la quale che i disabili che abbiano conseguito le idoneità nei concorsi pubblici possono essere assunti dalle pp.aa. anche se non versino in stato di disoccupazione e oltre il limite dei posti agli essi riservati nel concorso non può indurre a superare il convincimento della rilevanza, in termini generali, dello stato di disoccupazione nel sistema dell’avviamento obbligatorio, atteso che, in altre disposizioni del medesimo testo legislativo, è ribadita la necessità dell’iscrizione agli elenchi dei disoccupati. Ed infatti la previgente formulazione dell’art. 16, comma 2, lungi dall’introdurre una deroga alla indicata generale irrilevanza, prevede(va), al contrario, un’ipotesi particolare (che si collocava successivamente alla individuazione, ai fini dell’assunzione, dei vincitori), confermando a fortiori, che al di fuori della fattispecie ivi prevista, in termini di disciplina generale il disabile doveva essere disoccupato per poter beneficiare delle speciali procedure di assunzione legislativamente previste.
Del resto, in una logica di interpretazione sistematica dell’art. 16 e delle sopra citate disposizioni di cui agli artt. 7, comma 2,  e art. 8 della I. n. 68 del 1999, che, esplicitamente richiedono e presuppongono lo stato di disoccupazione, assume indubbia valenza chiarificatrice del significato e della portata delle stesse proprio l’abrogazione dell’inciso di cui all’art. 16 “..anche se non versino in stato di disoccupazione…” ad opera della I. n. 114 del 2014.
Conclusioni.
Dall’ampia disamina effettuata, sia a livello di fonti internazionali, euro unitarie che di fonti interne, si ricava che la norma  ex art. 16 della citata Legge 68 del 1999, secondo comma,  esemplifica  una regola eccezionale e favorevole ai soggetti beneficiari della legge speciale de qua,  e, in quanto tale, non può essere letta disgiuntamente dai principi orientativi generali contenuti sia nella medesima legge (in specie, artt 1, 2, 7 e 8) sia nelle disposizioni internazionali, euro unitarie e costituzionali richiamate.
In poche parole, ad avviso della scrivente, la norma ex art.16 legge 68/99, secondo comma,  evidenzia “una” possibilità/chance di tipo modale/quantitativo, consacrando ex ante come legittima la eventuale discrezionale scelta amministrativa di assunzione “anche oltre i limiti dei posti previsti”. Tanto, sul presupposto della imprescindibilità del prioritario obiettivo fissato dalla medesima normativa e dalle fonti  internazionali/euro unitarie: garantire in primis la occupazione al disabile non integrato lavorativamente.
L’ottica è, e, quindi, resta la inclusione del soggetto disabile nel tessuto lavorativo nazionale come mission dispositiva ordinaria e prioritaria.
Ne consegue che, nel caso in osservazione,  la censurata clausola del bando è in linea con tale obiettivo di inclusione del disabile attesa la ratio di “garanzia di una occupazione a chi non l’abbia”, in piena conformità con il dettato costituzionale, ed in particolare, oltre che con l’art. 4, con il principio di eguaglianza sostanziale(art. 3, comma 2) e con quello di solidarietà (art. 2).
Questo, evidentemente, non significa svilire legittime aspettative di miglioramento di una condizione lavorativa ma semplicemente consente di realizzare il “primo obiettivo” del legislatore, ossia assicurare una occupazione a chi versi in uno stato di disoccupazione al momento dell’assunzione.
I vari delineati interventi normativi in materia di pubblico e privato impiego si sono susseguiti e meglio perfezionati proprio allo scopo di assicurare due forme di parità : quella tra i soggetti normodotati e i soggetti disabili; all’interno della categoria dei soggetti disabili, quella tra gli occupati e i disoccupati.
Solo dopo il ripristino dei due citati profili di giustizia sostanziale, si può poi verificare la cd conformità del lavoro alle inclinazioni del soggetto disabile.
In estrema sintesi, e per concludere, ad avviso di chi scrive , l’amministrazione ricorrente, prevedendo la possibilità di reclutamento solo in caso di perdurante stato di disoccupazione al momento dell’atto di arruolamento, non solo, come ben evidenziato dagli ermellini,  ha agito in sintonia “discrezionale”con il pluriargomentato principio del  divieto di discriminazione indiretta all’interno della categoria protetta in questione, ma, in primis, ha adempiuto in modo “vincolato” a un imprescindibile input normativo nazionale e sovranazionale: il collocamento/inserimento  dei cittadini con disabilità all’interno del circuito lavorativo nazionale.
Una volta adempiuta tale preminente esigenza di solidarietà, equità e giustizia sostanziale, perseguita e garantita dal descritto “sistema di protezione multilivello”[19], si potrà procedere alla valutazione “mirata”della posizione lavorativa, attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e di relazione.
