La tutela della paternità e della maternità: il congedo di maternità e paternità

Nell’attuale ordinamento giuridico italiano, la tutela della maternità e della paternità è assicurata, precipuamente, dal Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151, recante il Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53, emanato in attuazione della Direttiva del Consiglio dell’Unione Europea n. 34 del 3 giugno 1996 in materia di congedo parentale, e recependo la non infrequente giurisprudenza della Corte Costituzionale e degli orientamenti maggioritari della Corte di Cassazione, nonché sostituendo, per abrogazione espressa, la preesistente legge 30 dicembre 1971, n. 1204, recante disposizioni sulla “Tutela delle lavoratrici madri”.
L’intero assetto normativo trova ampia copertura costituzionale in alcuni fondamentali articoli della nostra Legge fondamentale, quali l’art. 30, a norma del quale “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”, l’art. 37, comma 2, a mente del quale “le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”, e l’art. 38, secondo cui “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.
Parimenti, il codice civile, all’art. 2110, correlativamente al prefato art. 38 cost., dispone che “in caso di infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge o le norme corporative non stabiliscono forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un’indennità…”.
Conseguentemente, per i lavoratori dipendenti del settore privato, la tutela assistenziale è assicurata dall’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, al quale i datori di lavoro sono normativamente obbligati a versare i contributi previsti e determinati in misura percentuale alle retribuzioni corrisposte ai dipendenti.
L’Istituto previdenziale, dal canto suo, è tenuto a corrispondere ai lavoratori, a sua volta, gli emolumenti economici previsti dal citato Testo Unico, in sostituzione della normale retribuzione, al verificarsi degli eventi che ne danno titolo e che determinano la giustificata mancata prestazione dell’attività lavorativa, a fronte della quale, comunque, l’Istituto riconosce l’accredito di contributi figurativi utili ai fini pensionistici.
Per i lavoratori del settore pubblico, invece, il legislatore demanda alla contrattazione collettiva di comparto la disciplina de qua, con la previsione dell’addebito degli emolumenti a carico delle rispettive Amministrazioni pubbliche e con l’ulteriore specificazione di garanzia secondo cui la normativa pattizia di settore (id est di comparto), non può prevedere condizioni deteriori rispetto alla previsione legale di cui al prefato Testo Unico.
L’art. 16 del T.U. di cui al D.Lgs. 151/2001 disciplina, in analogia con l’abrogata “astensione obbligatoria” di cui alla prefata legge 1204/1971, l’istituto del “congedo di maternità”, a mente del quale la lavoratrice ha diritto a cinque mesi continuativi e non frazionabili di astensione dal lavoro, articolati in due periodi, rispettivamente, di due mesi antecedenti alla data presunta del parto (congedo ante partum), e di tre mesi successivi alla data effettiva del parto (congedo post partum), cui si aggiunge il giorno stesso del parto.
In verità, detto diritto della lavoratrice ad astenersi dal lavoro è reso dalla legge obbligatorio anche a fronte del divieto, normativamente previsto, in capo al datore di lavoro, di adibire le lavoratrici a qualsiasi attività durante il periodo di gravidanza (il cui dovere di avviso al datore di lavoro spetta alla lavoratrice) e puerperio, pena la sanzione dell’arresto fino a sei mesi, nonché di non assegnare alla lavoratrice, nel periodo che va dalla gravidanza ai sette mesi successivi alla nascita del figlio, ad attività pericolose, faticose o insalubri ed al sollevamento e trasporto di pesi, ovvero, per le lavoratrici appartenenti alle Forze dell’Ordine, al lavoro operativo e, infine, di non adibire al lavoro notturno nella fascia oraria 24 – 6 la lavoratrice, dal momento della gravidanza fino ad un anno di vita del bambino.
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La lavoratrice, inoltre, in particolari situazioni, può ricorrere, ancor prima dell’inizio del congedo ante partum, all’istituto dell’interdizione anticipata dal lavoro ai sensi dell’art. 17 del T.U., per uno o più periodi, in caso di gravi complicanze della gravidanza o a fronte di situazioni lavorative o ambientali pregiudizievoli alla salute della stessa o del nascituro.
Antecedentemente all’entrata in vigore della legge 4 aprile 2012, n. 35, il provvedimento di interdizione anticipata dal lavoro era di competenza esclusiva della Direzione Territoriale del Lavoro.