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Note
[1]Cfr. Legge 1999 n. 68 “ Norme per il diritto al lavoro dei disabili”, art.16 “…Ferme restando le disposizioni di cui agli articoli 3, comma 4, e 5, comma 1, i disabili possono partecipare a tutti i concorsi per il pubblico impiego, da qualsiasi amministrazione pubblica siano banditi. A tal fine i bandi di concorso prevedono speciali modalità di svolgimento delle prove di esame per consentire ai soggetti suddetti di concorrere in effettive condizioni di parità con gli altri.

I disabili che abbiano conseguito le idoneità nei concorsi pubblici possono essere assunti, ai fini dell’adempimento dell’obbligo di cui all’articolo 3, anche oltre il limite dei posti ad essi riservati nel concorso.
(comma così modificato dall’articolo 25, comma 9-bis, legge n. 114 del 2014)
Salvi i requisiti di idoneità specifica per singole funzioni, sono abrogate le norme che richiedono il requisito della sana e robusta costituzione fisica nei bandi di concorso per il pubblico impiego….”

[2] Cfr.Cons. St., III sez., 30.5.2017, n. 2562, nonché T.A.R. Campania, V sez., 3.8.3016, n. 4004, che a sua volta richiama Cons. St., VI sez., 14.12.2016, n. 7395, secondo le quali “i lavoratori disabili devono essere iscritti negli elenchi menzionati all’art. 8, comma 2, per poter beneficiare della “riserva dei posti nei limiti della complessiva quota d’obbligo e fino al cinquanta per cento dei posti messi a concorso”, sicché appare evidente che lo stato di disoccupato debba essere posseduto necessariamente, se non altro ai fini di poter beneficiare dell’aliquota di posti a concorso» (Cons. St., 7395/2016).
[3] Cfr. Corte Cost. sentenza 190.06.
[4]     Tra le fonti internazionali regolamentanti, in particolar modo, la materia del lavoro meritano considerazione la Convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro del 28 giugno 1958, entrata in vigore il 5 giugno 1960, che proibisce la discriminazione in materia di occupazione e condizioni di lavoro, le Regole per le pari opportunità dei disabili adottate dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 dicembre 1993 e la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (UNCRPD) del 13 dicembre 2006, entrata in vigore sul piano internazionale il 3 maggio 2008, ratificata in Italia con I. n. 18 del 2009 e dall’UE nel dicembre 2010 (decisione 2010/48).
[5] In particolare il divieto di discriminazione è sancito dall’art. 14 di tale Convenzione, che garantisce la parità di trattamento nel godimento dei diritti riconosciuti dalla stessa («Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione»).
[6] Ai sensi dei considerando 11, 12, 16, 17, 20 e 21 della direttiva 2000/78/CE: «(11) La discriminazione basata su religione o convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali può pregiudicare il conseguimento degli obiettivi del trattato CE, in particolare il raggiungimento di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale, la solidarietà e la libera circolazione delle persone. (12) Qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su religione o convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali nei settori di cui alla presente direttiva dovrebbe essere pertanto proibita in tutta la Comunità. Tale divieto di discriminazione dovrebbe applicarsi anche nei confronti dei cittadini dei paesi terzi, ma non comprende le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e lascia impregiudicate le disposizioni che disciplinano l’ammissione e il soggiorno dei cittadini dei paesi terzi e il loro accesso all’occupazione e alle condizioni di lavoro. (…) (16) La messa a punto di misure per tener conto dei bisogni dei disabili sul luogo di lavoro ha un ruolo importante nel combattere la discriminazione basata sull’handicap. (17) La presente direttiva non prescrive l’assunzione, la promozione o il mantenimento dell’occupazione né prevede la formazione di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione, fermo restando l’obbligo di prevedere una soluzione appropriata per i disabili. (…)(20) È opportuno prevedere misure appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento. (21) Per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni». 
[7] L’art. 3 della direttiva 2000/78/CE, rubricato «Campo d’applicazione», al paragrafo 2 dispone che: «Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità, la presente direttiva, si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gliorganismi di diritto pubblico, per quanto attiene: (…) e) all’occupazione ealle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione; (…)». L’art. 5, intitolato «Soluzioni ragionevoli per i disabili», è così formulato: «Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili».
[8] Cfr. d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 all’art. 2, commi 1 e 2, della prima ha riprodotto la definizione del principio di parità di trattamento, inteso come assenza di qualsiasi discriminazione, ed i concetti di discriminazione diretta e discriminazione indiretta ed al comma 3, dopo aver previsto l’ambito di applicazione del divieto di discriminazione (esteso, per quanto di interesse nel presente giudizio, all’accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, all’occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento, all’accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali) ha individuato alcune possibili eccezioni: si tratta di quelle differenze di trattamento, che, pur risultando indirettamente discriminatorie, sono giustificate da finalità legittime perseguite dal datore di lavoro, nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, attraverso mezzi leciti e giustificati (“non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima”).