A seguito di tale novella, invece, quest’ultimo Ente continua ad essere competente per l’emanazione dei provvedimenti di interdizione concernenti le condizioni di lavoro pregiudizievoli per la donna o il figlio, mentre in tutti i casi di gravidanza a rischio, la nuova competenza a provvedere sull’interdizione dal lavoro viene attribuita in via esclusiva all’Azienda Sanitaria Locale territoriale, che la farà decorrere in data pari a quella del certificato medico rilasciato dallo specialista ginecologo, allegato all’istanza della lavoratrice.
Pertanto, a fronte del ricevimento dell’istanza della lavoratrice inoltrata all’A.S.L., e corredata dal certificato medico ginecologico, il datore di lavoro ha l’obbligo di collocare la lavoratrice in astensione dal lavoro giustificata per interdizione da gravidanza a rischio, a decorrere dalla data indicata sul certificato stesso ed a prescindere dal ricevimento del provvedimento di interdizione emanato dall’A.S.L.
Altra forma di interdizione è quella, anzidetta e più lieve, concernente il divieto di adibire la lavoratrice ad attività o in ambienti che siano di nocumento alla salute della stessa e/o del bambino. In tali casi il datore di lavoro, appena ricevuta notizia dell’accertamento della gravidanza ed una volta accertate, conseguentemente, le condizioni ambientali pregiudizievoli, adibisce la lavoratrice a mansioni diverse o la colloca in ambienti di lavoro idoneamente compatibili con il suo status, dalla data di inizio della gravidanza fino al settimo mese di vita del bambino.
Pertanto, nel caso in cui la lavoratrice venga adibita a mansioni diverse da quelle originarie, la stessa manterrà comunque la retribuzione di provenienza e la relativa qualifica, mentre se tali mansioni risultino superiori a quelle d’origine, ella avrà diritto alla retribuzione correlata al tale mansione, sino al termine del periodo di interdizione.
Qualora, infine, le caratteristiche dell’azienda o dell’Amministrazione siano tali da non contemplare attività compatibili con lo status della lavoratrice in gravidanza, la Direzione Territoriale del Lavoro, su istanza della lavoratrice o dello stesso datore di lavoro, emetterà il provvedimento di interdizione anticipata dal lavoro valevole fino all’inizio del congedo per maternità ante partum. Ai sensi dell’art. 18 T.U. l’inosservanza delle disposizioni in materia di interdizione al lavoro della lavoratrice è punita con l’arresto fino a 6 mesi.
Allo spirare del congedo post partum, invece, il datore di lavoro verificherà la presenza di attività lavorativa o di ambiente di lavoro compatibile con lo status della lavoratrice fino al compimento del settimo mese di vita del figlio; in difetto, il congedo post partum verrà prorogato fino a tale scadenza.
Una deroga alla durata parziale del congedo di maternità è offerta alla lavoratrice, a sua esclusiva richiesta, qualora la stessa intenda differire di un mese l’inizio del congedo ante partum, riducendosi lo stesso da due ad un mese e fermo restando la durata complessiva di cinque mesi del congedo di maternità, stante la maggiore durata del congedo post partum, da tre a quattro mesi.
Per ottenere detto beneficio, la lavoratrice deve presentare apposita istanza corredata della certificazione di gravidanza, non superiore al settimo mese, rilasciata dal medico specialista ginecologo del Servizio Sanitario Nazionale, nonché certificazione medica rilasciata dal medico competente individuato ai sensi del D. Lgs 9 aprile 2008, n. 81, recante il Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, attraverso il quale viene accertata l’inesistenza di rischi pregiudizievoli per la salute della lavoratrice e del nascituro.
Analoga tutela è riconosciuta alla lavoratrice in caso di interruzione della gravidanza, spontanea o terapeutica. Ai sensi dell’art. 12, comma 1, del D.P.R. n. 1026/1976, se l’interruzione della gravidanza avviene prima del compimento del 180° giorno dall’inizio della gestazione, essa viene considerata come “aborto” e l’ordinamento riconosce tale assenza dal servizio a titolo di “malattia”.