[9] Cfr. art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che vieta qualsiasi forma di discriminazione; ciò significa che è possibile contestare sia la normativa dell’UE che la legislazione nazionale che attua il diritto dell’Unione, qualora si ritenga che la Carta non sia stata rispettata. Tale disposizione è in stretto collegamento con il successivo art. 51 che definisce l’ambito di applicazione delle disposizioni della Carta. L’art. 26 stabilisce che l’UE «riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità»; infine, l’art. 27 riconosce il diritto delle persone con disabilità al lavoro, su base di parità con gli altri.
[10] Così nella sentenza 11 luglio 2006, causa C-13/05, Chacón Navas c. Eurest Colectividades SA, la Corte di Giustizia si è      espressa sulla portata generale delle disposizioni in materia di discriminazione fondata sulla disabilità e ha colto l’opportunità per rilevare che il termine ‘disabilità’ dovrebbe avere una definizione uniforme a livello comunitario.
Nella giurisprudenza dell’Unione Europea si è innanzitutto fornita una nozione di ‘handicap’ da intendersi, ai sensi della direttiva 2000/78/CE, nel senso di: «una limitazione di capacità, risultante in particolare da durature menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell’interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori» (Corte di Giustizia UE sentenze: 11 aprile 2013, HK Danmark, C- 335/11 e C-337/11, punti 38- 42; 18 marzo 2014, Z., C-363/12, punto 76; 18 dicembre 2014, FOA, C-354/13, punto 53; 1° dicembre 2016, Daouidi, C- 395/15, punti 41-42; 9 marzo 2017, Milkova, C-406/15, punto 36; 18 gennaio 2018, Ca. En. Ru. Co., C-270/16, punto 28). La Corte, al riguardo, ha ricordato che la nozione stessa di ‘handicap’, pur se non è definita dalla direttiva 2000/78/CE, va intesa alla luce della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (cfr. HK Danmark cit.) ed ha, poi, confermato l’assunzione nell’ordinamento europeo di una nozione di handicap di stampo sociale, in luogo di una valutazione a carattere esclusivamente medico.
[11] I casi in cui la Corte ha statuito in maniera più netta la diretta applicabilità del principio generale di eguaglianza e non discriminazione ad atti degli Stati membri sono stati la sentenza del 15 gennaio 2014, Association de médiation sociale, C-176/12 e la sentenza del 19 aprile 2016, Dansk Industri, C-441/14.
[12] v. Corte EDU, decisione 6 gennaio 2005, Hoogendijk c. Paesi Bassi dec. n. 58641/00.
[13] v. Corte EDU, sentenza 18 febbraio 1991, Moustaquim c. Belgio n. 12313/86; Corte EDU, sentenza 27 novembre 2007, Luczak c. Polonia n. 77782/01; cfr. anche Corte EDU, sentenza 16 settembre 1996, Gaygusuz c. Austria n. 17371/90; Corte EDU, sentenza 29 aprile 2008, Burden c. Regno Unito n. 13378/05; Corte EDU, sentenza 16 marzo 2010, Carson e a. c. Regno Unito n. 42184/05.
[14] cfr Corte EDU, sentenza 13 novembre 2007, D.H. e a. c. Repubblica ceca n. 57325/00, punto 184; Corte EDU, sentenza 9 giugno 2009, Opuz c. Turchia n. 33401/02, punto 183; Corte EDU, sentenza 20 giugno 2006, Zarb Adami c. Malta n. 17209/02, punto 80a.
[15] . In particolare l’art. 1, comma 1, di tale legge ha stabilito che: «La presente legge ha come finalità la promozione dell’inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato». E’ proprio il collocamento mirato che costituisce la vera novità, intendendosi per tale, come precisato dall’art. 2, «quella serie di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e di relazione». 
[16]      v. Cass., Sez. Un., 22 febbraio 2007 n. 4110.
[17] V. sentenza 4 luglio 2013, C 312/2011, proposta da Commissione europea contro Repubblica italiana.
  [18] In particolare, richiamando il considerando 21 del preambolo della direttiva, la Corte di Giustizia, in conformità dell’art. 2, comma 4, della Convenzione dell’ONU, ha definito gli ‘accomodamenti ragionevoli’ come «le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo, adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali». Quanto alla I. n. 68 del 1999, la CG ha evidenziato che essa ha lo scopo esclusivo di favorire l’accesso all’impiego di taluni disabili e non è volta a disciplinare quanto richiesto dall’art. 5 della direttiva 2000/78/CE.
[19] Cfr M. Cartabia, “I diritti fondamentali in Europa dopo Lisbona: verso nuovi equilibri?” In Giorn. Dir.amm.2010,2011.

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