La determinazione dell’inizio della gravidanza è dettata dall’art. 4 del medesimo testo regolamentare, ai sensi del quale l’inizio della gravidanza, ossia il concepimento, si considera avvenuto 300 giorni prima della data presunta del parto certificata dallo specialista ginecologo.
Pertanto, se al momento dell’interruzione della gravidanza la lavoratrice beneficia del regime di interdizione dal lavoro, esso si interrompe con tale evento, e la successiva assenza dal servizio viene giustificata a titolo di malattia, sebbene la durata della stessa non rilevi ai fini del computo del c.d. periodo di comporto.
Se invece l’interruzione della gravidanza avviene dopo il 180° giorno dall’inizio della gestazione, essa è considerata, ad ogni effetto, parto, ed alla lavoratrice è riconosciuto l’ordinario congedo di maternità post partum di tre mesi.
Infine, l’art. 16, comma 1-bis del T.U., così come introdotto dal d.lgs n. 119/2011, ha attribuito alla lavoratrice, per la quale si sia determinata interruzione della gravidanza dopo il 180° giorno dall’inizio della gestazione, ovvero decesso del figlio alla nascita, ovvero durante il successivo congedo post partum, la facoltà di riprendere in qualunque momento l’attività lavorativa, mediante rinuncia di tutto o di parte del congedo post partum e con un preavviso di giorni dieci, a condizione che il medico specialista ginecologo del Servizio Sanitario Nazionale ed il Medico Competente aziendale, previsto ai sensi del prefato D.Lgs. n. 81/2008, attestino l’insussistenza di condizioni pregiudizievoli alla salute della puerpera e del figlio.
Per ciò che concerne gli aspetti retributivi e previdenziali, la fruizione del congedo di maternità comporta che l’assenza dal servizio sia computata nell’anzianità di servizio, a tutti gli effetti, compresi quelli delle ferie e della tredicesima mensilità.
Per quanto concerne, invece, i profili economici, l’assenza dal servizio per maternità retribuita con una indennità pari all’80% della retribuzione spettante ai lavoratori del settore privato, mentre per i pubblici dipendenti spetta la retribuzione per intero, sebbene limitata alla componente fissa e ricorrente.
Il congedo di paternità è invece previsto dall’art. 28 del D.Lgs n. 151/2001, ma in via residuale rispetto all’analogo congedo di maternità, in quanto spetta al padre lavoratore in determinati casi, tipizzati dal legislatore, nei quali la madre non può o non vuole sopperire alle incombenze genitoriali derivanti dal concepimento e dalla nascita del figlio.
Quanto appena esposto evidenza l’importante distinzione tra le due tipologie di congedi, i quali, sebbene abbiano come comune denominatore l’assistenza e la cura del figlio, si distinguono in ordine alla cogenza o meno delle prescrizioni legali, in quanto il congedo di maternità comporta l’obbligo del datore di lavoro di collocare in assenza giustificata dal servizio la donna lavoratrice per i periodi determinati dalla legge, mentre il congedo di paternità rappresenta una facoltà che il padre lavoratore può esercitare a fronte della nascita del figlio, nei casi tipizzati dal legislatore.
Gli eventi che legittimano la fruizione del congedo di paternità da parte del padre lavoratore sono i seguenti:

a) la morte della madre;
b) la grave infermità della stessa, la quale dovrà essere accertata dall’INPS per il settore privato, ovvero dall’ASL o altra Autorità competente per il settore pubblico, a fronte della certificazione sanitaria prodotta dal padre e riferita all’altro genitore;
c) l’abbandono del figlio da parte della madre, con la specificazione che, se l’abbandono avviene dopo il riconoscimento del bambino da parte della madre, il padre dovrà produrre il provvedimento del Giudice con il quale la madre viene dichiarata decaduta dalla potestà genitoriale;
d) in caso di affidamento esclusivo del figlio al padre, da comprovare mediante allegazione del provvedimento del Tribunale con il quale viene disposto l’affidamento esclusivo del bambino al padre lavoratore.

In presenza di questi presupposti, debitamente comprovati e documentati, al padre lavoratore spetta il diritto/facoltà di assentarsi legittimamente dal servizio per la durata, in tutto o in parte, del congedo post partum che sarebbe spettato alla madre, alle stesse condizioni giuridiche, economiche e previdenziali statuite per il congedo di maternità.
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